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Venezia 2010

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67a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica
 
Se qualcuno avesse scommesso che non si sarebbe consegnato in tempo il nuovo Palazzo del Cinema per celebrare il 150º anniversario dell’Unità d’Italia, uno delle opere più rappresentative da realizzare in occasione dell’evento, non avrebbe vinto un euro. Perché? Perché siamo in Italia. Confermato ancora una volta il luogo comune, che oramai non è più tale, per cui nel nostro Paese certe opere e certi eventi non si riescano ad organizzare, soprattutto nei tempi prestabiliti. Ho ancora davanti agli occhi l’immagine dei Mondiali di nuoto a Roma dello scorso anno, dove la maggioranza delle opere non fu completata e quando, alle prime gare di tuffi, giravano ancora gli elettricisti a terminare i lavori, il tutto nascosto da teloni e strutture provvisorie.
Ed il Festival di Venezia non rappresenta un’eccezione. A questo punto, venendo a mancare lo stato di emergenza, ci si chiede quando termineranno effettivamente i lavori, di un progetto già di per sé ridimensionato in corso d’opera. Dalle quattro sale previste, il nuovo Palazzo del Cinema, più tre sale interrate, si sono stralciati i lavori interrati, per vari motivi (ma quelli si trovano sempre), dalla mancanza di fondi al ritrovamento di amianto nel sottosuolo. Intanto però si sono abbattuti i 132 alberi della pineta del piazzale e del giardino del Casinò, probabilmente inutilmente, visto il ritorno al vecchio progetto iniziale della sola sala principale, realizzabile semplicemente sopraelevando la sala cinematografica attuale. È scandaloso che in un Festival Internazionale di questa portata, succedano queste cose. Datemi del qualunquista, ma sono sicuro che a Cannes o a Berlino non sarebbe successo. Purtroppo un cantiere così, aperto in quella posizione, non ha ripercussioni solamente per i festeggiamenti, ma ne risentono la stessa fruizione ed organizzazione dei Festival di questo periodo. Quest’anno era più evidente, anche rispetto allo scorso anno, l’allontanamento della gente dall’evento, soprattutto quella che segue l’aspetto mondano del Festival, mentre sembrano state confermate le presenze, al livello delle altre edizioni, della stampa e degli accreditati. Il che non giova, perché l’evento rischia di collassare su se stesso e divenire un momento solo per addetti al lavoro.
Diverse polemiche hanno accompagnato la presidenza di Quentin Tarantino di quest’anno, accusato, con la propria personalità e la propria visione del cinema, di aver troppo indirizzato i premi secondo i propri gusti, e soprattutto di non aver gratificato le pellicole italiane presenti in Mostra. Ennesima occasione del nostro Ministro della “cultura” Sandro Bondi per esternare perle di saggezza sulla materia cinema, a lui sconosciuta.
«Tarantino è espressione di una cultura elitaria, relativista e snobistica. E la sua visione influenza anche i suoi giudizi critici, pure quelli verso i film stranieri». (Bondi1)
«Mueller è innamorato dei propri schemi fino al punto di non privilegiare i talenti e le novità che sono sotto gli occhi di tutti». (Bondi2)
«Siccome i finanziamenti sono dello Stato, d’ora in poi intendo mettere becco anche nella scelta dei membri della giuria del Festival del cinema di Venezia». (Bondi3)  No Comment.
La vittoria di “Somewhere” di Sofia Coppola ha fatto molto discutere. Sì, forse non è una pellicola clamorosa, e forse il premio compensa in qualche modo il precedente “Lost in Translation”, presente alla 60a edizione del Festival nel 2003, ma non inserita nel concorso ufficiale, che gli avrebbe consentito di puntare al Leone d’Oro. Nell’edizione di quest’anno non si è assistito comunque a pellicole eclatanti, ed il premio a “Somewhere” non è scandaloso. Nei 4/5 dei film in concorso da me visionati non c’è stato, infatti, a differenza delle ultime edizioni, il film migliore ben riconoscibile come possibile vincitore. Tornando alla polemica sui film italiani ed ai presunti premi non dati al nostro cinema, andiamo ad analizzare in particolare le quattro pellicole italiane inserite nel concorso ufficiale. Non ci sono state pellicole mediocri, come spesso è successo nelle ultime edizioni, ma per diversi motivi, pur in un’edizione non straordinaria, non c’erano lavori che spiccavano.
“La Passione” di Carlo Mazzacurati è un film “carino”, ma non va più in là di questo. Qualche battuta, buoni attori, ma la storia è po’ semplice, non è una pellicola di grande spessore. La “Pecora Nera”, di Ascanio Celestini, non l’ho visionata, ma dai commenti sentiti, e dalle sensazioni avute, anche se non posso esprimermi direttamente, contiene in sé i pregi ed i difetti di un certo tipo di cinema di denuncia della società italiana, dove spesso a fronte di argomenti importanti, viene sacrificata un po’ la parte puramente cinematografica. Il film “Noi credevamo”, di Mario Martone, nonostante un argomento indigesto, il Risorgimento Italiano e la durata della pellicola (204 minuti), si segue dall’inizio alla fine, ma è difficilmente collocabile come prodotto da sala cinematografica, è più immaginabile come prodotto televisivo, da visionare in più serate. Problematico da prendere in considerazione per una giuria internazionale. “La solitudine dei numeri primi”, nonostante il regista Saverio Costanzo dia un’idea di regia riconoscibile, forse deve fare i conti con una storia che, trasposta su pellicola, risulta essere un po’ piatta. Alcuni ritengono che il best seller da cui è tratta sia stato un po’ sopravvalutato, e in ogni caso è difficile trasformare in immagini le caratteristiche di uno stile di scrittura. La stravaganza vera sono queste polemiche, e soprattutto da chi arrivano, in un anno che vede vincitore il cinema americano, dopo che per anni ci si è lamentati di snobbarlo, allontanando di fatto le star americane dal Lido. In tutti i Festival si assistono a polemiche di questo tipo, ed in fondo poi i riconoscimenti lasciano il tempo che trovano, non è certo una giuria che determina la bellezza di un film.
Paradossale che, proprio nell’anno in cui presidente di giuria sia stato Tarantino, che ha fatto dei dialoghi e dell’azione uno dei punti di forza del suo cinema, si sia assistita ad un’edizione dove anche le cinematografie europee ed americane hanno manifestato una preoccupante deriva “orientale”. La tendenza di proporre un cinema minimale, fatto di storie semplici, pochi dialoghi, incentrato molto su immagini fisse, lunghi primi piani, con un trionfo di tempi morti e sviluppi appena abbozzati, lasciati molto all’intuizione, caratteristiche che spiccavano nelle cinematografie orientali, sta diventando il punto di riferimento comune. Diverse pellicole hanno manifestato queste particolarità, fra le quali anche il Leone d’Oro di quest’anno. Indubbio comunque, che i premi dati abbiano giustamente riflettuto i gusti della giuria ed in particolare del suo presidente Tarantino. Il Leone Speciale per l’insieme dell’opera a Monte Hellman a è un chiaro omaggio al suo mentore che fu produttore esecutivo del suo primo film “Le Iene”. L’Osella per la migliore sceneggiatura ed il Leone d’Argento per la migliore regia ad Álex de la Iglesia per il film “Balada triste de trompeta” era quasi scontato, visto le caratteristiche delle pellicole del regista spagnolo, qui assolutamente in linea con la sua produzione. In questo caso, la pellicola risulta essere anche di maggior spessore rispetto alle precedenti, con l’inserimento di un punto di vista politico, che, soprattutto ad inizio film, la rendono molto avvincente. L’altra pellicola premiata, Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile (Vincent Gallo) e Premio Speciale della Giuria, è stata “Essential Killing” del regista polacco Jerzy Skolimowski, storia di un prigioniero talebano scappato, dopo un trasferimento, nel cuore delle foreste dell’Europa centrale, fuggitivo con momenti alla “Forrest Gump”, fuga infinita verso l’inevitabile morte. Film con pochissimi dialoghi, molto giocato sulle immagini e sul protagonista Vincent Gallo.
Se è consentita una critica verso la giuria, è forse quella di aver completamente ignorato il film canadese “Barney’s Version” di Richard J. Lewis, intelligente commedia con la solita straordinaria interpretazione di Paul Giamatti ed un Dustin Hoffman particolarmente in forma. La sfortuna lo ha voluto essere commedia e ultimo film in concorso, binomio che di solito non da molte opportunità, soprattutto qui a Venezia.
Se invece si è certamente assistito ad un’unanimità di pareri, tranne poche ed inspiegabili eccezioni (Il Manifesto lo ha considerato un film a cinque stelle), è stato nel giudicare “Promises Written in Water” di Vincent Gallo, il peggior film in concorso, irritante nella propria autocelebrazione e francamente una vera presa in giro verso gli spettatori, prodotto completamente insensato, ma con notevoli ed ingiustificate pretese artistiche.
In generale forse le pellicole migliori si sono viste nella sezione Settimana Internazione della Critica, dove i lavori presentati tendevano meno alla ricerca di un linguaggio artistico particolare, come nel Concorso Ufficiale o nelle altre sezioni del Festival, ma verso un cinema fatto più di contenuti. Da citare, fra tutti, il vincitore di questa 25a Settimana Internazionale della Critica, il film svedese “Svinalängorna (Beyond)” di Pernilla August, commovente pellicola sui problematici rapporti all’interno di una famiglia e sulle drammatiche conseguenze della propria disgregazione.
In generale il Festival di Venezia, in questi anni, soprattutto sotto la gestione di Marco Müller, ha raggiunto un buon livello, sia nell’organizzazione sia nelle pellicole, e la nuova era del Palazzo del Cinema potrebbe portare ad un ulteriore salto di qualità. Nella speranza, per ora, che i lavori finiscano … velocemente.

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