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Gli esordi di un genio

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Gli esordi di un genio

Come non definire tale Stanley Kubrick? Ogni suo film è stato un nuovo punto di partenza per il cinema e tuttora, anche se sempre più di rado, all’invidiabile età di 69 anni tutto il pubblico è in rispettosa attesa
del suo nuovo misterioso film. Non conosco nessuno che non abbia visto almeno due o tre tra i suoi incontestabili capolavori a partire da "2001 – Odissea nello spazio" per proseguire con "Shining", "Lolita", "Full metal jacket", "Arancia meccanica" o "Il dottor Stranamore". Stanley Kubrick ha dovuto però attendere l’interessamento personale di Kirk Douglas prima di poter scrivere e dirigere film ad alto budget, senza che la grandi case produttrici gli imponessero di annacquare le sue storie con pasticciate storie d’amore. Fu proprio Douglas, ormai 50enne e maturo professionalmente, che spese il suo nome verso le major per permettere al giovane Kubrick di portare sullo schermo il romanzo "Orizzonti di gloria" senza alcun compromesso; il solo nome di Douglas nel cast bastò per un grosso finanziamento. Kubrick si era fatto notare dalla critica statunitense soprattutto per il suo terzo lungometraggio, dopo alcuni brevi documentari su commissione. Quel film si intitola "Rapina a mano armata", il titolo originale è "The killing", la strage e ancora oggi qualcuno, a distanza di oltre 40 anni, gli deve molto.
"Rapina a mano armata" è un film noir, seconda la classificazione dei film di quel periodo. Qualsiasi film che trattasse di gangster, belle donne ed un crimine spesso fallito si può categorizzare come "noir",
distinguendolo dal poliziesco perché i protagonisti sono i ladri e non le guardie, distinguendolo dal giallo perché non c’è nessun mistero da chiarire, distinguendolo dal semplice drammatico perché il crimine e la giustizia si sparano qualche colpo di pistola. La storia è tratta da un romanzo e non è particolarmente originale. Un malvivente (che parola vetusta!) appena uscito da Alcatraz organizza un colpo all’ippodromo con l’aiuto di quattro disgraziati che non hanno nulla da perdere se non le loro misere esistenze. Johnny Clay ingaggia quindi il barista dell’ippodromo, un brav’uomo angosciato dalla malattia della moglie, il cassiere sposato ad una donna che lo ignora e lo tradisce, il poliziotto sommerso dai debiti ed un pensionato solo che accetta volentieri il ruolo di "padrino" della missione. Il colpo è ben architettato: Clay sa come si può rubare l’intero incasso giornaliero dell’ippodromo durante la corsa più importante della stagione e con il solo aiuto di due professionisti per i compiti più delicati più l’ingenua devozione dei suoi complici nulla dovrebbe andare storto. In un intreccio semplice ma ben congegnato Clay regge tutti i fili, ognuno conosce il suo compito ma sa ben poco di quello che faranno gli altri, ognuno di loro si sente in questo modo protetto e ampiamente ripagato del suo piccolo sforzo. Nel frattempo assistiamo all’inferno coniugale del cassiere George continuamente umiliato da una sfavillante Sherry nella pochezza della sua abitazione, la stessa Sherry che dopo avere facilmente estratto dall’ansimante marito tutti i dettagli del colpo organizza un delitto insieme con l’amante per rubare a sua volta i soldi del bottino. Clay ha pensato a tutto: le guardie saranno distratte dalla rissa fatta scoppiare volutamente dall’amico lottatore russo, un personaggio autobiografico di Kubrick che aveva appena smesso di racimolare qualcosa giocando a scacchi nel bar. E’ proprio il lottatore russo che in momento del film dice che "i gangster e gli artisti hanno in comune di essere ammirati ed idolatrati quando le cose vanno bene ma di essere i primi a voler essere distrutti quando l’invidia e la paura prendono il sopravvento"; Kubrick si concede qui una personale allacciatura tra il noir che sta girando e la propria vita. La rapina si conclude ma qualcosa va poi storto. Mentre i quattro complici attendono l’arrivo di Clay con il bottino, l’amante di Sherry fa irruzione nell’appartamento ed una breve sparatoria lascia tutti morti sul pavimento tranne il povero George che ha appena le forze per tornare a casa, farsi umiliare ancora una volta dalla moglie ed ucciderla morendo insieme a lei, accanto al canarino, l’unica creatura a suo agio in quella casa. Clay capisce al volo cosa è successo, ha in tasca tutto il bottino ma una valigia difettosa si apre ironicamente prima di essere caricata sull’aereo che l’avrebbe portato al sicuro. I soldi svolazzano per tutta la pista e, proprio all’uscita, due poliziotti compaiono sotto ai titoli finali. Il film è finito e così la grande rapina.
La storia in sé, come ho già detto, non era certo una novità, soprattutto in un periodo di grande produzione cinematografica e letteraria di storie noir, gialle e poliziesche. Ciò che colpì la critica di allora fu la padronanza della storia da parte di Kubrick. La storia è la vera protagonista e non l’ammontare del bottino, la bellezza della pupa del gangster o la sparatoria più lunga dello schermo. Kubrick si padroneggia molto bene con i ripetuti flashback e con le didascalie vocali che si limitano ad introdurre le scene successive senza sostituirle. Come in "Le iene", anche in "The killing" ognuno dei differenti punti di vista della rapina è visto dalla sua vera provenienza. Vediamo così la meticolosa preparazione di ognuno di loro al grande giorno, perfettamente sincronizzata nei luoghi e nei tempi. Il barista porta il fucile nascosto in una scatola di fiori, il cassiere (di servizio al banco con le giocate più basse) deve solamente aprire una porta, il poliziotto porterà via il bottino ma è il solo Clay che esegue qualcosa di veramente impegnativo. E’ lui che, maschera sul volto, entra nella stanza della cassaforte e si fa riempire il sacco.
Poche inquadrature ci bastano per individuare nel poliziotto un uomo troppo sicuro di sé e troppo convinto che sia solo un facile lavoretto, ci bastano per capire che il pensionato è un uomo troppo solo, ci bastano per capire la silenziosa e sincera disperazione del barista così come la lenta agonia del cassiere. Kubrigk misura ogni dialogo più che ogni inquadratura. Il lottatore russo è l’unico che con le sue parole scalfisce l’eccessiva sicurezza di Clay e quando rimane a torso nudo contro 10 poliziotti Clay ha altro da fare. Il cecchino che sparerà al cavallo favorito muore impietosamente dopo aver forato le gomme della macchina con un ferro da cavallo che gli era appena stato regalato con disprezzo. La morte di George è l’unica che gli era concessa, barcollante e sfigurato dal dolore grida il suo amore alla moglie
perfida, gli altri della banda escono di scena tutti insieme senza rendersene conto. La macchina da presa, in una delle sue sole occasioni nelle quali è condotta a mano, indugia ravvicinata sui loro volti
inutili. Kubrick gioca col montaggio narrativo della storia, osa e vince. I flashback e la sincronia delle azioni risultano alla fine ineccepibili.
E’ molto interessante guardare il primo vero film di quello che poi diventerà uno dei registi più misteriosi e allo stesso tempo potenti della costellazione cinematografica.



Michele Benatti

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