"Niagara Niagara" è stato in concorso a Venezia nella passata edizione ma solamente adesso ho avuto la possibilità di vederlo, se non altro per tutto il parlare che fece di sé ma anche, e soprattutto, per vedere Robin Tunney, l’interprete femminile vincitrice di un premio.
Fughiamo subito ogni dubbio. "Niagara Niagara" è un road movie, è una storia d’amore, è la visione di un disturbo psichico chiamato sindrome di Tourette. Mancava un film su questa particolare forma di autismo che spinge a tic incontrollati, tra i quali l’impossibilità di trattenere urlanti sconcezze ed offese. "Niagara Niagara" usa però solamente come forte pretesto la sindrome per raccontare più semplicemente la storia di due ragazzi depressi che si incontrano casualmente e, sempre casualmente, finiscono per dividersi. Lei, Marcy, è alcolizzata ed intontita dai farmaci che hanno il compito di alleviare la sua aggressività pronta ad esplodere in qualsiasi momento. Lui, Seth, è un ladruncolo da supermercato che non riesce a guardare negli occhi le persone che incontra. Seth e Marcy si scontrano proprio al supermercato dove lui ha le tasche piene di robetta da rubare e lei sta disperatamente cercando una testa di Barbie nera da pettinare.
L’incontro, lo si capisce immediatamente, è uno di quelli ai quali è assegnato un seguito. Seth vede in Marcy quella spontaneità e quel comportamento maleducatamente estroverso, anche a causa dell’incomprensione del suo disturbo, al quale lui sembra negato. Marcy vede in Seth quell’immobilità e quella gentilezza a tratti vigliacca che la natura le ha negato. Marcy e Seth partono poi per Toronto; "in una grande città ci sarà sicuramente la testa di Barbie nera" dice Marcy che lascia una famiglia ricchissima (e assente) a Seth che abbandona il padre sdentato. Il road movie a questo punto segue l’andamento previsto, in una escalation di rapine, minacce e disperazione Marcy e Seth finiscono in casa del rottamaio Walter che li ospita e li nasconde. Il disturbo di Marcy è ormai incontrollabile, l’alcool e la mancanza delle sue pillole l’hanno resa pericolosa. Seth è cresciuto, ora è lui che dirige il viaggio verso Toronto. Durante una crisi Marcy quasi uccide il gentile Walter a bastonate e ormai non c’è altra soluzione che fuggire ancora una volta, e questa volta definitivamente, verso il Canada. Ci arriveranno, ma proprio durante il tentativo di acquistare la testa di Barbie nera il film ha il suo epilogo. L’assoluta incomprensione della società "normale" che non riesce a capire il desiderio morboso di una testa di bambola nera quando ce ne sono di altrettanto belle, che scambia i due ragazzi per dei tossicodipendenti, che percepisce il dramma psichiatrico di Marcy come una minaccia fa sì che Seth e Marcy siano assolutamente soli anche in un supermercato. Il Niagara è lo spettacolo della natura che segna il loro passaggio alla purificazione. Finalmente loro di fronte ad un fenomeno che non li giudica, che li ignora, soli in mezzo ad altrettanti turisti soli che guardano solamente l’acqua.
Il giovane regista Bob Gosse, fondatore della stessa Shooting Gallery che ha prodotto il film, sembra svolgere un lavoro di semplice trasposizione della sceneggiatura di Matthew Weiss, in nessun momento
riesco a scorgere qualcosa di personale, una caratteristica che ne identifichi il punto di vista, che faccia distinguere "Niagara Niagara" da un’altra storia. La sindrome di Tourette non basta per descrivere e
giustificare il disagio della giovane Marcy, comunque ben interpretata dalla Tunney mentre Henry Thomas fotografa bene Seth e la sua evoluzione durante il viaggio verso una maturità tutta personale. Il film è abbastanza canonico: auto, rapina, motel, notte, stanchezza, lucidità, follia. Ad un certo punto però ci si chiede che piega abbia preso la storia di "Niagara Niagara" quando i due stanno per un terzo del film nella casa dello sfasciacarrozze e, anche se l’intenso finale recupera qualcosa, la sensazione che rimane è quella che ti fa dire "beh" o "insomma"; proprio così.
Una cascata di dubbi
Michele Benatti