Era appesa nel suo studio, e forse c’è ancora, una vecchia fotografia in bianco e nero, naturalmente, data l’epoca, formato cartolina, racchiusa in una cornicetta di legno lucido che si era conservata nel tempo, (e ne aveva di anni), ed aveva attraversato, insieme ad altre poche cose, le traversie di un intera vita: i traslochi, lo sfollamento, la guerra, altri traslochi…cosa non accade in settanta e più anni? Era di legno buono la cornicetta, bisogna pur dirlo e il vetro – altra stranezza, se vogliamo – non si era mai rotto. Le sue piccole dimensioni gli avevano giovato, evidentemente.
Perché il vecchio avesse conservato con tanta cura quel quadretto per tutta la vita, è uno di quegli strani misteri che non trovano esauriente spiegazione. Misteri che non sono poi misteri; sono semplicemente cose che accadono, così, involontariamente, per abitudini inconsce che portano a salvaguardare dall’incuria oggetti di poco valore, come una foto in un quadretto, che si sposta da una stanza all’altra da una parete all’altra, e le si trova sempre posto e nessuno mai si pone la domanda ma che cosa ci sta a fare questa cosa qui, perché non la togliamo. E’ piccola, non dà fastidio e – vedi caso – porta con sé il ricordo di un momento della vita, di una mattinata diversa dalle altre, mai più ripetutasi. La fotografia rappresenta semplicemente un bambino sdraiato di fianco sull’erba, un braccino piegato, gomito a terra e la testa che poggia sulla mano aperta. Il viso leggermente corrucciato, non proprio infastidito, ma semplicemente annoiato, indifferente, senza alcun entusiasmo. Forse gli hanno detto: mettiti lì che ti faccio la fotografia, e lui si è messo lì. Si vede, da una parte una bicicletta appoggiata a un albero e un elemento estraneo, un pezzo di scarpa, in basso, che dimostra anche la scarsa attenzione del fotografo dilettante. Mettiti lì, che ti faccio la fotografia. E quella cartolina ha attraversato (ignaro certamente il suo autore) tre quarti di secolo, di casa in casa, di parete in parete. Ogni tanto qualcuno ha passato uno straccio sul vetro per toglierne la ben nota velatura di polvere che il tempo depone sulle superfici lisce, anche se verticali.
Il luogo della fotografia non si deduce assolutamente. Non si deduce neanche sapendolo, perché c’è solo il bambino sdraiato sull’erba e un paio di case oltre il prato. I margini della fotografia tagliano fuori drasticamente ogni qualsivoglia particolare d’ambiente. Potrebbe essere un qualunque prato in un qualunque luogo, un metro quadrato di terra erbosa, quanta ne basta per contenere un bambino sdraiato su un fianco.
Piazza Ariostea era ed è una vasta piazza di Ferrara. Come si fa a non dire che Ferrara è una città sontuosa? Sulla piazza, tangente al Corso Porta Mare, si affaccia maestoso il palazzo del Duca Massari, con il suo parco dai tronchi tormentati, vecchi di secoli. Un convento di suore sull’altro lato, che ospita scuole di ogni ordine e grado. Suor Olinda e suor Marcolina erano i nomi che il vecchio aveva conservato nella mente.
Piazza Ariostea era un tempo a livello del piano stradale circostante, poi, dopo la guerra, all’interno della cintura dei maestosi tigli che la circondano e la delimitano, il piano fu abbassato. Si ricavò così una bellissima pista per il pattinaggio a rotelle e il prato erboso si ridusse tutt’intorno di alcuni metri.
Al centro domina ancora l’alta colonna marmorea sulla quale si innalza la statua di Ludovico Ariosto. Ferrara ne ha fatto una sua gloria. Pur essendo di Reggio Emilia aveva preso dimora a Ferrara, al servizio della corte estense e si era costruita una bella casetta a poche centinaia di metri dalla piazza che ebbe il suo nome. Parva, sed apta mihi…piccola, ma adatta a me, pulita, e…soprattutto pagata coi miei soldi. Così dice la scritta in latino che taglia a mezz’altezza la facciata.
Il bambino chiedeva spesso alla mamma se lo lasciava andare a giocare in Piazza Ariostea, poiché abitavano in Via del Fossato, una stradina quieta che parte appunto da uno degli angoli di Piazza Ariostea, costeggiando un lato del convento delle suore. Era figlio unico, lui, e la mamma temeva per lui ogni possibile pericolo. L’attraversare la strada era un pericolo incombente. A quel tempo ci saranno state in circolazione per la città forse cento automobili (quando circolavano tutte!) e via del Fossato era forse una delle strade che non ne aveva mai visto una. Ma era una strada, ed era quindi un pericolo l’attraversarla. Il vecchio non ricordava di aver mai giocato in Piazza Ariostea. Quella mattina della fotografia, col babbo e un amico di famiglia, o un lontano parente (non lo seppe mai con precisione) erano passati per la piazza e l’amico (o il parente?) aveva detto: mettiti lì, che ti faccio la fotografia. Aveva appoggiato la bicicletta al tronco di un albero e aveva scattato, e la bicicletta era rimasta presa nel rettangolo del mirino, ma lui non ci aveva fatto caso. Né nessun altro mai protestò.
Gli anni, i decenni, trascorsero, i figli avevano abitato la casa e poi si erano sposati, ed ebbero casa e bambini. Ed il bambino di Piazza Ariostea fu nonno, più e più volte.
Poi come accade a tutti i nonni, un giorno morì. E morì anche la nonna, effigiata anch’ella in tante fotografie, sui mobili, negli album di famiglia, bella e splendente com’era stata nei suoi anni giovani. Uno splendore che non balzava esatto dalle fotografie, per belle che fossero. Sarebbe stato necessario fotografare la mente del nonno, la sua memoria, per vedere quella bellezza, quello splendore, quella dolcezza di cui le fotografie non le rendevano giustizia. La vera fotografia della nonna era irrimediabilmente perduta, perché era soltanto nella mente del nonno.
Del bambino di Piazza Ariostea, che s’era invecchiato senza accorgersene, sul cui visino di sei anni traspariva una mestizia inspiegabile, che non s’era mai cancellata del tutto, che traspariva spesso suo malgrado senza che egli potesse darne una spiegazione, che si traduceva in parole se tentava un discorso, se scriveva un brano di prosa, se tentava, illudendosi, di scrivere una poesia, figli e nipoti si divisero la inconsistente eredità, fatta di libri e di ricordi.
Ma quando ebbero tra le mani la cornicetta di legno formato cartolina col bambino sull’erba si chiesero che significato avesse, chi fosse. Niente che potesse identificare l’immagine.
"Credo che fosse il nonno da bambino", disse uno dei figli, spiegandolo ai piccoli più curiosi.
"Per lui doveva essere importante, perché ricordo di averla sempre vista appesa da qualche parte" disse un altro.
Prima finì in un cassetto, poi la fotografia fu sostituita con un’altra di maggior attualità, e continuò a rimanere appesa sull’una o l’altra parete dell’una o l’altra stanza, poiché la cornicetta era destinata a sfidare ancora altro tempo a venire.
Una cornicetta di legno buono può durare più a lungo della vita di un uomo e persino più del ricordo ch’egli può lasciare di sé.
Piazza Ariostea
Franco Braga