Avevo diciott’anni quell’estate, o forse diciassette. Non mi ero mai allontanato da solo dalla mia casa, dalla mia città, che poi non era neanche mia, essendo nato altrove e trasferitomi poi lì, in seguito al lavoro di mio padre. Ma tant’era, in quella città ci stavo crescendo e stava diventando mia. Avevo perduto, almeno in buona parte l’accento emiliano e assunto quello locale.
Era il tempo dei treni popolari. Il Regime, fra le tante idee per dare la polvere negli occhi alla gente, aveva escogitato anche questa trovata. Non s’era istituita ancora la moda del week-end, che sarà anch’essa popolare, ma è costosa. Il treno popolare, al contrario, permetteva di fare una gita in qualche luogo che veniva proposto con un pretesto artistico o culturale e con un costo modestissimo.
C’era il Carro di Tespi, a Riccione, quell’estate. I ragazzi di oggi non sanno cos’era il Carro di Tespi. Forse non sanno neppure chi è, anzi, chi fu, Tespi.
Ebbene, Tespi fu un poeta tragico greco, vissuto a cavallo fra il sesto e il quinto secolo a.C., che scriveva le sue tragedie e le rappresentava, di città in città nel suo teatro ambulante. Se lo portava dietro su un carro. Ecco il Carro di Tespi. Ma il Carro di Tespi istituito dal Regime, non era un vero e proprio carro, ma quello che oggi, con termine rinnovato, viene chiamato teatro tenda.
Davano il Mefistofele, quell’anno. Treni popolari per Riccione, quindi, da ogni località. Si partiva il sabato pomeriggio, c’era il "sabato fascista", in analogia a quella forma di prefestività che i lavoratori italiani conoscevano solo di nome, ma che non avevano mai potuto praticare e che si chiamava "sabato inglese". Si partiva il sabato verso sera e dormicchiando si arrivava la domenica mattina, all’alba.
Ci abitava un mio cugino, a Riccione, nato proprio lì. Era più giovane di me di un paio d’anni. Suo padre, cioè mio zio Giannetto, faceva il fotografo e aveva bottega sul viale Ceccarini. Chi frequenta Riccione sa che il viale Ceccarini è stato, e lo è diventato sempre più, il centro cardiaco della vita balneare di Riccione. Non lo si può descrivere, bisogna andarci e vederlo.
A quei tempi non c’era tutta la folla di adesso, nemmeno la metà. E nemmeno metà della metà. Cominciava forse allora a diventare un "business" di qualche interesse la valorizzazione della spiaggia. Per intanto ci aveva pensato Mussolini, romagnolo, che aveva presso la spiaggia una villa dove trascorrere le sue vacanze. La famiglia, più che altro. Mio cugino William frequentava la casa Mussolini ed era coetaneo di uno dei figlioli, Romano. Quel Romano Mussolini, diventato poi jazzista, con riconoscimento internazionale, che sposò la sorella di Sofia Loren, ed è tuttora vivente e padre dell’attuale onorevole Alessandra Mussolini.
William, scomparso ahimè qualche anno fa, giocava a tennis con Romano Mussolini e anche col Duce. E privo della reverente diplomazia che è propria dei ragazzi, osò, una volta, battere a tennis il Duce del Fascismo. Il Duce – mi diceva William – c’era rimasto male e non volle più giocare a tennis con lui; preferiva il figlio Romano che, o era una schiappa a quel gioco, o temeva la faccia scura del padre quando perdeva. Lo lasciava vincere.
Sembrano bazzecole, ma non si può dimenticare che in quegli anni e nei successivi, quando cominciò l’infausta guerra che coinvolse il mondo intero, lo slogan coniato da Mussolini era "Vincere! E vinceremo!" (e fu forse allora che gli umoristi, allorché le cose cominciarono a mettersi male sul serio, sotto banco lanciarono la battutaccia: se non vince-Remo, vince-Romolo). E purtroppo (o per fortuna?) fu così.
Al di là di queste cose, in ogni modo, io, giovanetto diciassettenne, ero orgoglioso, direi di avere un cugino di primo sangue che era di casa coi Mussolini, e proprio in quel tempo in cui il fascismo era all’apice della sua brillantezza. Lo sapemmo, lo capimmo, solo molto più tardi, che quella brillantezza non era quella inalterabile dell’oro, bensì quella effimera dell’ottone trattato assiduamente col Sidol, l’allora famoso prodotto dolcemente abrasivo usato per pulire gli ottoni e l’argenteria.
William era un tipo allegro, con un forte senso dello humour. I romagnoli, già nel parlare sono divertenti, quel loro accento suona canzonatorio o anche soltanto ironico, anche se parlano di cose serie. Mi piaceva moltissimo. Ci volevamo bene, accidenti, ci volevamo proprio bene. Oltre a tutto, col passare degli anni era rimasto l’unico appiglio che io avevo con la mia schiatta. Morti tutti, uno alla volta, figlio unico io, William rappresentava per me tutti gli altri che non c’erano più.
E ora non c’è più neanche lui. Che era più giovane di me.
Ero arrivato dunque a Riccione, col treno popolare, da solo. Questa era stata la grande novità. Adesso un bambino può attraversare l’Atlantico da solo, in aereo, sia pure affidato all’attenzione di una hostess. Allora era stato un avvenimento per me andare a Riccione col treno popolare.
Lungo la spiaggia, deserta in quell’ora poco più che antelucana, perlaceo il mare per il sole appena sorto, rimasi a guardare a lungo. La sabbia che si stava asciugando dall’umidore notturno mi entrava nelle scarpe. Preferii ritirarmi sulla passeggiata a mare, deserta anche quella, già a quei tempi linda e piastrellata, che forse si sarebbe affollata più tardi, ma, come ho detto, non più di tanto. Riccione era un grosso paesotto della riviera romagnola e niente di più. Forse fu proprio l’essere stato scelto a residenza estiva dal Duce che attrasse gente e vi sorsero poi, pur scomparso Mussolini, i grandi alberghi, le strade, i parcheggi e i cosiddetti stabilimenti balneari, con ombrelloni e sedie a sdraio in affitto e gli chalet con le bibite e i gelati.
Cercai mio cugino, che abitava in paese, nella banda opposta alla spiaggia. Lo zio Giannetto si era messo insieme una casetta, in via Generale Galliano, con la zia Elsa, morta recentemente, ultranovantenne, sopravvissuta al figlio, della cui scomparsa non si rese conto, sperduta la sua mente nelle nebbie della demenza senile, curata dalla figlia (sorella di William) che, vista un paio di volte quand’era ancora bambina, non ho mai conosciuto, né ci siamo mai scambiati una notizia, un biglietto, una telefonata. In tutta la vita. So soltanto di avere una cugina a Riccione, sposata, senza figli, ormai vecchia e pensionata anche lei dopo aver lavorato in una agenzia turistica, non so se propria o altrui. Non so se lei sa di me e che cosa sa. Ci siamo ignorati in maniera totale. Una negligenza.
William. da vivo, mi aveva invitato più volte ad andare a Riccione a trascorrervi con la mia famiglia, una settimana di vacanza. Ma a me il mare non attira più del normale. Il sole mi tormenta la pelle perché sono fotosensibile, allergico. Il medico mi ha detto che non c’è niente da fare. La folla della Riccione attuale mi spaventa solo a vederla talvolta in TV.
Dopo quella volta del treno popolare sono stato di passaggio a Riccione nel 1950. Due o tre ore. Una passeggiata con William su e giù per il viale Ceccarini, una bibita, un gelato insieme. Chiuso per sempre.
William abitava normalmente a Ferrara la città d’origine mia e dei miei antenati. Fu là che ci vedemmo e rivedemmo e stringemmo quel vincolo fraterno di cui ora non mi resta che la memoria.
La sera di quella Domenica andai con William a vedere il Mefistofele.
Avevo trascorso parte del pomeriggio sul lungomare; lo zio Giannetto mi aveva fatto la fotografia. Mi muove ad un sorriso malinconico il riguardarmi.
Indossavo pantaloni color panna, una giacca "blu elettrico", si diceva, avevo i capelli ancora castani, un ricciolone sulla fronte, sorridevo.
Il lungomare si era moderatamente affollato e mi ero riempito gli occhi di graziose ragazze in costume da bagno, coetanee o più giovani di me. Quelle quattordici/quindicenni dalle lunghe gambe nude, tornite come sculture del Canova, che non avevo mai visto fino a quell’età, mi rivelavano l’esistenza di tutto un mondo sconosciuto, reale e intoccabile, che avevo potuto pensare solo nei sogni. Mi sfioravano, le sfioravo, e mi riempivano le nari dell’odore del sole e della carne accaldata e della salsedine adriatica.
E sono ricordi e sensazioni ed emozioni che nemmeno la più lunga consuetudine alla vita che seguì quel giorno è mai riuscita a cancellare.
E’ lungo il Mefistofele o tale mi parve; morivo dal sonno e mi addormentai, per ridestarmi solo poco prima del finale.
William mi accompagnò alla stazione che era notte fonda. Il treno popolare per il ritorno ripartiva, gli orari erano stati scrupolosamente considerati. La gente si affollava a prendere posto negli scompartimenti. Vi riuscii anch’io, dormendo in piedi. Non ricordo come mi congedai da William quella volta. Non ne abbiamo neanche più parlato di quel giorno, nei lunghi anni che seguirono e nei nostri affettuosi, seppur non frequenti incontri.
Ignoro tuttora il Mefistofele, con buona pace di Wagner. Ricordo solo con vivacità mentale, una fanciulla bionda, di schiena, in costume da bagno chiaro a fiorellini, che, mi ero voltato a guardare, mentre si allontanava, sul marciapiede piastrellato di ceramica del lungo mare, a fianco della madre, ancheggiando dolcemente, come solo le adolescenti sanno fare, anche senza volerlo, perché – dicono i libri di anatomia – la struttura scheletrica femminile e la forma del bacino e dei femori è tale per cui il peso del corpo nella deambulazione, determina quel movimento ondulatorio, che pare talvolta una malizia in più.
Basta solo avere quindici anni per farlo e alcuni o parecchi decenni in più per capirlo.
Viale Ceccarini
Franco Braga