solista dopo i Led Zeppelin
Robert Anthony Plant è probabilmente il più grande cantante della storia del rock. Punto e a capo.
Questa premessa non è il vaneggiamento dell’autore di questo pezzo. Se di vaneggiamento di tratta, allora sarebbe meglio parlare di allucinazione collettiva, visto che a condividere questo giudizio sono veramente in tanti. E’ impossibile dire quanto sulla valutazione possa pesare il fatto che Plant sia stato il lead singer di una band con pochi eguali nella storia di questo genere musicale, ovvero i Led Zeppelin. Indubbiamente l’aver preso parte da protagonista all’epopea del quartetto che fuse il blues con il rock’n’roll per dar vita all’hard rock moderno ha garantito a Plant ed alle sue straordinarie capacità vocali una cassa di risonanza incredibile ed un posto assicurato nella memoria degli appassionati per gli anni a venire: se però cambiamo angolazione, vediamo anche come i Led Zeppelin siano diventati quello che sono diventati anche grazie al loro vocalist: Plant non entrò nel gruppo per grazia ricevuta ma per meriti manifesti, e contribuì poi a renderlo immortale. Ce n’è abbastanza per fare di lui uno dei personaggi chiave di tutto il movimento musicale di cui è parte.
Quando nel 1980, a seguito della tragica e prematura scomparsa del batterista John "Bonzo" Bonham, i Led Zeppelin decisero di sciogliersi, Plant si trovò di fronte alla prospettiva di ricominciare una carriera solista: ricominciare, perché infatti parecchi anni prima aveva già tentato questa strada senza però ottenere successi significativi. Dopo un periodo di comprensibile smarrimento seguito alla perdita di quello che era innanzitutto un suo caro amico, che aveva condiviso con lui la scalata dal grigiume delle Midlands da cui entrambi provenivano fino alle vette delle classifiche mondiali, Plant sentì irresistibile il richiamo del palcoscenico e diede così avvio ad una nuova fase della sua vita artistica, fase che questo articolo si propone di prendere brevemente in esame.
E’ il giugno del 1982 quando la gloriosa etichetta Swan Song, fondata a suo tempo dagli stessi Zeppelin assieme al manager Peter Grant, pubblica Pictures At Eleven, il primo lavoro di Plant. L’attesa ovviamente è palpabile, anche perché il disco non viene fatto precedere da alcun singolo (questi seguiranno infatti nel settembre dello stesso anno), e una volta ascoltatolo il pubblico può finalmente tirare un sospiro di sollievo: Plant è ancora lui. Supportato da una band capitanata dal chitarrista ed amico Robbie Blunt, che egli conosceva da tempo immemore, Robert ricostruisce paesaggi sonori non lontani da quelli in cui era solito muoversi il Dirigibile, con un occhio di riguardo alle ballads di cui si era già proposto come eccellente autore negli anni precedenti. Plant racconta di aver fatto ascoltare il lavoro in anteprima a Jimmy Page e di averne ricevuto l’approvazione, segno che il passaggio dai Led Zeppelin alla sua carriera solista non è stato così brusco. Solo le atmosfere si fanno forse un po’ più pulite e raffinate, e ne possiamo cogliere un riflesso anche nel suo progressivo cambio di look e nell’ammorbidimento del suo rapporto con la stampa. Conscio di trovarsi ormai negli anni ’80, con la filosofia musicale di MTV che si appresta a pendere definitivamente piede, Plant rielabora parzialmente anche il suo approccio alle composizioni e la sua immagine pubblica: impossibile dire quanto ci sia di veramente spontaneo e sentito e quanto invece questa mossa sia dettate da calcoli di convenienza. Nell’incertezza siamo ben lieti di concedere a Robert almeno il beneficio del dubbio…
Nell’estate del 1983 giunge l’ora della sua seconda prova. Il nuovo album si intitola The Principle Of Moments e già delinea i primi sensibili cambiamenti nella musica del cantante britannico. Accanto a brani abbastanza tradizionali si fanno infatti strada esperimenti stilistici nuovi, a testimonianza di un Plant teso ad interpretare al meglio lo spirito dei tempi che cambiano di fronte a lui: sforzo che a qualcuno comincia già qui ad apparire spiazzante, abituati come si era al rock-blues sanguigno che era il marchio di fabbrica dei Led Zeppelin dei tempi d’oro. I risultati parlando di una brano, Big Log, assurto al ruolo di grande hit in Gran Bretagna, ma anche di pezzi inaspettati come Stranger Here… Than Over There. Al di là delle considerazioni personali, la dimostrazione della vitalità dell’autore è peraltro incontestabile. Probabilmente non siamo così lontani da come avrebbero suonato gli stessi Zeppelin se avessero fatto ingresso nel penultimo decennio del secolo: lo stesso In Through The Out Door raccontava di un gruppo teso alla ricerca di nuove soluzioni ormai distanti dal clima torrido degli esordi, aperto a contaminazioni e ad un uso esteso delle tastiere affidate all’epoca a quel genio di John Paul Jones.
Quando nel 1985 esce Shaken’n’Stirred Plant ha alle spalle la breve ma intensa esperienza con gli Honeydrippers, l’estemporaneo supergruppo voluto dal boss della Atlantic Ahmet Ertegun che proponeva covers di classici brani rhythm’n’blues ed ha annoverato tra le sue fila anche nomi del calibro di Jeff Peck e Jimmy Page. Reduce com’era da una simile esperienza, molti prevedevano che Plant avrebbe ripreso la ‘via di casa’ anche in occasione delle registrazioni del suo nuovo album: niente di più sbagliato. Shaken’n’Stirred è un lavoro ancor più inatteso del precedente, e vede Plant alle prese con situazioni musicali insolite ed impreviste, continuando a sperimentare in direzioni non battute precedentemente e facendosi sostenere anche da una voce di accompagnamento femminile, quella di Toni Halliday. La reazione dei fans è comprensibilmente incerta. L’album non solo non vende tantissimo, ma porta anche ai primi dissidi interni alla band che accompagna Robert: Robbie Blunt in particolare fatica a venire a patti con le nuove richieste del suo collega, tanto che il gruppo si disperderà da lì a poco e ad accompagnare Plant in sala d’incisione per il suo successivo lavoro saranno altri musicisti. I problemi nascono dalla volontà di Plant di realizzare un album assolutamente "anni ’80", ricco di effetti elettronici applicati alla strumentazione e necessitanti uno stile di esecuzione nuovo e non così intuitivo da parte dei musicisti che collaborano con lui. Il risultato non è malvagio in se’, ne’ in fondo così antitetico rispetto a quanto ascoltato in precedenza: forse a sconcertare i più è soprattutto il fatto che sia proprio un’artista come Plant a realizzarlo.
Bisogna attendere tre anni per ritrovarlo in pista. Il suo quarto lavoro solista si intitola Now And Zen, esce nel 1988 e testimonia di un ulteriore cambio di direzione: a farlo intuire è già, ancora una volta, l’aspetto dello stesso Plant, che appare in copertina con un look non lontano dal periodo hippy trascorso negli Zeppelin. Il ritorno al passato non manca nemmeno sotto il punto di vista musicale, anche se forse è meno evidente, e viene sottolineato anche dal ricorso al vecchio amico Jimmy Page che presta il proprio contributo chitarristico su un paio di pezzi. Ascoltando Now And Zen non ci si dimentica insomma di essere pur sempre negli anni ottanta, ma ci si rende conto di avere a che fare con un’artista che ha attraversato con il suo lavoro le tendenze musicali di tutto il decennio precedente e di parte dei mitici anni sessanta, oltre ad essersi fatto le ossa sui grandi classici del primo rock’n’roll: tutte influenze che qui emergono, pur se rivisitate alla luce della modernità. Le ballate si fanno più lineari e classiche, non più stravolte dall’elettronica come in passato, anche se non mancano ammiccamenti alla moda ancora imperante come ad esempio Why.
L’uscita di Manic Nirvana fuga tutti i residui dubbi: Plant è tornato all’antico. Il suo quinto album, che vede la luce nel 1990, sembra mostrarlo sempre più a suo agio nell’interpretare se’ stesso e la sua storia musicale, senza mai rinunciare alla sfida di mettere la sua voce alla prova. E’ un album di vero rock, quasi completamente depurato dalle influenze più pop che si erano ritagliate un posto di rilievo nei dischi precedenti: senza aver perso di vista la situazione, Plant riesce qui a non farsi condizionare da alcuna tendenza esterna e trova in se’ i nuovi stimoli per risultare allo stesso tempo tradizionale ma al passo con i tempi. Il recupero del passato infatti è palese: Liar’s Dance riporta alle atmosfere acustiche del terzo lavoro dei Led Zeppelin, mentre Your Ma Said You Cried In Your Sleep Last Night contiene addirittura una ripresa pari pari di alcuni versi di Black Dog! La chitarra si indurisce, la ritmica si fa più tesa e compatta e la voce è quella ruvida ma capace di avvolgere dei tempi d’oro.
Il 1993 segna l’uscita di quello che a tuttora è l’ultimo lavoro solista di Robert Plant, ovvero Fate Of Nations: chi scrive lo considera in assoluto il suo migliore. Forte dell’esperienza fin lì maturata, circondato da una band affidabile, lustrate le proprie capacità compositive e con una voce in splendida forma a dispetto degli ormai quarantacinque anni di età, Plant è pronto a dare il meglio di sé e raccoglie la sfida senza esitazione. Brani come il magnifico Come Into My Life sostengono le sue doti in maniera mirabile, costruendo loro attorno un ambientazione sempre riuscita e dando loro possibilità di emergere come poche altre volte negli anni recenti. In costante equilibrio fra episodi acustici ed intimisti e ballate di ampio respiro, Fate Of Nations scorre leggiadro dalla prima all’ultima nota e rappresenta una gran bella esperienza d’ascolto complessiva. E’ giusto ricordare che anche il clima generale nel frattempo è ovviamente cambiato. L’ondata pop del decennio precedente ha ceduto al grunge il posto di fenomeno musicale sulla bocca di tutti, e non a caso il grunge recupera a piene mani proprio dalle sonorità degli anni ’70, il periodo in cui la stella dei Led Zeppelin oscurava per grandezza e luminosità tutte le altre del firmamento rock: i Soundgarden ad esempio si rifanno poco meno che dichiaratamente alla band che fu di Plant.
Dopo Fate Of Nations il grande Robert non è più entrato in sala d’incisione da solo. Vi si è recato, sicuramente in ottima compagnia, in occasione della reunion con Page, concretizzatasi in due album (diviso fra cover di materiale Zeppelin e brani nuovi il primo, intriso di sapori, melodie e strumentazione mediorientale; maturo ed efficace, sulle tracce del mito del Dirigibile, il secondo), ma dal 1993 non abbiamo più avuto il piacere di accogliere un’uscita discografica firmata Robert Plant. Difficile dire se tale gioia ci verrà negata anche in futuro. Ormai cinquantaduenne, il cantante delle Midlands sicuramente centellinerà con attenzione la sua attività (attualmente è coinvolto nel progetto Priory Of Brion, cover-band che ha in repertorio fra le altre anche Houses Of The Holy dei Led Zeppelin), senza però che sia lecito prevedere una sua definitiva interruzione. Il fuoco del rock arderà senza dubbio nelle sue vene per il resto della sua vita, e fino a che la sua splendida voce potrà supportarlo a dovere ci sarà sicuramente sempre tempo e modo di dare il benvenuto ai frutti del suo irripetibile talento.
Robert Plant – Discografia album da solista dal 1980
Pictures At Eleven
(Swan Song, 1982)
The Principle Of Moments
(Es Paranza, 1983)
Shaken’n’Stirred
(Es Paranza, 1985)
Now And Zen
(Es Paranza, 1988)
Manic Nirvana
(Es Paranza, 1990)
Fate Of Nations
(Fontana, 1993)
Robert Plant
Fabrizio Claudio Marcon