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Lunga Linea Bianca

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Lunga Linea Bianca

Senza che mi restasse niente
Senza più colori odori
Senza più niente da dire

Senza poterti incontrare
Senza poterti vedere
Senza poter stringere tra le mani le tue parole

Con la testa chiusa dentro il petto




Tacchini. Se dovessi trovare una parola per buttarci dentro tutto, questa sarebbe tacchini. ‘Ne ho viste di cotte e di crude’, potrei aggiungere, ‘e questo senza essere un cuoco’… e potrei accumulare cataste di sillabe, costruirci palazzi, ma in fin dei conti la conclusione sarebbe sempre la stessa: tacchini.
Lungo la grande linea bianca che sta tra grande sonno e sogno tutto quello che ci trovo sono soltanto volatili giallastri di improbabili dimensioni, ricurvi.
E qualunque strada abbia percorso, qualsiasi fiume abbia guadato, quello che alla fine ho trovato sono sempre stati tacchini. ‘Segui il tacchino, seguilo.’ Ed io l’ho seguito e ci sono anche stato e non l’ho trovato strano né interessante. Ero io ad esserci e questo è il punto e tutto quanto il resto. In certi vecchi film militari bruni di polvere puntano armi contro il nemico, compongono suoni lucidi in cui mi rifletto. Piegato in avanti vomito il verde che ho dentro. Rido dei miei trentaquattro denti sbrindellati dal tarlo che m’intaglia il cervello. Per ruttare stanco nell’alba elettrificata delle mie cento strade urbane. Seguendo il colore che porta ai suoi capelli, chiedendo solo di tenerla tra le mani, stretta, eiaculare in silenzio. Centocinquanta miliardi per l’economia USA spesi in orchestre d’archi pesanti di plastica. La rete mondiale dei suonatori d’arco mi sta dentro la tempia. Pulsa sonate lievi che io trascrivo su linee parallele, che frammento in segni. Le mie linee nere di luce. Del tacchino non sapevo niente. ‘Segui il tacchino, seguilo.’
Quando tutto era iniziato avevo vinto già la guerra contro i Galli. Esuli si erano rifugiati alle pendici degli Urali. Non sarebbero tornati. Restavano i Germani. Se io ne trovavo in metropolitana, camuffato da diversivo mi abbindolavo a loro circumnavigandoli per poi trascinarli in vecchi caffè di Brera e bere, bere fino a gonfiare i polmoni di sangue, trascinarci nel cesso, succhiarci il cervello dal culo. Poi, sconfitto, perdermi tra i rifiuti. Rantolare preghiere inedite.

Prega per me, Mary.
Dammi oggi un’altra guerra persa.
Donami il beneficio del dubbio.
Fa’ che le mie parole si sporchino di merda e di sangue
Fammi affondare tra le tue chiappe.
Per favore, Mary.


Capii che le mie preghiere erano state ascoltate il giorno in cui incontrai Johnny. Ciondolavo inchiodato a un muro. Lui si fermò e mi disse: "Ognuno di noi ha tatuata dentro il cervello la Lunga Linea Bianca. Tutto il resto è optional." Seguii la sua ombra.
Johnny aveva occhi che sputavano parole. Lui mi raccontava le sue favole in cambio della mia pelle, delle mia ossa e tutte le favole iniziavano con le stesse parole: "Segui il tacchino: il tacchino è grande; un territorio vasto. Gli esploratori del XIX secolo non sono mai più tornati. Non se n’è saputo più niente. Io stesso ricordo distintamente il momento in cui il capitano Mission allacciò la tracolla del moschetto a doppia canna, che portava sempre carico, e s’infilò alla cintura un coltellaccio protetto dal fodero. Non è mai più tornato."
Io non capivo. Attendevo solo il momento in cui mi avrebbe penetrato col cazzo insaponato una due volte e poi ancora. Attendevo in silenzio che i suoi occhi neri si colorassero, lanciassero il segnale.
Seguimmo il tacchino.
Trovammo lavoro in un allevamento di tacchini geneticamente modificati nella periferia di Milano. Erano giganteschi, affollavano ettari interi coperti da lamiere di ossidiana. Si alzavano su zampe cartilaginee. Volgevano intorno il capo, gli occhi bianchi di neon. Insonni sbattevano le ali trascinandosi sul cemento per metri, le penne arrugginite di sangue. Vomitavano mangime. Credevo sarebbero esplosi. Quando lo dicevo a Johnny lui rideva e azionava gli irrogatori di cibo. Questo pioveva roboando giù da tubature monche innestate sulle travi di sostegno. Per parecchi minuti non si distingueva più niente, l’aria satura di pulviscoli grigi. Io mi allontanavo, bestemmiavo urla contro il nome di Dio e di Johnny, cadevo sul cemento, rantolandomi epilettico nel mezzo dei tacchini frolli di luce. Con le orecchie gonfie di suoni bianchi, la sera stavamo nel deposito degli attrezzi a neanche trecento metri dall’allevamento. Le grida delle bestie mi smembravano il cervello, non riuscivo a prendere sonno. Johnny allora mi raccontava le sue favole.

"E un uomo venne da me con una scimmia malata in braccio e disse:
”Guarisci la mia scimmia’
”Non posso guarire gli animali, non hanno anima’
”Hanno grazia, bellezza e innocenza. Cosa sono le persone che guarisci se non animali? Animali privi di grazia contaminati dall’odio che ha provocato la Malattia…’"

Discutevamo spesso della Malattia, se l’avremmo mai presa e come agisse, come si diffondesse. I sintomi erano certi: gli occhi germinavano fosforo, le unghie annerivano. Il corpo si gonfiava di liquidi fino a divenire una crepa. Durava poche ore.
Per Johnny la Malattia si contraeva dai tacchini, veri Druidi agenti segreti votatisi alla morte per sterminarci. Lui era un collaborazionista, in quanto sapeva che avrebbero vinto. Anch’io parteggiavo per i tacchini. Dovevamo rimpinzarli di cibo, lasciare le luci accese: questo era il nostro ruolo. In cambio ci saremmo salvati.
Non so per quanto tempo andò avanti. Col senso del tempo corroso da diverse notti insonni un mattino mi alzai più presto del solito. Cercavo Johnny. Non riuscivo a trovarlo. Mi diressi verso il padiglione. Vi entrai. Lo vidi trasformarsi in tacchino. Gigantesco, bellissimo. Non si accorse della mia presenza. Cominciò a beccare il mangime. Un’onda di informazioni s’impossessò del mio corpo. Con rapidi movimenti automatici ero su Johnny, gli rompevo il collo. E lui che starnazzava in terra, Johnny che raspava sangue.
Mentire a se stessi. Compiere l’opera più grande. Il gran sacerdote druido morto lì in terra, i Germani in fuga tra fiamme di magnesio.

Christian Del Monte

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