Sapete, sono già sceso altre volte, qui, giù a Backley, prima di oggi.
La prima volta, per sfida, ci sono andato addirittura da solo.
Era un giovedì di giugno di quattro o cinque anni fa, lo ricordo bene. La scuola non era ancora finita, e la biblioteca pubblica aveva chiuso prima, come faceva una volta tutte le settimane, per sistemare i libri e le riviste che i ragazzi del secondo e terzo anno lasciavano in giro dopo le prove.
Noi eravamo andati al parco Martin, vicino al ponte, dove ci sono le panche di legno e la statua del generale. E quell’idiota di Matthew, che quell’anno aveva un taglio in faccia lungo un dito dopo che era "caduto" giù dal muro degli Smith, si era messo a fare lo scemo con Claire. Claire gli faceva il filo da un po’, ma lui, stupido come una capra, non se ne accorgeva, o faceva finta di niente, chissà. Io, se fossi stato in lui, avrei fatto i salti dalla gioia: Claire mi è sempre piaciuta. Ma lo sapeva già allora che non ci sarebbe mai stata con me. E il tempo, purtroppo, mi ha dato ragione.
Comunque sia, non eravamo neanche arrivati che, eccolo, inizia con la solita solfa: Mark è un pappamolle, Mark è un cacasotto. Mark è proprio il figlio di quel fallito che è suo padre. Ed io, beh, zitto non ho mai saputo stare. Anche se ero più basso di Matthew di una mano, anche se ero così magro, rispetto a Matthew, che sembravo un rametto di fianco ad un cespuglio. E allora avevo cominciato ad insultarlo a mia volta, e mi veniva facile, sapete? Matthew sapeva tirare fuori il meglio di me in quelle occasioni, soprattutto se c’era Claire in giro. E Luke e Andrew se la ridevano e cercavano come al solito solamente di non finirci in mezzo.
"Che hai Matthew, ti prude la faccia?" ho detto io.
"Dev’essere questa puzza di coniglio sudato." disse lui ridendo.
"Meglio coniglio che epilettico. Ce la fai a stare in piedi da solo, o vuoi che ti portiamo le stampelle?"
E via così.
Poi, insulto dopo insulto, spacconata dopo spacconata, avevamo tirato in ballo prima la vecchia casa degli Hanson, dove si diceva che di notte si sentivano i figli morti del signor Charles che urlano dall’inferno, e poi, beh, Backley.
"Ehi, pulce, se dici di essere tanto coraggioso…" aveva detto lui "… non avrai sicuramente paura ad andare a Backley, no?"
E io, non so, non me l’aspettavo che tirasse fuori quel posto, e sono rimasto un secondo senza parole, e l’ho guardato per vedere se stava scherzando.
Lui vedendomi spiazzato si è messo a ridere, e ha abbracciato Claire.
"Ovviamente intendo da solo." ha aggiunto stringendola sotto il braccio, e dandole quello che poteva essere stato l’unico bacio fino a quel momento.
"Ovviamente" ho detto io, con la voce secca e cattiva, lo stomaco sottosopra e le mani chiuse a pugno.
Lui mi ha guardato con un sorriso che non finiva più e ha detto, lentamente, "Ovviamente, cosa?"
Ho sentito le mi guance diventare livide di rabbia. "Ovvio che ci vado, palla di lardo!" gli ho scandito io in faccia avvicinandomi a lui.
Luke e Andrew si sono guardati l’un l’altro senza dire nulla, e anche Claire aveva una espressione preoccupata. Ma sapete com’è: se la torta l’hai già tirata fuori dal forno, non è poi che ce la puoi rimettere, neanche se ti sembra all’improvviso che faccia schifo come un gatto morto.
E allora gli ho dato una spinta, e poi mi sono girato, e ho preso su, diretto verso la grande casa dei Parker, per tagliare dietro al supermercato, e attraversare il vecchio cimitero. Tanto, a quel punto, non è che cambiasse poi molto, no?
Gli altri non mi hanno fermato. Magari un po’ lo speravo. Ma ormai sarei andato lo stesso.
Mi sono dato dello stupido fino allo stradello vicino alla grande quercia. E poi ho smesso, perché riuscire ad andare avanti richiedeva tutta la concentrazione possibile, e mi dicevo "Mark, sono tutte boiate", "Mark non c’è nulla là in fondo", "Mark, quando tornerai indietro, Claire ti guarderà con altri occhi", e via così. Ma non è che servisse molto.
Mi sono girato solo un paio di volte, la prima all’altezza del macellaio, e ovviamente indietro, lontano, c’era Matthew che mi seguiva, e con lui, gli altri. Forse volevano vedere se ci andavo davvero. O quanto tempo ci avrei messo ad uscire urlando, se arrivavo ad entrare.
Anche se cercavo di non pensare a nulla, ogni tanto qualcosa mi tornava su, come in una cattiva digestione. E risentivo la mamma, la maestra, il sergente Oliver, tutti, parlare di quel posto e di tutti i fatti che c’erano successi.
Sudavo freddo quando sono arrivato al cancello prima dello spiazzo, e i cartelli della polizia tutto intorno, e il nastro rosso e bianco non mi aiutavano certo a sentirmi meglio. Mi fermai un attimo solo, con il cuore in gola, cercando di capire cosa stavo facendo, e come dovevo muovermi. E sentii un rumore strano. No, non come uno sparo, piuttosto un sibilo, un suono continuo, che faceva venire i brividi. Ma poi ho iniziato a sentire anche Matthew ridacchiare dietro di me, e non ci ho visto più. So che è strano che abbia udito Matthew (lui e gli altri erano rimasti vicino al negozio chiuso del barbiere), ma giuro, la risata era la sua; la riconoscerei anche all’inferno.
Ho afferrato con forza la gamba della L in ferro battuto, e ho scavalcato. Ci ho messo un po’ a dire il vero, e ho fatto una fatica boia. E ho anche rischiato di farmi molto male, ma sono passato dall’altra parte. E quella, in qualche modo, era l’unica cosa importante.
Ma dopo il grande salto, una volta oltre il cancello, ho iniziato a stare veramente male.
La mia mente era terrorizzata. Non so se vi è mai capitato: mi sono sentito veramente un coniglio in quel momento. Un coniglio che vede i fari di una Dodge avvicinarsi a gran velocità e che non riesce a capire, che non riesce a pensare a cosa fare. E che quindi non può fare altro che rimanere immobile e farsi sfracellare.
Adesso faccio quasi fatica a crederlo, ma allora, beh, insomma, ero un ragazzino di tredici anni, sottile come un dito, e quel posto, QUESTO posto era dipinto da tutti come la porta per l’inferno. Il luogo in cui uscivano i mostri e in cui si diceva avessero portato i quindici e più bambini scomparsi in quel periodo, per torturarli e squartarli e poi bruciarli.
Ma sono andato avanti. Lo giuro, sono andato avanti, ed sono arrivato al portone di legno, e l’ho scostato, sentendo la mia testa scoppiare per il cigolio che faceva la porta, sono entrato e me la sono chiusa alle spalle.
Ma una volta dentro è diventato tutto ancora peggio, e non riuscivo più a respirare. Mi sembrava che una mano mi comprimesse lo stomaco, e che un vento sottile e freddo stesse iniziando ad avvolgermi, scendendo lungo la schiena, entrandomi tra le gambe attraverso i pantaloncini corti, penetrandomi e divorandomi senza pietà.
Volevo chiudere gli occhi, urlare, fuggire. Ma non riuscivo a fare niente. Ero lì immobile, sulla soglia e non riuscivo più a fare dannatamente nulla. Enne-u-elle-elle-a. Nulla.
Non ricordo quanto è durato. Mi è sembrato un tempo assurdo, infinito. Il sole fuori è calato un po’, e quando finalmente sono stato in grado di pensare e agire, era già tardo pomeriggio.
Mi è sembrato quasi di essermi svegliato da un lungo sonno. Ho fatto un passo, lasciando un’impronta scura sul pavimento impolverato, e poi un altro. E un altro ancora. Mi sentivo strano. Euforico. Cioè, ero lì, all’inferno, ed ero ancora vivo. Nonostante che il sole più basso di prima iniziasse a disegnare ombre orribili sui muri coperti di scritte, nonostante che il mio naso cominciasse a sentire solo allora l’odore acre dell’urina, e il fetore dei corpi in putrefazione – quel posto era, non so come mai, scelto dai cani randagi per andarci a morire – mi sentivo bene. Mi sentivo forte e sicuro. Pensavo "Mark, avevi paura di niente.". Ridevo tra me e me delle mie paure di prima, e iniziai a girarmi intorno e a guardare, toccare, spostare un po’ di tutte quelle cose strane che erano ammucchiate lì. Trovai una scatola di fiammiferi. Per terra c’erano dei segni strani, e delle candele che seguivano gli angoli delle figure geometriche, e io iniziai ad accenderne alcune. Poi mi misi al centro di quei graffiti e iniziai a leggere ad alta voce qualcuna delle scritte sui muri.
Ma mi stancai presto di quel gioco, e iniziai a prendere a calci le candele, e mi diressi verso il cuore di Backley: salii le scale per arrivare al secondo piano, facendomi largo tra le ragnatele e delle cose strane che con la poca luce che filtrava dalle finestre inchiodate non riuscivo a distinguere.
Una volta su, mi sembrò di sentire una specie di musica. O meglio, mi sembrava di sentire chessò, tamburi. Avete presente l’Africa? Sì, no, non ci sono mai stato neanch’io, ma avete presente l’Africa – nella vostra fantasia? Beh, il suono era quello che mi sarei aspettato di sentire nella giungla: un ritmo di tamburi lontani, con dei versi gracchianti di tanto in tanto, e delle voci incomprensibili che sembrano sottolineare il tutto come con un canto.
Mi sembrò di sentire tutto questo, ma quella carica che mi aveva elettrizzato quando finalmente ero riuscito a superare le mie paure e a muovermi, aveva ancora troppa forza in me per darci peso. Giuro, le ombre sembravano danzare. No… la memoria mi deve stare giocando dei brutti scherzi, mmh… c’erano dei ragni e dei topi… degli animali piccoli e pelosi tutto intorno… no, non ricordo bene.
Ricordo però la porta con i disegni rossi, illuminata dallo squarcio tra due assi rotte. Spinsi e tirai, ma senza risultato. Sembrava chiusa a chiave. Ma io non volevo andare via da lì senza averla aperta, e averci guardato dentro. Avrei preso qualcosa da quella stanza, e l’avrei portata giù ai ragazzi, e avrei detto "l’ho presa dalla stanza centrale al secondo piano" e poi ancora avrei detto a Matthew "perché non vai a controllare?" ed ero certo che Matthew avrebbe abbassato finalmente il capo e io mi sarei sentito un dio.
Girai un po’, e alla fine trovai la chiave per caso. In una stanza chissà dove un raggio di sole sembrò forzare un’altra asse e colpire una credenza con tutti i vetri rotti. La chiave era lì, in bella mostra. Sembrava addirittura messa apposta per me in un piano basso. Fosse stata più in alto non l’avrei mai vista, nossignore. Era dentro ad un piattino di ceramica, sopra ad un piccolo foglio bianco. E sul foglio c’era una croce storta ben calcata, e due righe, scarabocchiate con una calligrafia semplice, da ragazzo; due righe con due versetti: Matthew 28,9 e, a capo, Mark 2,10.
Presi la chiave in mano, e, lo ricordo come se fosse ora, qualcosa cambiò in me: cominciai a sentire che il coraggio di prima aveva deciso di lasciarmi solo. All’improvviso la penombra intorno a me mi sembrò buio, e le ombre che mi danzavano intorno, a causa delle fessure, dei vetri e di non so cos’altro, beh, mi sembrarono… accorgersi di me. Sai quando sei tra i leoni, e pensi che siano gatti, e loro dicono, beh, se non ha paura, magari è il caso di lasciarlo stare. E poi ti si aprono a modo gli occhi, e ti accorgi che i gattoni puzzolenti intorno a te sono veramente brutti. E sono, ehi!, leoni. E allora ti viene il panico, e loro cominciano a pensare di essersi sbagliati sul tuo conto… beh, mi sentivo così. E la mia determinazione ad aprire quella porta, dalla quale sembrava che uscisse tutto il concerto di suoni in cui mi trovavo ormai immerso da sempre, andava e veniva. Ricordo: avevo la chiave in mano, la porta era davanti a me, e sembrava in qualche modo pulsare. E io ho pensato "beh, il mio giro l’ho fatto. Ho dimostrato di essere coraggioso. No, di più: di essere un mostro di coraggio.", e ho pensato ancora "oh dio andiamo via andiamo via andiamo via", e non sapevo chi altro ci fosse per dire "andiamo", ma avevo una gran voglia di scoprirlo fuori di lì.
E qui i ricordi si fanno confusi e strani. Mentre uscivo, cioè, mentre CORREVO fuori, mi sono perso. Non so come sia possibile. Il panico fa scherzi assurdi, ma non riuscivo, giuro, più a trovare quel dannato portone di ingresso, e dopo un po’ che passavo da un posto all’altro con il cuore in gola mi sono ritrovato in un corridoio con tutti i vetri intatti e senza le assi di legno. Un corridoio che dava su una specie di cortiletto, o meglio di chiostro. E non l’ho mai più trovato quel corridoio, ma sono sicuro di esserci stato, e nel cortile c’erano due uomini che parlavano, dandomi le spalle. Io ero terrorizzato e mi muovevo cercando di non fare nessun rumore, sperando, pregando che non si girassero perché non li volevo per nessun motivo al mondo guardare in faccia, ma ricordo che il giubbotto dei marine che indossava uno dei due sembrava quello di Matthew – sputato sputato, e l’altro era scuro, di pelle. I due, mentre io mi mangiavo il corridoio centimetro dopo centimetro, con dentro l’inferno intero che bruciava e mi faceva di nuovo mancare il respiro e battere il cuore come i tamburi al piano di sopra, i due, beh, sembravano discutere, litigare.
E prima di entrare nel buio oltre la porta alla fine del corridoio, ho sentito come un grido, e quando mi sono girato c’era l’uomo con il giubbotto dei marine, per terra, con un coltello enorme piantato nel petto. Un coltello così grande da sembrare una spada e che sembrava muoversi per conto suo. E su di lui, l’uomo con la giacca scura sembrava avere le convulsioni; prima di alzare la testa, di guardarmi dritto negli occhi, e di mettersi a ridere, mostrandomi i denti aguzzi e uno sguardo che speravo di avere dimenticato per sempre.
E allora io ho gridato con tutto il fiato che avevo e ho corso e corso e corso ancora. E ogni porta che aprivo, urlavo e mi vedevo già morto ammazzato.
Ma ovviamente non successe nulla; non sarei qua sennò.
Mi trovai senza sapere come nel bar vicino al negozio di scarpe, tutto sudato con una coca in mano. E poco dopo arrivarono Matthew e gli altri. E se mai lo sono stati, quella fu una volta in cui furono felici di vedermi.
Il barista mi prese un po’ in giro per come ero entrato di corsa, e per come, a sentir lui, avevo chiesto, ansimando, da bere. Ma gli altri erano troppo stupiti, o sconvolti, per unirsi a lui, e ridere di me. Nei loro occhi leggevo, per la prima vera volta nella mia breve vita, Rispetto.
Erano le sette. Il sole era ancora ben visibile in cielo, anche se basso: ero stato in quella casa due ore. Eh, sì, leggevo un fottuto rispetto nei loro occhi. Ma in quelli di Claire c’era anche qualcosa d’altro, qualcosa di oscuro che mi dispiaceva più di quanto mi gratificasse.
Sì, paura, se dovessi dirne una.
Dopo quella volta quei miei quattro amici hanno sempre avuto nei miei confronti un rapporto strano ma cordiale, fino a quando, uno dopo l’altro, non ci siamo persi di vista del tutto, ognuno diretto verso i pascoli invernali della propria vita. Oh, sì, prima dell’addio siamo tornati insieme altre volte qui. No, no, non proprio subito. Io avevo una strizza del diavolo, ma, beh, insieme era un’altra storia. E poi io avevo acquistato con loro e con tutta la scuola una reputazione che mi toccava difendere.
Ci ho portato anche Val, io e lei soli, un pomeriggio. Ma in nessuna delle volte in cui sono tornato ho mai risalito queste scale per il secondo piano.
Perché sono qui, stasera? Beh, mia madre ha saputo da una sua amica che Matthew, pace a quella canaglia, è morto tre giorni fa. Era a New York: alle sei e quaranta stava attraversando un parco e un matto l’ha ucciso per rubargli il portafoglio. Un uomo che la polizia ha detto avere una giacca scura. Un assassino che l’ha accoltellato, aprendogli il petto in due e poi sparendo nel nulla dei tanti pazzi delle grandi città.
E ieri notte ho sognato per la prima volta in vita mia la stanza con la credenza nel mio primo giro in questa casa. Mi sono rivisto avvicinarmi al primo ripiano. E mi sono ricordato delle scritte sul biglietto sotto la chiave – che, non so come, non ho mai lasciato cadere quella volta in cui sono scappato e che ho qui adesso – e ho pensato, beh, forse non volevano indicare due versetti le scritte Matthew 28,9 e Mark 2,10.
Matthew è morto tre giorni fa. Il 28 settembre.
Magari sono date.
Che voglio fare ora?
Voglio usare questa chiave, e vedere cosa c’è dietro alla porta del secondo piano, fosse l’ultima cosa che faccio in vita mia.
Anche perché, beh, la seconda data sul foglio è domani.
Mark 2 – 10
Marco Giorgini