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Benaresyama

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Capitolo XV

Il viaggio durò a lungo: i cavalli, due splendidi animali di purissima razza donati dai possidenti terrieri della città, i cui muscoli bagnati dal sudore risplendevano riflettendo il sole benevolo mentre correvano con foga verso una destinazione che appariva lontanissima, percorrevano miglia e miglia sorprendendo per resistenza e vigore persino i loro temerari cavalieri, che si scambiavano occhiate di approvazione mentre incitavano le possenti cavalcature: solo quando i riflessi sul loro rilucente manto divenivano mano a mano cremisi per il dolce astro che si concedeva il meritato riposo ritirandosi nelle sue camere presso l’abisso del cielo, essi venivano lasciati a pascolare le parche erbe che il suolo offriva al più grande eroe che lo avesse calcato e al suo più caro amico, mentre questi si fermavano innanzi ad un focolare ristoratore.
Una notte, mentre i cavalli si pascevano lì appresso e gli eroi si erano addormentati sotto la protezione della coltre celeste , visioni e presagi apparvero ad Enkidu, mentre questo era rapito nei reami del sogno: una bestia terribile si frapponeva tra egli e il suo re, che appariva in difficoltà contro di essa. Egli accorse in soccorso di Gilgamesh, ma prima di riuscirvi, una forza indicibile si sprigionò dall’amico: come trasfigurato, esso uccise il nemico , e fece strazio empio delle sue carni, riducendosi a bestia egli stesso, mentre i suoi lineamenti lentamente si indurivano, assumendo connotazioni terribili. Infine, ridendo , si diresse verso l’amico e gettò a terra le membra del nemico che ancora teneva in mano come macabro trofeo : nel suo lento incedere, gli sembrava di scorgere quella ferocia che solo prima del combattimento gli aveva potuto osservare in volto. Finalmente furono di fronte, e , come un prodigio, il suo volto era diviso, esprimendo prima odio, e subito dopo benevolenza; alzava la mano per gettarla impietosamente sulle carni dell’amico, ma allo stesso tempo la tratteneva con l’altro braccio, come in preda ad uno strano delirio.
Inquietato da una simile visione, l’uomo fiera sfuggì dalle terribili lande del sogno e aprendo gli occhi poté scorgere i primi raggi di sole che indugiavano ancora sul filo dell’alba , mentre le ultime braci ancora sfrigolavano nel focolare. Il mattino dopo, Gilgamesh accolse il racconto del sogno con imprevedibile felicità : " Amico mio," lo riprese " il tuo sogno è un evidente segno di un destino di fortuna per il nostro prossimo scontro: è rivelatore di una potenza che risiede in me e che verrà utilizzata contro il nostro nemico per volgere le sorti dello scontro alla meglio per noi."
" Mio signore", gli rispose l’amico, " sono lieto che il mio sogno ti abbia portato a così felici risoluzioni; tuttavia, esso riguardava anche un possibile conflitto tra le nostre persone, e questo mi dà molto da pensare…"
Facendo segno di minimizzare, Gilgamesh sorridendo lo incalzò : " Questo è vero, ma, come tu mi hai riferito, il conflitto non c’è stato: è la tua natura riflessiva che ti fa indugiare su particolari di questo genere, ritenendo plausibili solo le interpretazioni più negative. Solo in un secondo tempo io ti sono apparso adirato, e ,come spero che tu assuma come ovvio, io non alzerei mai le mano per recarti offesa, sia per l’amicizia che oramai ci lega, sia per il patto che sul campo di battaglia ci rese compagni. Quindi assumi il tuo sogno come presagio di un prossimo ritorno come vincitori alla nostra amata Uruk, amico mio."
Enkidu apparve dubbioso, ma alla fine accolse le parole dell’amico.
Tuttavia, pochi giorni dopo, nuove ombre malvagie si addentrarono violente nei sogni dell’uomo bestia: egli si ritrovava nuovamente al cospetto di un Gilgamesh che non si premurava più di occultare la vera natura e violenza del suo potere: intere montagne venivano spazzate via dall’energia che scaturiva dell’eroe, le acque erano separate con un singolo movimento della mano e persino il vento che soffiava imperioso si piegava umile contro di esso. Dopo aver ostentato il suo valore , apparve accorgersi dell’amico che lo guardava impressionato, e piegò la testa nascondendo un’espressione di compiaciuta ira. Gli si avvicinò con la chioma che ne copriva il viso, e ,con un rapido gesto che mise in evidenza un espressione bestiale, trapassò il costato dell’amico: dalla ferita sgorgava sangue a fiotti, mentre il viso di Enkidu, da allibito diventava di momento in momento più esangue. Tuttavia, scostando il cadavere dal suo braccio, Gilgamesh iniziò a disperarsi e ad invocare il nome dell’amico: abbracciandone i resti, cercò di ricomporli meglio che poteva e li portò in un luogo lontano, che nel sogno appariva intriso da un alone mistico e foriero di un nuovo destino , di una nuova forma e vita, al di là di qualsiasi immaginazione e desiderio; ma brillava al contempo di una luce sinistra che faceva dubitare che tali cambiamenti non avrebbero significato un prezzo durissimo da pagare. L’alba abbracciò come una madre affettuosa il suo figlio che nuovamente si risvegliava intimorito dalle visioni della notte precedente.
Attraverso una lunga descrizione , Enkidu cercò di far comprendere i dubbi che si accalcavano dentro di lui al compagno, che continuava ad ostinarsi in un atteggiamento di sprezzo del pericolo e di noncuranza: quest’ultimo, anzi, prese l’occasione per spronare l’uomo fiera con parole ancora più fiduciose verso il proprio destino. Probabilmente la troppa fiducia dell’eroe era la componente che faceva maggiormente dubitare Enkidu, che avendo valutato attentamente la situazione conosceva quali potevano essere i rischi di una simile impresa, che persino le terribili visioni notturne sconsigliavano: dell’avversario non si conosceva nulla, oltre al fatto che era una creatura mostruosa dotata di una potenza sovrumana , mentre gli era fin troppo nota la noncuranza del suo sovrano in determinate situazioni: egli , infatti, tendeva a sacrificare tutto quello di cui disponeva per soddisfare anche il più minimo e stolto capriccio , e spesso si era dovuto scontrare con esso per farlo ragionare in maniera più saggia. L’uomo fiera poteva quasi sentire l’infausto destino che soffiava sulla loro spedizione, tuttavia , come affermava il suo sovrano, non era più possibile tornare indietro da vigliacchi, anzi, per fugare le paure, era necessario battere l’empio essere in modo definitivo e prendersi la preda che era stata negata con un gesto tanto irritante quanto controproducente.
Finalmente ripartirono, ed in pochi giorni si trovarono all’entrata dei maestosi boschi libanesi. Il tragitto verso il cuore della vegetazione si rivelò più difficoltoso del previsto: ben presto si rese necessario abbandonare i cavalli, che non erano più in grado di continuare per un sentiero quasi inesistente. Mentre i due eroi si addentravano a rilento nella vegetazione sempre più rigogliosa ed intricata, spezzando rami ed arbusti che sbarravano la strada, il sole sparì inghiottito dalle foglie: ben presto fu impossibile distinguere il giorno dalla notte, mentre il bosco sembrava animarsi di una vita sotterranea lugubre e minacciosa: sbuffi , crepitii e sommessi ringhi gli accompagnarono come una amante dannata.
Finalmente, uno spiazzo di alcuni metri quadrati si aprì davanti a loro: mentre i rami più alti degli alberi si intrecciavano impedendo ancora ai benigni raggi del sole di penetrarvi, una piccola costruzione, simile ad un’ara , brillava di cremisi e terribile voluttà: davanti ad essa, il più bello tra i cedri svettava in tutta la sua potenza per un altezza che non si era mai osservata in un simile albero: foglie splendide pendevano da esso e, dai rami , dorati frutti risplendevano di un chiarore dolce. Estasiato dalla visione, Gilgamesh non ebbe più alcun dubbio: l’unico degno riscatto per la fatica e l’ira suscitata dal divieto di Humbaba avrebbe potuto essere solo quell’albero, che forse costituiva la meraviglia più prezioso della foresta: subito , con l’aiuto dell’amico, prese ad abbatterlo.
Ma mentre i due erano intenti nell’opera, dalla parte posteriore dell’ara giunse un sibilo, e si poteva udire il sottile suono che i serpenti emettono quando strisciano lentamente su foglie secche di autunno: un’ombra incombeva nel buio, mentre i due eroi assumevano una posizione di difesa. Subito, mutando dalla forma di albero, un essere dalle mille spire si levò con violenza da terra, mostrandosi in tutta la sua imponenza: era una figura alta alcuni metri, dalla forma di serpente, il corpo ricoperto da scaglie verdastre, mentre il ventre era un trionfo di porpora rilucente e la schiena e le spalle di oro opaco, che si allungavano nelle braccia terminanti in minacciosi artigli; occhi che apparivano come un’unica placca convessa di oscura notte risplendevano minacciosamente in ciò che doveva esserne il volto.
Con una voce che mischiava l’abisso più dimenticato dell’antichità e il maligno sibilo degli esseri appartenenti alla sua specie, prese a parlare: " Chi siete voi, che avete osato giungere a me, il custode di questi boschi? Amabili agnelli sacrificali che un qualche savio stato ha tributato a me? O nemici che soccomberanno alle mie fauci? E cosa state facendo? Pensare che quell’albero possa essere utilizzato da voi inutili esseri umani per i vostri sciocchi fini è quasi più divertente che incredibile a vedersi: cessate nella vostra opera, e preparatevi a pagare il prezzo della vostra stoltezza."
Gilgamesh , sprezzante e irritato, gli rispose: " Con che coraggio ci identifichi con un pasto per colmare la tua empia fame? Tu , stolta e orrida bestia, da qui a poco perirai per mia mano, per mano di Gilgamesh, a cui hai osato vietare la giusta provvista di legname : ora, fu l’infinito baratro della follia o l’ordine imperioso di chi comanda a portarti ad una simile risoluzione? Bada bene di darmi una risposta soddisfacente , giacché da essa dipenderà la lunghezza dell’agonia prima della tua morte."
" Né i disegni di chi regna sulla sfera terrestre e sul cielo, né le mie disposizioni possono essere comprese o intuite da uno stolto come te. Ora, butta via lo strumento con cui stai dissacrando quell’albero, e preparati a…"
Il crudele mostro non ebbe il tempo di finire la frase: Gilgamesh, impugnando con entrambe le mani la sua gigantesca scure la levò alta nel cielo, e con tutta la sua forza assestò un colpo terribile all’albero, passandolo da parte a parte: come Humbaba, sembrò quasi che anche l’albero rimanesse per un attimo come sconvolto dal colpo, per poi iniziare a gettarsi in una rovinosa caduta, mentre le mille specie di uccelli dalle miriadi colori che abitavano su di esso scappavano intimoriti; infine, Gilgamesh, gettando in direzione del mostro la scure, che si conficcò nell’albero alle spalle dell’avversario all’altezza degli occhi di quest’ultimo, rispose: " Questa è la mia risposta alla tua arroganza ." E prese a ridere provocandolo.
La bestia, folle di rabbia, gli si avventò contro emettendo un grido bestiale: le spire iniziarono ad serrarsi intorno al corpo dell’eroe con forza, mentre con le braccia cercava di infierire colpi terribili al volto. Enkidu accorse subito in aiuto: impugnando la sua spada saldamente, si diresse correndo verso il mostro, affondando la lama nell’avambraccio destro e facendo schizzare via la mano recisa: un urlo atroce rimbombò per la foresta e la bestia si ritrasse tenendosi per il dolore il braccio, da cui sgorgava un liquido denso e scuro.
Il combattimento continuò: tuttavia, forse per troppa sicurezza, forse per l’orgoglio di chi si crede già vincitore, Gilgamesh si gettò incoscientemente sul nemico che ancora appariva dolorante. L’acciaio penetrò in profondità nelle carni del mostro, ma al contempo un sorriso agghiacciante si dipinse sulle sue labbra: prima che Enkidu avesse il tempo di capire cosa stesse accadendo e di avvertire il compagno, la spada di quest’ultimo veniva stretta dalla possente muscolatura della bestia , che ne impediva l’estrazione da parte di Gilgamesh, che cercando di riprenderla venne afferrato nuovamente , ma con un vigore ancora maggiore, dalle spire del mostro: con orrore, notò che gli acidi gastrici che fuoriuscivano dalla ferita stavano iniziando già a corrodere la potente spada, e presto avrebbero iniziato a danneggiare irreparabilmente anche lui, impossibilitato a liberarsi ed irriso per la sua stupidità dal mostro.
L’uomo fiera non poté fare altro che correre in aiuto dell’amico: tuttavia, allentando il mostro per quello che bastava la stretta delle spire, un getto di acido segnò il corpo dell’uomo, che impazzendo per il dolore, si diresse , come ritrovando la sua natura ferina, verso colui che l’aveva danneggiato. Aprendo nuovamente la volta delle spire, colpì con forza indicibile Enkidu , che, mentre Gilgamesh osservava impotente, venne sbalzato violentemente contro un enorme albero di lì appresso , colpendo malamente la parte posteriore del cranio e sputando una quantità immensa di sangue cremisi:infine cadde a terra come senza vita.
Mentre Humbaba rideva, Gilgamesh sbarrò d’improvviso gli occhi, e dopo aver lentamente ispirato, sembrò come rilasciare tutte le sue energie in un unico momento; alle sue spalle si materializzò per un secondo un’immensa sagoma alta alcuni metri, brillante della più pura luce mai vista: terrorizzato come dalla visione di un terribile padre che incombe sul figliolo malvagio , il mostro si ritrasse urlando : " Shamash! ". Pochi secondi dopo giaceva a terra , con quel filo di vita bastante a rispondere alle domande di colui che l’aveva battuto.


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Capitolo XVI

" Parla , bestia!" urlò Gilgamesh con ferocia inaudita al mostro, che oramai non aveva neppure la volontà di opporsi all’ira del nemico ; dopo averlo afferrato e sollevato con una mano, continuò violentemente a denti stretti " Chi ti ha ordinato di privarmi del legname necessario alla mia città e di attaccarmi se fossi giunto? E mi raccomando, esigo risposte precise, in quanto, dopo aver reso la tua agonia leggendaria nei secoli , mi aprirò un varco uccidendo tutti gli esseri del creato che si frappongono tra me e il tuo signore "
Tuttavia , prima che la bestia riuscisse anche solo a guardare negli occhi il suo fiero nemico, soffocati colpi di tosse giunsero da dove giaceva il corpo di Enkidu, che appariva riprendere lentamente colore, sebbene dalla bocca continuasse ad uscire un filo di nero sangue. All’udire ciò, Gilgamesh lanciò brutalmente il nemico contro un albero, conscio del fatto che non avrebbe di certo osato scappare nella situazione in cui si trovava, e si diresse a sostenere l’amico: chino su esso, gli fece assumere una posizione in modo da non compromettere la respirazione a causa del liquido vitale che ancora scorreva, e vide che a poco a poco la rosa delle gote stava fiorendo dell’usuale colore: finalmente aprì gli occhi, e strinse la mano all’amico con forza. A Gilgamesh quasi commosso disse : " Signore, anche senza il mio aiuto… vedo che la …. situazione è volta in nostro favore… Uruk vedrà entro poco tempo il ritorno… del suo glorioso sovrano."
" Non dire così: senza il tuo intervento, sarei stato sconfitto al primo giro di spire dal nostro comune nemico. Come già accadde in passato, buona parte dei meriti vanno al tuo saggio operato. Ma ora non sforzarti , riposati: ci sono ancora delle incombenze che devo sbrigare con quella bestia dannata." E così dicendo, indicò la bestia in parte smembrata, che giaceva a terra come pietrificata da quello che aveva subito, e sibilando a bassa voce le sillabe : " Sha…mash…Sha…" come in una terribile litania di morte.
Enkidu strinse i denti come per compiere uno sforzo indicibile, e, facendo forza sulle braccia, si alzò in piedi , seppur dando idea di essere ancora instabile sui piedi e barcollando: quindi disse all’amico ,che esterrefatto ne osservava la ripresa : " La mia fibra è robusta: non per niente venni creato per darti la morte. E’ quindi logico che anche le mie capacità di recupero siano grandi; e per quanto riguarda le incombenze che abbiamo in sospeso con Humbaba, lascia che sia io che gli doni la morte, come premio per aver provato ad uccidermi!"
A queste parole Gilgamesh non poté fare a meno di sorridere, notando come la feroce natura del suo amico fosse sempre in agguato sotto le sue savie apparenze e come ciò fosse indice di una vera ripresa: dopo aver acconsentito a questa richiesta, i due si diressero verso il mostro. L’eroe lo riafferrò , mentre l’uomo bestia si appoggiava ad un albero per riguadagnare le forze più velocemente, e riprese ridendo : " Mio caro Humbaba, è proprio vero che la fortuna arride sempre agli stolti! La tua fortuna è quella di non essere riuscito ad uccidere il mio compagno – una fortuna che può solo eguagliare la mia stoltezza per aver creduto che un misero mostro come te potesse anche solo ferire lievemente il mio valoroso compagno: la tua agonia ,perciò , sarà notevolmente ridotta. Tuttavia, non ti conviene mettere alla prova la mia buona disposizione ritrovata grazie a questa lietissima novella: rispondimi, chi è il tuo signore?"
La bestia, come pronunciando la più terribile delle offese a Dio, sibilò lentamente : "…Shamash… ".
Mentre Gilgamesh rimaneva impietrito , fissando negli occhi il mostro, Enkidu ebbe un eccesso di riso, e con fare canzonatorio incalzò il mostro : " Humbaba, le troppe botte devono averti fatto dare di volta il cervello, questo è poco , ma sicuro: tu infatti hai combattuto col figlio prediletto di Shamash, Gilagamesh, che il Dio ebbe dalla splendida Ninsun! Per quale occulta ragione il padre amorevole dovrebbe volere la morte dell’adorato figlio?".
" Enkidu…" riprese con espressione preoccupata l’amico, " Le cose che tu dici non corrispondono a verità… O almeno, non sono tutta la verità. Da dove cominciare…? Io non sono figlio di Shamash, né di Ninsun: quest’ultima è una cortigiana che si era presa cura di me, e che io ho , con puro affetto ricambiato, chiamato madre. Molte delle cose che si dicono in giro su di me le ho alimentate io stesso per aumentare il controllo sulla popolazione e legittimare tramite la religione la mia sovranità, e non si può dire che non abbiano funzionato. Tuttavia, il motivo per cui Shamash è così adirato con me va al di là di una mia qualsiasi ipotesi : mi sono personalmente occupato dei sacrifici a lui dedicati, e mi sono sempre rivolto a lui con l’amore che il figlio ha verso il padre: bestia, rispondi: perché il mio signore è così adirato?"
Con un rantolo rispose : " Io avevo solo ordine di fermarti e di bloccare gli approvvigionamenti di legna…"
A queste parole, Enkidu prese il mostro a Gilgamesh che glielo porgeva con un’espressione pensierosa, e, dopo averlo decapitato, ne gettò le spoglie per terra con noncuranza: l’uccisione di Humbaba, che sarebbe dovuta essere eseguita con la gioia e l’arte che si utilizza per gustare una giusta vendetta, fu invece portata a termine con rapidità dal uomo bestia, turbato per le rivelazioni del compagno . Tuttavia, prima di morire, la bestia urlò :
"Gilgamesh, ricordati sempre che il tuo peggior nemico cammina dietro di te, che tu lo voglia o no. E tu , uomo fiera, preparati alla morte!"
L’uomo fiera si sedette di fianco all’amico , che giaceva per terra , e traendo un gran respiro , chiese : " Perché non me l’hai mai detto? Pensavi che il mio rispetto per te sarebbe calato o che altro? La mia amicizia nei tuoi confronti trascende la tua genesi: non è certo per la tua discendenza che io combatto al tuo fianco, ma per la stima che nutro per te come persona e come amico."
" Scusami, amico mio. Questo è sempre stato chiaro dentro di me, ma ci sono cose del mio passato che è meglio non conoscere…"
Sorridendo , Enkidu lo riprese : " Va bene, in fin dei conti quello che mi importa è la tua presente amicizia, il tuo passato è una cosa con cui sei tu solo a dover fare i conti. Tuttavia, se vorrai mai parlarmene, sappi che tu puoi fare affidamento su di me."
" Questo lo so , amico mio, questo lo so." E si strinsero le mani.
Iniziò così il ritorno trionfale dei due eroi: la città accolse con grandi onori i due uomini , che vennero salutati da tutta la popolazione al rientro dalla dura missione, quando già i bardi intonavano composizioni che avrebbero segnato nella leggenda i nomi dei due uomini: ma nell’oscurità due occhi osservavano.
Erano gli occhi della luna che sorge splendente, avevano la bellezza delle lame saracene che brillano tremende e sfavillanti nella dura battaglia colorate da sangue: al contempo, contenevano quell’inquietudine che segna anche gli uomini più pii nell’ultimo istante della vita, quella conoscenza che avrebbe potuto portare alla distruzione di un’intera genia. Nel buio dei portici , nell’oscurità delle vie , una donna si muoveva lenta e sinuosa, quasi di una bellezza felina e feroce, mirando il parto più fiero e saggio della terra, l’uomo bestia Enkidu: mentre la folla si apriva al suo passaggio , esultando per gli eroi che a cavallo salutavano di rimando i sudditi trascinando un immenso tronco di cedro , lei lo osservava , conoscendo l’importanza della sua missione.
Nuovamente a palazzo , i due si lasciarono andare nelle loro stanze, sfiniti dalle fatiche che per così tanto tempo: la notte già incombeva , e il sonno aveva preso il sopravvento sui due.
Ad un tratto, come una visione , le tende che bloccavano la vista alle persone che cercavano di cogliere uno spiraglio delle camere dell’uomo bestia si aprirono , e una brezza primaverile , mischiata ad effluvi che avevano un qualcosa di ultra terreno , si sparsero sensuali nella stanza. Subito , Enkidu si levò possente sollevando le lenzuola di seta luminosa poco sotto il torace , con le ossa sconvolte per un attimo da un lungo brivido. Improvvisamente, una splendida figura femminile si palesò : il suo corpo risplendeva avvolto in una nera e rilucente veste di lino, che ne faceva risaltare la bellezza in maniera ancora più aggressiva e violenta.
L’uomo bestia , turbato dalla visione, disse a bassa voce : " Chi sei tu, una visione che popola i sogni, una succube tentatrice, o che altro?"
"No Mortale, né una splendida succube è al tuo cospetto, né una visione ti si è presentata, ma è al tuo cospetto Ishtar, la dea che in questa città venerate come Inanna , prima tra la progenie benedetta di Ish Gabbor: le tue imprese e la tua bellezza hanno fatto si che io mi presentassi al tuo cospetto , ad offrirti il frutto proibito, che per voi uomini è l’amore di una dea. Lascia il tuo compagno e seguimi, decadi di dolcezza e piaceri ci attendono" E così parlando le offrì la mano sorridendo. Al mortale che indugiava, disse : " Cosa ti turba , mortale? Perché aspetti ancora? Forse non ti senti degno di un tale dono?"
" No, splendida dea," rispose alla donna, " il problema non è certo questo, quanto il fatto che non voglio accettare la tua lusinghiera offerta: i sacri vincoli di amicizia che mi legano con il mio sovrano mi impediscono anche solo di pensare di abbandonarlo; inoltre, il mio cuore appartiene già ad un’altra donna."
La Dea, imitando il sorriso che le madri rivolgono al figlio per ricondurlo a giuste disposizioni quando egli smani per qualche cosa , continuò a parlargli : " Non ti chiedo di prendere una decisione in questo momento, ma almeno permettimi di mostrarti di quali splendori ti sazieresti ogni giorno."
Per rispetto, Enkidu non osò rifiutare, sapendo in cuor suo che comunque nessuno splendore gli avrebbe potuto far cambiare idea: tuttavia, i beni offerti superavano di gran lunga ogni sua aspettativa di mortale: dopo un breve viaggio ,per cui la dea gli fece tenere gli occhi chiusi, si trovarono in un luogo maestoso per vegetazione e fauna: attorno a loro si muovevano le più incredibili specie di animali che fino a quel momento l’uomo bestia aveva potuto vedere solo in sogno, e l’erba si estendeva luccicante di rugiada dappertutto, mentre il sole, in un perpetuo tramonto, inondava l’immensa pianura di raggi rosei che diffondevano un tepore piacevole che egli non aveva mai provato. Osservando l’espressione sbalordita del mortale, la dea sorrise e ,affermando che quello non era che l’inizio e accarezzando un rilucente purosangue , fece segno di proseguire. Una costruzione , simile ad un tempio, risplendeva e rifrangeva grazie alla sua bianca roccia i raggi del sole, colorandosi di sole in maniera struggente: al suo interno una lunga tavola era addobbata da una tovaglia ricamate con le sete più preziose, mentre i calici sembravano scolpiti da rocce preziose e busti degli eroi della mitologia adornavano ulteriormente la già splendida composizione. Sopra essa, i cibi più prelibati facevano bella mostra di sé. Infine, facendo un ulteriore segno con la mano in direzione di una scalinata, i due arrivarono fino ad un balcone: la pianura appariva invasa da un esercito di guerrieri, tutti ornati di oro e dotati di splendide armi, invocanti tutti il nome di Enkidu come loro signore e padrone. L’uomo bestia , appoggiando le mani sul corrimano del balcone, mostrava un volto sempre più teso: mentre si mordeva il labbro inferiore nervosamente, la Dea gli prese una mano, e guardandolo negli occhi e sorridendo disse : " Penso che tu abbia già preso la decisione giusta. Regnerai dunque al mio fianco su queste legioni ?"
Enkidu rispose di rimando , senza staccare gli occhi dal suo volto : " Signora, quello che mi hai offerto non può sognarlo neppure il mortale più arrogante; in questo momento mi ritengo il più fortunato tra gli uomini."
" Ne sono felice: sei quindi pronto ad accettare il mio dono?" Domandò Ishtar.
" No, non lo accetterò. Non posso rinnegare il patto di amicizia che lega me e il mio signore: non solo tradirei la sua fiducia, ma anche quella della donna che mi ha reso quello che sono e che amo. Mi dispiace , splendida Signora, ma ritengo più importante servire bene il mio signore tra i mortali che essere dominatore di questo regn…."
Il riposo di Gilgamesh fu bruscamente interrotto da un esplosione che risuonò in tutto il palazzo: destandosi improvvisamente e cercando di realizzare in quale pericolo si trovasse e da dove provenisse il gran trambusto, subito si diresse verso le camere dell’amico per assicurarsi che fosse incolume. Arrivato nei pressi delle camere, si rese subito conto della situazione : gran parte delle pareti giacevano a terra , come sbriciolate dopo decadi di abbandono , e la zona era ancora invasa da una spessissima coltre di polvere che non era ancora calata. All’arrivo delle prime guardie, il sovrano fece segno di stare indietro, mentre dalla nebbia iniziava a giungere un suono soffocato: finalmente apparve la figura deforme di una donna, che teneva saldamente il collo di Enkidu, che ancora si dibatteva cercando una via di fuga, mentre la donna urlava : " Ti ho offerto tutto quello che una bestia come te può volere, pensando che fosse uno spreco sacrificare alla tribù di Olam Ghevul un simile esemplare; ho cercato di separarvi con tutte le arti femminili , ma tu hai resistito. Bene, se non mi è possibile dividervi con quelle, per quanto è vero Iddio, sarà la morte a farlo per me!".

Federico Mori

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