Letto il 27/03/2006 in Ceglie Messapica (BR)
Cesare Vergati ci propone questa cogitanda prosa poetica, tutta incentrata sulle memorie di un io narrante donna, che tenta una nuova “Metafisica della sessualità”, ma di stile più sensibile rispetto a quella dello Schopenhauer.
A me pare che il filosofo Vergati si voglia rivisitare rivestendo panni femminili, più languidi e più animistici.
Una “nuova religiosità”, quasi un nuovo sistema, descrive una solitudine ed una ricerca d’amore con canoni riclassificatori della parola utile al concetto e, laddove il concetto diventa ostico, segue uno slancio poetico chiarificatore.
Si crea, così, un’altalena tra conclusioni e speranza futura, che ricorda prepotentemente le vesti di natura.
Orazio, a tal proposito, asseriva che, pur scacciandola con un forcone, la natura finisce col tornare.
Il personaggio unico del dramma di Vergati rinuncia all’abiura e, al più, la rende lieve laddove pare essersi in “lei” prepotentemente accesa una scommessa al cambiamento radicale
D’altronde non ho più sposato nessuno nella vita da donna (pag.44)
Ma c’è un artificio: quello dell’analisi del maschio tramite le frasi possibili d’una donna. Possibili e probabili, ma figlie di una concezione maschile che stenta ad impadronirsi della femminilità sua, nascosta sotto barriere culturali ataviche.
La donna come esperienza, non come esperimento dell’amante, si appropria della cultura degli uomini e con essa fa teorema di conoscenza.
E coglie i capisaldi del sapere universale; rivalutandolo.
Se non fosse per l’esistenza, che ricorre come un felice compleanno per un piccolo bambino entusiasta dell’evento, di un mese qualunque di estate almeno in un anno, considererei la mia vita del tutto vana. (pagg. 9- 10)
E i cardini della proposta esperienza cominciano, sin dalle prime battute, a delinearsi: l’esistenza delle donne, la fanciullezza loro sì entusiasta, e la vana vita. Vita vana da curarsi nella e con la fantasia- rifugio, e forse salvezza.
Mi succede spesso, spesso mi è successo di non curarmi di ciò che supera la mia immaginazione; mi rifugio così nella fantasia. (pag. 10)
E subito la fantasia diviene, in un incalzare di postulati maieutici, libertà. È la libertà della donna, ancora, così come vista dall’uomo per i secoli dei secoli e che, prendendo di petto la saviezza dei propri neuroni, recita la propria conoscenza.
Ci si prova davvero più liberi e disponibili persino a non far uso immediato del disprezzo per quel che avviene a nostra insaputa […] (pag. 10). Immediatamente, pare quell’anima cadere nella neo- ignoranza delle leggi atomiche (non atomistiche: proprio atomiche!) che regolano l’universo, e cerca nell’istante il significato e il significante della propria ricerca di e in libertà.
…E la libertà- felicità, ridondante, quasi- ritornello, riparte; e forse mai approda ai lidi del neologismo.
Il linguaggio dell’uomo è ancora il linguaggio della donna, vista come “una neonata” Narciso, tutta abbandonata all’auto- valorizzazione.
Quanto tempo a lungo mi ero messa di fronte ad uno specchio da vetrina (pagg. 11- 12). Sfiora appena la mente, a questo punto, l’idea atroce ed attuale della donna- manichino, ammirata e presto dimenticata. E, nell’apoteosi dell’amore, violentata.
Una donna che parte e ritorna alla propria misconosciuta fanciullezza.
Alle “sue” semplici parole d’amore, però, l’amante “turnario” fa seguire la violenza, la “sua” forte guerra. Ed è l’uomo, non la donna, infatti a dire: «Devo possederti con dolore. Soprattutto con dolore» (pag. 17)
Siamo partiti però, se ricordate, dall’oraziano concetto di natura, che, in realtà, qui più che ripreso è sarcasticheggiato, con dolcezza; lævitas. Essa è, all’apparenza, quella della donna; e – in tutta sostanza – quella del maschio predone/cacciatore di sempre.
Alla donna rimane l’altra natura, la propria; che è la stessa della sabbia e degli animali e dell’utero primordiale e selettivo.
Non amiamo un gran numero di uomini, noi donne. Quelli che amiamo ci appaiono numerosi e ciò è dovuto, con tutta probabilità, alla felicità che riusciamo a rubare loro. (pag. 32).
Non è uguaglianza fra sessi e, forse, non può esserci quando l’uomo parla di matrimonio e alla donna chiede, sempre, l’ulteriore sacrificio.
E infine, per questo e non solo, si ricerca nell’infinitesimo il sentimento più umano: la fiducia. Che il barbaro- uomo vuole instaurare col cives- donna.
La fiducia, la mater magistra che, con l’animo della mente (pag. 103), sa essere il sentimento dell’abbandono animale.
C’è un finale col bacio, con la dolcezza, eppure la vera chiusura è segnata prima, a poco meno di metà strada d’una prosa poetica che vira una barca intorno al suo molo all’infinito, nell’istinto sotteso dalle cose della natura.
Natura bigenere, ormai.
La natura dell’uomo e la natura della donna, si ha un bel dire, resta del tutto incomprensibile. Un vero mistero. Forse più misteriosa ancora del mistero della giustizia sulla terra (pagg. 41- 42).
E l’io narrante è anche il poeta; e soltanto poetando potevasi cambiar maschera, come in un carnevale dell’anima umana che stenti a dimettere ogni travestimento.
Dov’è andato il tempo?/ L’ho strappato al destino./ L’ho stretto ad un ricordo./ L’ho fermato sulla tua fronte/ rubata allo smarrimento[1].
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Cesare Vergati, giovane romanziere italiano.
Laureato in psicologia e filosofia, è un giramondo (almeno così pare percepirsi dalla quarta di copertina).
Cesare Vergati “A sorpresa. Romanzo in poesia”, Ex Cogita Editrice, Milano, 2004.
Il testo viene commercializzato con copertina completamente bianca, rimembrante rilegature autoriali inedite su cartoncino. Questo metodo rende familiare il libro, almeno a quel lettore che sia anche uno scrittore. Così confezionato, il lavoro viene corredato da una sovracopertina che pone il libro quale prodotto economico, e dà un senso di separazione delle funzioni tra lavoro autoriale ed editoriale, di tutto rispetto ed apprezzamento. Queste scelte alternative sono rinvenibili il più delle volte con gli editori c.d. indipendenti. I grandi spesso dimenticano cos’è l’arte.
È su questa sovracopertina che l’editore gioca tutta la sua concezione dell’opera, e pone in evidenza il suo pensiero.