Clacson.
PEET. PEET. POOT.
Clacson di vari tipi, striduli, acuti e potenti, penetranti, ma tutti indistintamente fastidiosi. Clacson da tutte le parti.
PEET. POOT. PEET.
I suoni rimbalzano sugli edifici di Corso Giovecca come palline in gomma dura, tanto da far pensare che ad ogni finestra ci sia un ultras con la trombetta a gas, deciso a farti diventare la testa tale e quale ad un pallone da calcio. Più che il centro storico di Ferrara alle cinque del pomeriggio mi sembra d’essere… d’essere… da un’altra parte, non so dove, ma da un’altra parte di sicuro, niente a che vedere con la tranquilla cittadina di provincia che ho sempre conosciuto.
PEET. POOT. PEET.
Bene, la mia emicrania cronica ha deciso che è il momento di farsi sentire. La fitta alla tempia mi annebbia la vista, ma è un attimo lo so, ormai sono abituato alle scansioni (tipo ago piantato) di dolore. Però dall’altra parte della strada c’è una farmacia, sono solamente due passi. Dieci strisce bianche sulla strada e magari un’aspirina o due… Semaforo verde pedone???, era ora.
DRIN. DRIN.
Oh accidenti, non bastavano i clacson, ci voleva anche il vecchietto in bicicletta, di quelli convinti che la strada sia loro e i segnali di stop e dare la precedenza oggetti di mobilio. Lo odio questo incrocio. Da adesso lo odio.
PEET. POOT. PEET.
Meglio che mi sbrigo ad attraversare prima che riscatti il rosso, ci sono già le auto che scalpitano come cavalli indomiti, o asini agitati, dipende dall’autista.
DRIN. DRIN.
Senti il vecchietto come si diverte, vuole passare in mezzo alla comitiva di giapponesi mentre continuano a fotografare il Castello degli Estensi anche camminando sulle strisce pedonali. Non si smentiscono mai.
SKREEK.
Questa sembra una frenata, rumore alquanto fastidioso per giunta.
TUMP.
Strano rumore, un tonfo direi. E’ un peccato che stia cominciando a vedere tutto nero, potevo girarmi a guardare cos’è success……
Luce. Bianca, abbacinante.
Cos’é? Dormivo?
Stavo sognando di essere in giro per Ferrara. Sì, stavo sognando. C’era troppo casino per essere vero e poi non prendo mai le aspirine, mi bruciano lo stomaco in modo sconsiderato, senza nessun ritegno. Ma… dove sono?
Sembra un… ascensore. Bianco, lindo, neutro. Lineare. Non rotondo. La cosa ha un gusto troppo particolare per non sapere di irreale. Adesso. E prima? Forse anche.
OK. E’ deciso, chiaro e lampante ho cambiato sogno. Nessun problema, che ora è? Guardo l’orologio da polso, sono le 6 e 20. E’ un segno, confermato. Con una sola lancetta che gira all’impazzata so che ore sono e tenendo presente che io non porto l’orologio…
Relax. Godiamoci il sonno con visioni incorporate, non mi sembra male. Di quelli un po’ strani, ma troppo singolare per non restarne imbrigliato nelle trame. Speriamo bene.
Mi ricordo di sogni immersi in sogni trasformarsi da pseudo-risveglio in incubi. Brr… i brividi solo a pensarci. Ma manca l’atmosfera da horror, questa è una di quelle dormite a multistorie, come negli albi di Topolino un po’ di anni fa, passando da una situazione ad un’altra senza soluzione di continuità e con possibilità di risveglio quando si vuole. I migliori in assoluto.
Allora dove sono? Se devo ballare, balliamo. Ascensore quadrato bianco, lindo, asettico. La porta? Lì davanti, i pulsanti? Lì, a sinistra. Uno. Però, molta varietà di scelta. Quasi quasi… Lo premo. La porta si apre. Logicamente.
Lentamente entra luce, azzurro di immagini sfocate, una strada. Una strada? OK, non porti domande, vai e non porti domande. Adesso sono inutili.
Un passo, anzi, un saltino. Non vorrei incespicare… TUMP. Asfalto!!!
Per essere fatto di pensieri non è affatto tenero. I sassolini pungono le mani e un ginocchio mi pulsa mandando un dolorino acuto e fetente.
Mi rialzo perché non vale la pena soffermarsi a litigare con un pezzo d’asfalto e mi ritrovo a guardare in avanti, rimbalzando quasi all’indietro per lo stupore. Disarmante.
Con un senso di paura mi volto a cercare alle mie spalle la familiarità rassicurante dell’ascensore, non l’avessi mai fatto. Con una riga netta, la strada è conclusa e l’ascensore sta calando placidamente nel vuoto assoluto, senza sostegni, senza rumori. Prima che le vertigini mi assalgano mi rigiro, cercando ansiosamente di mettere a fuoco la situazione e mi siedo, mi sembra la cosa migliore da fare. Sedersi e cercare di capire…
Ciò che vedo e’ un assurdo e poco descrivibile insieme tra il non senso di un quadro di Escher ed uno snodo stradale periferico metropolitano. Davanti, sopra, sotto, ai lati. Strade.
A vista d’occhio, strade. Rette, incroci, bivi. Larghe, strette. Lunghissime, di tutte non si vede la fine, alcune restano tranciate, non molto dissimili da nastrini natalizi presi a sforbiciate. Infiniti ponti solcanti strade, interruzioni ed altri ponti ancora.
Tutto questo senza la traccia di un benché minimo sostegno. Piattine grigie stagliate in una totalità di ‘azzurro cielo d’estate con obbligatori occhiali da sole’. C’è li ho giusti in mano. Neri, montatura alla Blues Brothers. Me li metto. Com’è facile abituarsi alle cose.
Tutto è immobile, come su una stampa nuova di zecca. No, sembra forse… Là, su quella strada. Un puntino in movimento? Un riflesso?
E’ anche là in basso. Stessa cosa. E lassù. E laggiù.
Mi sembra la caccia ai particolari nelle parole crociate. Completamente INUTILE. Ti prende per i primi 5 o 6 oggetti, poi la monotonia prende il sopravvento e in meno di un attimo c’è il totale disinteresse e hai già voltato pagina. Direi che è ora di muoversi.
Mi alzo da terra e mi spazzolo a smanate il ghiaino che mi si è attaccato ai pantaloni. Faccio il primo passo con ancora le mani dietro, ad altezza tasche, quando il suono di una sirena, da una posizione definibile ad una di 30 centimetri dietro le mie orecchie, in stereo, mi blocca ad occhi spalancati e mi fa incassare il collo verso il busto come ad una tartaruga.
TLEN, TLEN. TLEN, TLEN.
Campane del tipo passaggio a livello. Le ho alle spalle. Mi volto.
TLEN, TLEN. TLEN, TLEN.
Stessa campana. Davanti. Mi giro.
TUT TUT. TUT TUT. … Un treno da destra in lontananza.
Guardo. Niente… e il bello è che ho davanti solamente la mia strada di prima, che si stende dritta simile ad un fuso senza mostrare un benché minimo cambio di direzione o accenno di fine.
TUT TUT. A destra. E…!!!… un aereo?
Poco sopra di me. Un aeroplanino ad elica di quelli che vedi passare quando sei in spiaggia. Distante più o meno come quando lo vedi da una spiaggia. Di quelli con striscione pubblicitario, altrimenti cosa vola a fare. Mi sta veleggiando davanti.
TUT TUT. TUT TUT. Ecco pure lo striscione. "MA E’ PROPRIO NECESSARIO CONTINUARE A VIVERE?" – MEFISTO S.p.A.
Rimango interdetto. Mi osservo i piedi per un momento.
TUT TUT. Ancora a destra? Ma se è appena transitato! Ripassa l’aereo. Ecco lo striscione. "NO" – MEFISTO S.p.A.
Rimango ancora più interdetto, ma non abbasso lo sguardo, voglio vedere cosa fa l’aeroplanino da spiaggia. Con scatto veloce osservo a destra per vedere se ne arriva un altro. Non c’è niente e in un battito di ciglia mi rivolto a sinistra e… non c’è più l’aereo. Ci avrei scommesso, è un classico. Sono pratico di questo tipo di sogni.
Però sono ancora interdetto. Dovrei cercare il significato della frase e della risposta dentro, in qualche angolino nascosto del mio cervello. Essendo un sogno mio, me lo sono inventato io, onde per cui un PERCHÉ, sottolineato e in maiuscolo ci deve per forza essere. Non ne ho voglia. Chi me lo fa fare uno sforzo così. Pensare…
Inizio a camminare ed ecco già la novità. Se prima la strada era grigio asfalto, adesso è bianca, e lì poco avanti si incrocia trasversalmente con un’altra, questa è nera. Prima non c’era, bene, adesso sì. Teniamocela (plurale majestatis. Sembra impossibile, ma più uno cerca di rimanere coerente nel seguire un proprio sogno, più i motivi di distrazione si susseguono e ci si ritrova a divagare, si perde il filo, cambiano le immagini. Odio l’incostanza. Fine parentesi).
Cammino per la mia strada e intanto guardo quella nera (color seppia?) avvicinarsi, sembra una gigantesca striscia di nastro isolante da elettricisti. Qui s’incrociano e, accavallandosi, formano un perfetto quadrato di un bel grigio argento lucido, quasi abbagliante. Sento una voce, e il cuore accelerato in conseguenza, per il mezzo accidente preso. Mi volto verso destra e vedo una bocca muoversi ma non ne comprendo le parole, anche se la voce ha un tono molto melodico. E’ un ragazzo nero, un bel sorriso. E’ positivo, si percepisce.
– Cosa hai detto? – Mentre glielo chiedo noto che siamo entrambi ancora nella propria strada acolorata, ad un passo dal grigio-argento comune. Dice qualcosa, allargando le braccia.
– Non capisco. – e gli gesticolo con le mani il corrispondente segno, nello specifico, pollice e indice puntati in rotazione vibrata con allegato scuotimento di testa. Dovrebbe essere nel novero dei segni universali, il ‘non capisco’ lo capiscono tutti.
Il ragazzo nero sorride di nuovo, dice qualcos’altro e mi poi indica con la mano destra di avanzare. Lo capisco perché dopo il gesto ha fatto un passo avanti entrando nel quadrato di strada grigio-argento. Non sono da meno, anzi, due passi.
– Ciao. – mi dice – Sei il primo che incontro da quando ho intrapreso il cammino. –
– Ciao, – rispondo io – e sarò anche l’ultimo, perché stai scorazzando nel mio sogno. Sei un parto della mia immaginazione. –
– Non ne sarei tanto sicuro fossi in te. Potresti essere tu il parto dell’immaginazione di qualcun’altro, anche il mio. –
Bella risposta, penso. – Bella risposta, – gli dico – com’é che adesso ci capiamo? –
– Non ci arrivi? Siamo in zona franca, incrocio di due strade. Tu bianco e io nero, nel grigio c’è il punto d’incontro. Mi pareva semplicemente chiaro. –
– Volevo vedere se eri pronto. – La frase mi è uscita automatica e mi sento leggermente, anzi due, anzi tre volte leggermente imbarazzato. Che figura da cioccolataio scalzo.
– Il mio nome è Marco, tu sei… – tendo amichevolmente la mano e cerco di recuperare un minimo di dignità.
– Jacob. Comunque so chi sei. –
– Ah si? – Ci rimango male.
– Certo mi hanno mandato a dirti un paio di cose. –
– Chi? –
– Non li conosci. – e mi segna in alto con sguardo e dito indice.
– Saprai anche che sono ateo, vero? – aspetto ghignante per vederlo in difficoltà.
– Non è un problema, io devo solo propinarti un paio di frasi ad effetto. La testa ce l’hai, penso. Poi sono cavoli tuoi se vuoi usarla o meno. –
– Sei simpatico, sai? – glielo vorrei dire in altro modo ma non mi viene. Me la sono cercata.
– Domanda! -, esordisce Jacob in stile telequiz. Non faccio il gesto di mettermi le cuffie perché passerei per deficiente, ma mi stava venendo, avevo già alzato le braccia.
– Saresti felice di esistere per una buona causa? –
– Si certo. Che domanda. – rispondo senza neppure pensarci.
– Bene. Allora ricordati che hai sempre la possibilità di scegliere o perlomeno di tentare. –
– OK, grazie del consiglio. E poi? –
– E poi basta. Fine. Ho detto due cose e due sono state, una domanda e un consiglio. Questo mi è stato detto di fare, testuali parole ‘Dato che passi di lì dìgli…’ e io l’ho fatto. – Il suo sorriso è disarmante, ancora più che mai.
– Dove stai andando, Jacob? – E’ meglio cambiare discorso.
– Oh… – risponde, distrattamente preso alla sprovvista forse da una domanda di così scarso contenuto. – Per la mia strada. Vedi…via di là. Direzione obbligatoria. – e mi indica il nastro isolante formato gigante steso senza una fine visibile. – Devo… non ho alternative. – Il suo sorriso non scema neanche un istante.
– Comunque – continua prima che io riesca a parlare (non ne avevo lo stesso l’intenzione) – è stato un piacere incontrarti e scambiare qualche parola con te. –
– Beh mi fa piacere. Te ne vai di già? –
– Sai, voi bianchi ogni tanto con noi neri non vi comportate molto bene. Ma non è il tuo caso, me l’hanno riferito e percepisco la tua aura. – Alle sue parole un senso di soddisfazione mi rende il cuore più leggero. Sto gongolando? Forse.
– Grazie. Sono contento di sentirtelo dire. – Gli parlo sorridendo anch’io, sento gli angoli della bocca più aperti e rialzati. Che sia contagioso Jacob?
– Gli ultimi due bianchi che ho incontrato non erano molto felici di vedermi. – riprese.
– Ah no? –
– A parte gli epiteti ed insolenze che mi hanno rivolto, tenendo conto che le parole sono aria che esce dalle labbra facendo rumore e non possono di certo fare danni, avevano anche un paio di coltelli a serramanico. –
– Un po’ bastardi, allora .-
– Un po’ tanto. – aggiunge aggrottando leggermente la fronte.
– Ma per quelli, il colore della pelle è una scusa buona quanto quella di tifare per un’altra squadra, o essere una donna sola per strada, o un barbone sotto un ponte. E’ questione di testa bacata. –
– Vero. Scusami, ma ora devo proseguire. – lo dice come se si fosse accorto di colpo di essere in ritardo. – Ho un appuntamento cui non posso mancare. –
– Beh, non so chi dei due sia dentro la testa dell’altro, penso tu, però… spero di rivederti prima o poi, in un altro sogno o da qualche altra parte. –
– Da qualche altra parte di sicuro. Però spero tardi, e… un consiglio mio: la risposta è sbagliata, quella giusta è ‘si’. –
Mi sento preso in controtempo – che risposta? –
– Quella allo striscione dell’aereo. Se sei vivo ci sarà un motivo, no? Cerca di rimanerci, finché hai possibilità di scelta. C’é chi non può. -, calca il tono sulle ultime parole.
Sono sempre confuso – perché mi dici questo? – e intanto Jacob ha già fatto tre passi indietro.
– Perché quei due dei quali ti parlavo prima, i due bianchi tarati di mente… –
– Eh… –
– …27 coltellate. Mi hanno ammazzato. Ciao. – Si gira ed è già sulla sua strada nera.
Ho un attimo di smarrimento. Mi scuoto per riguardarlo mentre si allontana ed è già sparito, lui e la sua strada. La mia è tornata una striscia d’asfalto, mentre l’insieme di strade che prima era un distante ed insensato guazzabuglio, incombe ora sopra la mia testa come visto da dentro. Tutto più grande, tutto più vicino.
La sirena di un’ambulanza mi riempie le orecchie facendomi quasi saltare i timpani. Le copro con le mani in un gesto istintivo e automatico di protezione, mentre mi guardo tutt’intorno per cercare di capirne la provenienza. Non c’è.
Come è venuta se n’è andata, ma accidenti se era fastidiosa. Ho ancora il fischio nell’orecchio sinistro e gli infilo dentro il mignolo, poi lo estraggo in velocità, come se togliendomelo di botto ad effetto ventosa il fischio ne dovesse uscire, pari pari ad un vermicello dalla mela bacata. Ho fatto un bel paragone con la mela e la mia testa, mi sono tirato la zappa sui piedi da solo. Il fischio perlomeno è scemato un po’.
– Oppala!… Sorpresa. – Davanti a me è cambiata la figura d’insieme. Dovevo aspettarmelo vista la ‘regola’ della distrazione. La mia strada parte in discesa e poi curva a destra, in un lungo tornante che pare snodarsi all’infinito senza mai raddrizzarsi, simile ad un serpente color fumo nel deserto. Nella punta di massima curvatura, non riesco a calcolare la distanza (neppure approssimativamente e non capisco perché), perlomeno non è lontano, c’è uno strano complesso che dal vuoto sotto la ‘MIA’ strada (inizio a sentirla come una mia proprietà) risale a sinistra in una specie di edificio.
Il primo impatto mi dice un incrocio tra un silos, un tunnel di montagna e un autogrill. Anzi, la somiglianza all’autogrill è corroborata da un cartellone rettangolare di tipo pubblicitario, di quelli grandi a tutto stabile. Non riesco però a leggere la scritta. Mi avvio.
Non era poi così distante se dopo pochi passi sono già sulla curva, con la sensazione di scarpata nelle ossa guardando in giù. Azzurro e strade, strade e azzurro. Azzurro estivo con occhiali… che novità. Non ho più gli occhiali però. Farò senza.
Il simil-autogrill somiglia adesso ad un immenso polipo, un Kraken grigio asfalto e bianco muro sporco. Da distante non si notava, ma la parte nascostami dalla ‘mia’ strada contiene una specie di grosso buco nero entro il quale fluiscono una serie incredibile di strade, dopo essersi composte e compattate lì attorno, similmente ai rami di un albero seguendone il percorso a ritroso dalle gemme al tronco principale.
Il cartellone è veramente grande, posto sotto una balconata che mi ricorda nel suo complesso quello a Verona di Giulietta e Romeo. C’è incisa o stampata una frase in caratteri… comprensibili. Particolari ma comprensibili: "LE LEGGENDE DI UN POPOLO SONO ANTICHE COME LE MONTAGNE". Sicangu Lakota. E sotto più in piccolo: "Oggi di turno: San Pietro", con San Pietro cancellato da una riga rossa e irregolare e con sopra, scritto sempre in rosso e con lo stesso stile irregolare, "Orso Grigio".
Bello. Poco professionale, ma decisamente bello, caratteristico.
– E’ il mio nome. –
La voce è possente, tonante come una serie di colpi di gong in una camera di quattro metri per quattro. A parte il mezzo accidente che mi ha fatto prendere, la figura immensa posta nel balcone sopra il cartellone con la scritta è perfettamente accoppiata a quella voce. Così me lo immaginavo alzando gli occhi, un nativo americano grande e grosso bardato di penne il cui tacchino proprietario doveva avere le dimensioni di un elefante, borchie in ferro battuto, del peso approssimativa cadauna di una cinquantina di chili e strisce colorate, tante, su una giacca di pelle di daino con classiche frange alle maniche. E così è, visto a mezzo busto dalla cinta in su, con le mani appoggiate sul bordo di sostegno del balcone. Un accenno di compito sorriso ed un’espressione anziana di infinita saggezza.
– Lo… sapevo. – Ho la bocca impastata, sono impressionato in positivo. Direi addirittura in soggezione davanti ad Orso Grigio, e prima che io riesca ad associare tre parole sensate e dirle consecutivamente lui sta già parlando. E io ascolto. Mi viene facile. Ha una bella e robusta voce, si ascolta volentieri. Ti obbliga quasi ad ascoltarla, ma non è un obbligo, è un rapimento di sensi, di attenzione.
– Sto facendo un favore ad un amico, San Pietro. Aveva un impegno. So già cosa vorresti chiedermi, ma San Pietro non riceve le anime in paradiso? E tu cosa ci fai qui? Questa sarebbe la seconda domanda, l’ho sentita tante di quelle volte… San Pietro non può essere SEMPRE qui, o in Paradiso… e poi non sono cose che ti debbano interessare, per ora. Ti piace la frase? – e mi indica il cartellone sottostante.
– Si. – Whow, sono riuscito a dire una parola di senso compiuto. Compiuto? Chissà se sbatto le palpebre o mi sono criogenizzato in posizione plastica, bocca aperta e sguardo ebete ad osservare ed ascoltare Orso Grigio?
– Nello svolgimento di certi compiti è necessario far sapere chi sei, – sta parlando con impeto. Si vede che per lui è importante. – devi portarti sempre appresso un qualcosa che ti faccia riconoscere, una firma, un marchio, oppure un profumo, un colore. Insomma un ‘Simbolo’. I Simboli sono creati da Noi con uno scopo, Noi in senso tu-io-loro-tutti, in passato-presente-futuro, ma rimangono sempre e comunque simboli, che come tali possono essere cambiati, sempre e comunque. BISOGNA SAPERLI COMPRENDERE. Ricordati queste mie dicerie quando dovrai prendere una decisione e ti troverai in difficoltà. –
– Va… bene. – Sbiascico ben due parole in fila. Non ci posso credere. Chissà se le statue di cera del Louvre sono più mobili e loquaci di me in questo momento. Probabile.
– Jacob è già arrivato e mi ha chiesto di salutarti se transitavi da queste parti. Ora prosegui e anche se non è regolare ti do un consiglio lo stesso, oggi sono io di turno e faccio quello che mi pare. Rispondi SI. –
– Grazie di tutto. – non mi viene da dire altro oppure non c’è altro da dire. Con queste tre parole ho formato una frase e con questo pensiero profondo, mi ritrovo a connettere e a stabilire che sto camminando, e davanti a me ho nuovamente una spianata dritta e grigia. Stavolta risulta leggermente in discesa e prosegue finendo… FINENDO?!? finendo in un quadrato. E’ ancora distante per capire cos’è, ma è chiaramente e sicuramente un quadrato.
Avanti, quasi quasi corro. Corro.
Sto correndo in discesa, vado veloce. Passi lunghi, quasi saltati. Mi sento leggero.
Il quadrato si avvicina e al suo interno si cominciano ad intravedere delle linee rette, orizzontali e verticali.
Il quadrato si avvicina e le linee sono tre rettangoli, due sotto, identici e più stretti e uno sopra più largo.
Mi fermo davanti al quadrato.
Due porte d’ascensore senza alcuna ombra di dubbio, con tutti i relativi pulsanti, freccette direzionali e numeri. Sopra, un megaschermo video. Sono sicuro che è un megaschermo video perché dopo un review veloce stanno incominciando a scorrervi delle immagini. E io guardo. Dopo la corsa non ho il benché minimo accenno di fiatone o una goccia di sudore. Chiaro e lampante, mi sembra di aver volato. Forse ho volato, è il mio sogno. E io guardo.
Clacson.
PEET. PEET. PEET.
Clacson di tutti i tipi, striduli, acuti, potenti, penetranti. Clacson da tutte le parti.
PEET. POOT. PEET.
La riconosco, è Ferrara. In zona Castello Estense, sul viale principale che attraversa la città da un lato all’altro. La videata si restringe fino a fermarsi su un semaforo rosso con figurina di pedone incorporata.
Mi frulla un sospetto che diventa certezza quando l’immagine si allarga allo scattare del semaforo verde, includendo strisce pedonali su strada in cubi di porfido, marciapiede con lastroni consunti in marmo, gente sul marciapiede e vista di un pezzo di castello, mattoni rosso scuro e grate in ferro battuto e ossidato. Certezza che si protrae con la gente che dal marciapiede imbocca le strisce pedonali, gradualmente, sfilandosi da gruppo compatto in gruppetti, in coppie, in singoli in fila indiana.
La schermata si allarga un po’, quel tanto che porta al centro dell’attenzione una persona tra la gente, un uomo, uno dei singoli nella fila. Si è già lasciato alle spalle un paio di strisce che una volta erano bianche e dietro ha ancora un altro paio di persone.
L’uomo non ha fretta, cammina piano.
L’uomo è distratto, perso per i fatti suoi.
L’uomo sono io.
PERCHE’ ADESSO DI COLPO E’ TUTTO COSI’ CHIARO?
E’ un urlo silenzioso che non esce dalla mia bocca e rimbalza nella mia testa. Ho sempre saputo che non era un sogno eppure ho continuato imperterrito ad insistere con me stesso del contrario.
PAURA, semplicemente paura. Non c’è bisogno di ricercare risposte complesse o inconcepibili o fantastiche. Solo paura, punto e basta.
Vedo l’uomo/mi vedo seguire con lo sguardo contrito un vecchietto in bicicletta dopo averlo evitato per un pelo e, dalla parte opposta giungere un’autovettura, non grande, un Fiat Uno? Si.
Vedo l’uomo/mi vedo investito dall’auto anche se in frenata e il graduale affollarsi di gente attorno e d’auto ferme o che passano faticosamente dopo aver strombazzato per minuti interi di clacson. Odio i clacson.
Conosco o immagino il proseguimento della proiezione sul megaschermo e conseguentemente della storia, perdendo tutto l’interesse. Il mio sguardo consapevole si abbassa alle due porte di ascensore.
Ricapitolando, uno: ci voleva tanto ad essere concreti?
Due: ho avuto un incidente, sono in coma.
Tre: devo decidere se morire o vivere.
Quattro: sono stato consigliato per l’una o per l’altra e ora la scelta è mia.
Cinque: mi è stato dato da ‘Qualcuno’ o più di ‘Uno’ il tempo di pensare.
Intanto una sirena cresce gradualmente di toni e penso che ormai, se guardo in su dovrebbe essere in arrivo l’ambulanza. Mi rifiuto di osservare e mi rendo conto di quanto perdono di interesse le cose quando sono o diventano scontate, come un film giallo già visto o una storia di zio Paperone già letta.
Concludendo, è tutto qui quello che devo fare, scegliere tra vivere o morire prendendo o l’ascensore della vita, che naturalmente andrà in su verso il paradiso, oppure quello della morte che andrà in giù all’inferno. ALT!
No. Forse è il contrario. Della morte e vado in paradiso, cioè in su e della vita, in giù e torno sulla terra. Oh no?
Dipende dal fatto se sono stato buono o cattivo? Nessun problema. Basta controllare le indicazioni negli ascensori e poi scegliere quello adatto alle proprie esigenze. Che storia fiacca.
Qui mi accorgo che se non vedo gli ascensori è perché sto ancora osservando il megaschermo senza però seguirne il contenuto. Quindi decido di mettere in collegamento il cervello ad una sequenza che percepivo solamente a livello visivo. C’è un giovane medico mi sta chiedendo se lo sento, e con indice e pollice della mano sinistra mi solleva le palpebre, mentre con la mano destra mi ha preso un polso.
– E tu molla il mio portafoglio! – l’ho urlato prima di rendermi conto che è il barelliere e mi rilasso, ma non troppo. Trova la patente, legge i miei cognome e nome a voce alta. Ripone il portafogli dove l’aveva trovato. Adesso mi rilasso.
– Non risponde – dice il giovane medico – dobbiamo portarlo via subito. Non so se ce la farà. –
– Cosa vuoi saperne tu! Burba – gli sbraito addosso – sono io che devo decidere! – e nel contempo un sottotitolo prende a scorrere nella zona bassa dello schermo: DATTI UNA MOSSA. DATTI UNA MOSSA. DATTI UNA MOSSA.
Mi da un fastidio che mi si faccia fretta, in ogni caso ho già deciso da un pezzo. Devo solo vedere quale dei due è il mio, di ascensore e… sono… UGUALI!
Mi sento un tot d’agitazione sorgere spontanea sotto forma di puro terrore frammisto ad acidi gastrici, pure loro sul punto di sorgere.
– Quale sei? Quale sei? QUALE SEI??? – Fammi guardare bene.
Freccia su e freccia giù, di qua e di là. Apri, di qua e di là. Chiama, di qua e di là. Sono identici. IDENTICI!!
E adesso? Quale dei due?
Com’è possibile che sia io a dover scegliere e restare, alla fine, in preda al caso. Appunto! Non è possibile. Pensa. Pensa… ORSO GRIGIO!
– Urrah! Lo sapevo, ci sono! –
Premo il pulsante di chiamata dell’ascensore a sinistra, mentre l’ambulanza sopra la mia testa è sicuramente ripartita. Sento la sirena spianata, adesso hanno acceso la bitonale. Si aprono le porte, scorrevoli. Entro e mi giro ad osservare la ‘mia’ strada, per l’ultima volta, quella che mi ha portato fino a li.
Con le labbra che mi si increspano in uno storto sorriso, ringrazio sottovoce Orso Grigio, convinto ora più che mai che i Simboli sono solamente tali, noi li creiamo per i nostri scopi, noi li ‘CAMBIAMO’ per i nostri scopi. E’ quello che ho fatto anch’io.
– Spegnete quella sirena, per cortesia. Mi fa un mal di testa bestiale. –
– Ehi, si è ripreso. – è il barelliere che mi aveva sfilato il portafoglio.
– La sirena, per favore. – ripeto, e una fitta incredibilmente dolorosa mi viene al cervello direttamente via Internet dalla gamba sinistra, Adsl veloce, e senza digitare la password. Non pensavo esistesse un dolore del genere, così forte, così atroce.
Il medico mi sta iniettando qualcosa nel braccio. Chiudo gli occhi e i volti di Jacob e Orso Grigio mi osservano sorridenti, mi pare di vederli come in un telefilm ‘made in USA’, quando alla fine appare l’immagine degli attori con sotto scritto il loro nome in stampatello e quello del personaggio che interpretano in corsivo.
"Siamo stati bravi, eh?" sembrano voler dire.
Si lo so. Dalle vostre facce capisco che era tutto spudoratamente scontato, alla fine della gita nel ‘Parco delle Strade non so Dove’. Allora perché me lo avete fatto fare! Poca fiducia? Era obbligatorio? Lo fanno tutti? Non me lo volete dire.
Però mi è servito, mi si è chiarito un concetto che prima era completamente fuori dai miei parametri di concezione, isolato in qualche angolo recondito della mente come un inutile regalo di Natale neppure spacchettato. Ho davanti a me una strada da percorrere, la ‘MIA’. Ne incrocerò altre, quelle di altre persone come me, migliori o peggiori ma non è importante, oppure le strade sconosciute di un destino spiritoso o forse già scritto. BOH!
Il fatto vero ed unico, da considerare in questo momento, è, che se sono vivo un motivo ci deve essere.
Quale? Lo scopriremo (Plurale majestatis, mi viene ogni tanto in fase di divagazione).
Marco Milani
LA ‘MIA’ STRADA