…L’uomo che infligge morte è colui che più la teme; è un paradosso, ma chi procura la morte, cerca disperatamente di comprenderla, di penetrare la mente di Dio.
Resta poco o niente in tasca ed è un mese che non bevo. Ho smesso di pensare a tutte le questioni aperte, alle cave di zolfo, ai giorni trascorsi con Marta; tutto si è adagiato in terra, increspandosi in queste pozze d’acqua, con la notte che si scioglie in polvere.
Ho la bocca impastata di zucchero e da quando so di essere malato il mondo continua a rovesciarsi sul pavimento per rotolarsi, ridere, stringersi alle mie gambe. Mi chiama Cattedrale e io un po’ ci credo, poi assumo amiodarone e il mondo si ricompone. Cattedrale che apre le sue porte, Cattedrale che ci crede. E ne parlo poco con il mondo, della mia malattia. Non ho molto da dire e il discorso viene a noia e non c’è soluzione. E resta niente in tasca. Stringo l’aria tra i denti. Il fiato che si sflana fuori. Le strade nere di pioggia, deserte, chiazzate di luce.
Da un mese la malattia mi corrode. Niente è stato più netto. Il sangue…la carne e i pori grondi di sangue. Dapprima appare una crosta sotto l’occhio, così piccola quasi da non esserci, appena visibile. E che si allunga, affiora dalla carne, guadagna sempre più epidermide. La pelle si apre fino a sformarsi in labbra. Quello che tu senti è sale su labbra secche, rotte; ruggine che stria i muscoli. E suoni, suoni lentissimi e vuoti.
Io do un volto alla malattia, che chiamo familiarmente Giorgio; la mattina, sul presto, immagino il suo volto in tutte le possibili espressioni: Giorgio che sorride e Giorgio che si lega le scarpe; Giorgio giù dal salumiere secco teso a spiegare che è vegetaliano. Giorgio che parla alla stampa chiarendo, vera puttana, i propri meccanismi di contagio…Sorride, ma è guercio e ha la fronte intarsiata di piaghe, macchie purulente che gli solcano il cranio, raschiano via i capelli.
Il contagio. Cerco di fissarne l’istante. Studio l’atto dall’esterno; osservo me, Cattedrale. Il processo è evidente: è il virus che si fa carne; Giorgio che si fa Cattedrale. ‘Ché Giorgio, Cattedrale lo fissa. Chiede a Cattedrale di ripetersi. Movimento labiale di labbra. Surrurra qualcosa a Marta, che di rimando ghigna. D’un tratto Giorgio gli è sopra, tiene Cattedrale per il collo, glielo stringe. Giorgio è lì che ride e ride e sputa fuori i denti. Urla, Cattedrale, urla, ho voglia di sentirti gridare. E Cattedrale cade, rotola in terra. Col corpo che gli si fora, gratta contro l’asfalto. Con Marta che si preme addosso e Giorgio lì sopra a scoparlo… Marta non l’ho più rivista e neanche l’ho cercata. Lei è affondata nella neve, un giorno, e non è più riemersa. Nessuno le ha chiesto nulla.
E una sera ho preso Giorgio per il braccio, gli ho detto di smettere e che non può continuare, gli ho urlato: "I vicini si lamentano". Gliel’ho urlato forte, quella sera, e quello neanche mi ha ascoltato. Mi ha trascinato nel cesso ed è stato come sempre. Lui mi preme il petto sul water con me che fisso lo sguardo su un oggetto qualsiasi: un rubinetto in ghisa cromato, un lavandino, mattonelle in maiolica ocra, il sego in terra. Umidità di urina. S’insapona il pene, mi penetra: Giorgio lì, sopra Cattedrale, a fotterla. Sento piegarsi lo stomaco e lo stomaco che si rovescia in gola. Gli occhi chiusi, coi ricordi che si addensano intorno alle cave di zolfo. Pozzi profondi, comunicanti tra loro per mezzo di gallerie gonfie di glebe di zolfo misto a varie terre con ossido rosso di ferro, e ancora solfuro d’antimonio; strette tra strati di pietra calcaria e argillosa investiti di acido solforico che li decompone in solfato di calce e allumina. Sento lo zolfo che invade le narici. Apro gli occhi. Giorgio se n’è andato. Sono solo. In terra. Mi appiglio al lavandino con la mano chiazzata di sego. In piedi. La mano gira il rubinetto. La cromatura mi si lega al palmo. Le tubature vibrano. Otturato, il lavandino trabocca; affondo la testa nell’acqua. Uno specchio in fondo al servizio: mi avvicino; osservo ciò che è il mio volto. Sorrido, guercio come Giorgio e con la fronte intarsiata di piaghe, macchie purulente che mi solcano il cranio, raschiano via i capelli.
Credo di comprendere Giorgio, le sue motivazioni profonde. Eppure non condivido questo suo bisogno di morte. Io voglio esserci. Ora che ti bacio, ti accarezzo. Voglio esserci.
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