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I morti d’arte

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I MORTI D’ARTE

Aveva nel suo guardare sempre un che di fiero, e, forse, si vestiva di solo maglione, grigio e confezionato almeno dalle mani di un’amorevole nonna. Che lo avvolgeva fino alle ginocchia. Calzava un paio di scarpe per il basketball, alte e bianche, un tutt’uno di lacerazioni, come tante bocche, che, passo su passo, in quella davanti sorridevano tutte e nell’altra si ingrugnivano; strette da un paio di lacci di cotone intrecciato, gialli e neri, come quelli per le pedule da alta montagna.
E nient’altro.
Indossava, soltanto in inverno, un paio di calzettoni di lana grossa e lunghi, forse, sin su la coscia, una lunga sciarpa variopinta più d’Arlecchino con attaccati due pompon, due musetti, di micio e di bulldog, alle due estremità, e, quando faceva freddo forte, un berretto di lana blu, simile a quelli dei marine sabotatori.
Ogni suo movimento, pareva una fotografia, un’istantanea perpetua, di una vacanza per i templi dell’Antica Grecia. Biondi i suoi capelli, lunghi sino alle spalle e freschi e morbidi, sempre un po’ aggrovigliati, come fosse uscito dalla doccia.
Ballerino era nel passo, puntava sempre diritto e se voltava, non era mai di netto perché seguiva un semicerchio, perfettamente, e curvando dolcemente. Quelle poche volte che si girava, era in un modo, che sembrava di aver udito una voce fuori campo che poco prima gli avesse suggerito: "ciak, si gira!".
Nessuno conosceva che ne facesse della sua vita, se era un filosofo in erba o un manager pentito, e sulla sua età ci si confondeva in arco di venti anni. Comunque fosse, tutti s’erano fatti un’opinione: nella sua esistenza c’erano stati degli attimi intensi, sicuramente!
E se la doveva cavare abbastanza in dignità anche perché era risaputo che tutto il denaro, che gli occorreva per campare, lo guadagnava affiggendo le locandine sui muri dei bar.
Ma non si conosceva il suo indirizzo.
Tuttavia diventò il nostro messaggero delle novità, l’uomo che ci portava gli stuzzichini per la mente e per lo Spirito. E se comprenderete almeno un po’ quel piccolo dramma di chi vive in una città chiusa su se stessa come un’unica azienda a conduzione familiare sentendo tutt’altra aspirazione per sé o almeno di non averci niente a che spartire con quel senso di produttività morale (avere due cose di tutto, inclusi gli affetti), capirete anche quanta felicità si provasse nel vederlo entrare al bar con le sue locandine. E quando, metteva la mano dentro lo zaino, ne sfoderava una come un samurai la sua lama, sentirlo mentre strappava piccoli pezzi di nastro adesivo, sgonfiare l’aria catturata dal foglio con la mano e assisterlo mentre dava intento un ultimo geometrico sguardo, immediatamente tutti ci si illuminava, ci si incuriosiva! Una data, un titolo e un luogo, lì come il gesto semplice di donare un fiore, come la coincidenza che senza ragioni sa sollevare la monotonia e cancella qualsiasi depressione di vivere solo quali esseri con un destino monotono dove la vivacità è tutta di un’altra vita. Almeno sussurri: qualcosa qui ancora succede?
I mattini, esclusa la domenica, si faceva tutti i bar del centro città e lì ci attaccava "La Lanterna", un periodico murale con al centro le programmazioni dei tredici Cinema, dove in nove tra questi ci davano unicamente film a luci rosse e, siccome la mia città ha ispirato "Il prete bello", e la gente ci è tuttora ancora convinta, c’è scritto in piccolo un laconico "altro programma". Ma, visto che ci usano differenti caratteri tipografici, deve essere una specie di codice che gli affezionati sanno; tutt’attorno, ci corrono poi una cinquantina di rettangolini con cornice a foglie, esclusivo privilegio di cartomanti o di callifughi. E questa combinazione non l’ho mai capita.
I pomeriggi, tre volte alla settimana, era al lavoro con le locandine culturali, cosiddette a ciclicità: sagre culinarie e vario folclore, a primavera e settembre; scuola di danza e di lingua inglese (infinite! anche se non è mai nata un’etoile locale e in inglese ci parlano soltanto il migliaio di anglosassoni, tutti insegnanti) tutto ottobre e in rilancio per tutto febbraio; alcune coi programmi teatrali, in autunno; agosto e luglio ferie; e qualcuna di convegni con i più incredibili svarioni sul Pensiero Occidentale a confronto coll’Orientale, e viceversa, ciascuna sponsorizzata dalla stessa agenzia di viaggi, il cui proprietario, forse, c’avrà una fissa da trauma scolastico, soprattutto sulla definizione di viaggio.
Di due tipi di appuntamenti, però, non gli vidi mai affiggere: sport e mostre d’arte. Se con le prime mi ci trovavo altroché più che solidale e gli dava più punti in quella classifica sugli altri, visto che dalle mie parti la terra è fertile a tutte le pratiche sportive; del secondo tipo, essendo già argomento per i salvatori delle speci in via d’estinzione, mi ci trovavo più che curioso e quanto mai in discussione e soprattutto anche un po’ offeso.
Così un giorno, come se stessi per importunare una bellissima opera d’arte con una mia stupida domanda del tipo "è vero che sei così bella?", lo vidi entrare al bar, mi alzai e gli andai vicino e senza presentarmi dissi in una raffica:
"Lo sport non lo sopporto anch’io e soprattutto il calcio, ma dimmi perché non ti ho mai visto attaccare una locandina di una mostra d’arte?"
Lo vidi prima impallidire, poi diventare emaciato e ancora cereo, e come se una folata di forte vento l’avesse catturato iniziò a muoversi stando sul posto a piccoli scatti e nel modo più goffo che mai avevo veduto. Tentava la fuga con lo sguardo, s’era fatto piccolo e sottile come il profilo di una lametta, e con addosso una maglietta con su scritto "gli italiani lo fanno meglio" e fotografato a Sartorino abbracciato ad una Venere. Sudava e anche puzzava i piedi.
Mi feci aggressivo d’occhi.
"Sì! Mostre d’arte! Di pittura, di scultura", non gridavo, ma ero sulla soglia.
E fu peggio del peggio. Si rannicchiò, si mise una mano alla bocca, i suoi capelli fecero un "plop" ed esplosero in una permanente dopo tre ore e mezza di cottura e condita da intrugli almeno innominabili. Che provai pena, tanta pena.
"Su, su! Coraggio. Non fare così. Su!"
Ordinai qualcosa da bere, e siccome sono un abitudinario nel mio consumare, mi servirono quello che a me piace: Ceres! E nemmeno gradì.
"Porca trottolina, e che mai t’avrò detto…"
"Tu, tu… tu non sai…"
Aveva un tono di voce che mi provocava crampi al collo più di sentire quello di mia madre. Ero tutto in un’unica espressione come a dire "e allora?". Ma già sentivo del disgusto, e lo pressavo a stretta marcatura in telepatico sforzo di disapprovazione.
"Hai mai sentito parlare della morte dell’arte?"
Così, proprio così mi disse.
"Che roba. E’ solamente una teoria, una di tanti anni fa, una da ricredersi…"
"No! Sbagli! La morte d’arte esiste veramente!"
A questo mi sgonfiai d’ira e d’ascolto e mi sedetti come un abito senza corpo, con lo sguardo vuoto e fisso davanti, la testa pesante. Mi passai la mano tra i capelli che restarono ritti come gli aculei di un riccio, con onde di mare in burrasca e la memoria di chi ha subito tutte le immaginabili scoperte del tempo che resta in due fotosecondi.
Ordinai qualcosa da bere, con il dito alzato, come un tic mi si alzava il braccio, e mi arrivarono cinque bottiglie, una dietro all’altra.
E ancora ordinai, quando lui si alzò, mi prese la mano e me la tenne tra le sue e mi disse:
"E ci sono state anche delle vittime, dei morti, e altri ce ne saranno… Capisci, morte? I morti d’arte!"
Il mio collo non aveva più il sostegno dei muscoli, l’orecchio destro come bastonato per delle ore, il sinistro che fischiava come quella volta che andai a sbattere in moto, la mia bocca in anestesia totale, semispalancata. E nemmeno la forza di ritrarre la mano.
"Sono tantissimi! Giovanissimi! Avevano sognato… di diventare pittori, scultori, anche dei musicisti. Tutti morti ancora prima di cominciare… la morte vera…"
Subivo!
"Ti racconto com’è che morto uno. La sua storia."
Bevevo!

Quando era piccino, la nonna gli chiese:
"Cosa farai quando sarai grande?".
Antonio ci pensò un po’ e poi le disse:
"Faccio l’artista, il pittore!".
La nonna si sentì un sussulto in gola e poi, riflettendo con tutta la saggezza dei suoi anni e degli eventi veduti, si mise a girare intorno al tavolo della piccola cucina. Ogni tanto le usciva di bocca qualche mezza parola, altre gracchiava come una rana in una notte d’estate, poi s’era indecisa tra lo spazzare il pavimento o rifarsi la treccia dei capelli. Perciò puntò il lavandino, lavò sette volte lo stesso bicchiere, lo asciugò per più di nove e lo appoggiò sul tavolo; prese la bottiglia con dentro della marsala dolce, ce ne versò un po’, e porse il bicchiere al piccolo Antonio. Che bevve tutto d’un fiato. Se ne versò per lei, e bevve, lentamente senza muovere alcunché del viso come se in bocca avesse un pezzo del corpo di Cristo.
E ancora bevvero, uno a testa, sino a che la bottiglia fu vuota.
Non ci volle molto: s’erano entrambi ubriacati. La nonna coi suoi settant’anni, mostrò un po’ di più resistenza che il piccolo Antonio, debole dei suoi sette anni e di non aver mai assaggiata la marsala dolce.
Il nonno Dante, decise che era ora di rincasare, dopo aver giocate e perdute le sue solite dieci partite a carte, scopone scientifico, nel solito bar di Revere, che è un piccolo paese sotto il Po, il più grande fiume d’Italia e il più puzzone, perché ci scaricano i "bisogni" di tutti i maiali che necessitano per farci gli insaccati per tutta la popolazione italiana e anche per l’esportazione. A Revere, si vive abbastanza indenni, perché sta sotto il livello dell’acqua di dieci metri e si sa la puzza sale.
Appena varcata la soglia di casa sua, il nonno Dante trovò la moglie, la nonna Merina, e il suo nipotino, il piccolo Antonio, che cantavano e ridevano e si facevano degli scherzi, come dei bimbetti l’ultimo giorno della loro vita d’asilo, e in tutto lo sfogo immaginabile. La nonna s’era messa e imitava con la bocca il nitrito di un cavallo euforico, e Antonio le stava sopra a cavalcioni sulla schiena e per briglie usava le trecce: una volta tirava a sé la treccia di destra e una volta quella di sinistra e la nonna girava di conseguenza dalla parte opposta. E ridevano
Il nonno Dante, che era considerato quale uomo duro di sentimenti e uno a cui soprattutto non sopportava il far del gran chiasso senza alcuna motivazione, si arrabbiò e si incattivì di espressione, allo stesso modo di quando, era il caporeparto della Fonderia, c’erano stati primi scioperi e il consenso totale. Mise le mani a pugni chiusi sui fianchi e anticipato da un mezzo broncio, disse: "Beh?". Ed era questa l’unica parola che usciva dalla bocca del nonno Dante, ma in quel beh, e a secondo dei modi e del tono, si interpretava immediatamente tutto il suo atteggiamento.
La nonna e Antonio, risero ancor più forte e ogni tanto la nonna diceva:
"Marsala… bello bambino, mio… bevi è dolce… ah, ah: l’artista vuol fare, il bello bambino, mio… il pittore, ah ah…"
Il nonno Dante non capì e si fece ripetere, con un "beh" interrogativo, e, per tre volte, subì soltanto un barbuglio e risate, che alla decima richiesta, uscì. Si incamminò in direzione dei grandi camini della Fonderia, che sovrastavano i tetti di tutte le case del piccolo paese.
Dopo poco fu ai cancelli.
Il custode, Morrio, detto Lambrusco, che era suo fratellastro da parte di padre, lo lasciò passare, e il nonno Dante entrò nel cortile della Fonderia. Lo accolse la telefonista-portiera, Rita detta "la Citadina", perché voleva andare a vivere in città, che era figlia di una cugina del nonno, che lo fece passare. Incrociò la ragioniere, Lia, detta "el Cragnin" perché non le piaceva camminare ma stare seduta, e il direttore commerciale, Augusto, detto il Bormioli, perché diceva a tutti che avrebbe aperto una fabbrica di bicchieri, che era quello che aveva sposato la figlia di una sorella del nonno Dante, i cui nomi mi scappano ora, so che venivano soprannominate, "el Scatulin", la prima, perché piccolina e con ogni cosa al suo posto in modo come "Dio comanda", e la seconda "la bella siura", perché povera e brutta e rinnegante gli stessi attributi, credendosi bellissima. Che lo fecero passare.
Giunto in reparto molti salutarono il nonno Dante, chi per amicizia, chi perché parente, ma soprattutto perché tutti del piccolo paese si conoscevano, almeno in quel "el ven ciamà", e anche perché ognuno, prima o poi ci finiva a lavorare nella Grande Fonderia, uomini e donne, un unico destino per tutto il paese.
"Voglio parlare con mio figlio e con mia nuora!"
S’interpretò di quel che disse il nonno Dante con i suoi quattro "beh", ben armonizzati. E al suo quinto "beh" pieno di tenerezza ma solida, si capì che si doveva trattare di qualcosa che riguardava il piccolo Antonio…
Il caporeparto corse via e dopo poco rispuntò correndo incontro al nonno Dante, più velocemente. Dietro di lui c’erano Tonino, detto "Pè lung", per il suo 54 di scarpe, e Maria, detta "la pedalora", perché era stata per due anni la Miss della gara provinciale di bicicletta; che erano i genitori di Antonio.
"Antonio è impazzito!",
disse il nonno con un "beh" addirittura imperioso e deciso, che uno di eguale se n’era sentito uno solo, e fu quando i partigiani dopo aver denudato il gerarca fascista, gli fecero fare un carpiato dentro il letamaio sputandoci in testa.
"E pure la nonna…",
Questo "beh" era facile, facile, perché di questi il nonno ne sprecava anche nel sonno.
Il caporeparto diede un "sì" con la testa all’ansia, Tonino e Maria si spogliarono dalle loro tute e corsero a casa, mentre il nonno Dante dietro di loro gridava di far presto, ovviamente con un "beh", quasi ruttato.
Arrivati a casa, Tonino e Maria trovarono addormentati la nonna e il piccolo Antonio: tutt’e due la bocca in uno strano sorriso, uno che mai s’era veduto nelle bocche della gente del paese.
Tonino, il padre di Antonio e figlio di Merina, nonna di Antonio, e detta "la vecina", perché anche da giovane aveva tutti i capelli bianchi, svegliò entrambi proprio mentre giungeva a casa il nonno Dante. La mamma, Maria, che si sedette vicino a Antonio e se lo tirava vicino, accarezzandone la testa, dolcemente e in apprensione.
"Si può sapere che è successo?"
Dissero in coro. E qui il "beh" del nonno Dante si mescolò davvero propriamente.
Antonio, le sue pupille erano di traverso, non rispose. Lo fece la nonna, tirò un sospiro e tra un ruttino e un altro che saturava l’aria di dolciastro, disse:
"Antonio, quando sarà grande farà l’artista, il pittore…"
Tutti si guardarono e c’era in faccia stampato in ognuno un punto di domanda. Meno che il nonno Dante, che quel "beh" interrogativo gli riusciva male.
Una signora, la vicina della porta accanto, La Matilde, "La dotoresa", perché era stata infermiera, chiese:
"Che roba l’è? Cosa vol dir: artista pittor?"
E nella fila, che s’era formata fuori dalla porta fino all’angolo in strada, si levò un’eco della stessa domanda, ripetersi per più di cento volte, finché qualcuno azzardò una timida definizione su "l’artista pitor", senza azzeccarci.
La mamma di Antonio picchiò forte sulla testa del figlio, allo stesso modo di quando, giù alla Fonderia, con in mano il manico della lima, aveva finito di levigare una barra d’acciaio e ci toglieva la polvere.
Fu Antonio a parlare:
"Sì! Da grande faccio l’artista, il pittore!"
Nella fila si alzò un grido e tutta Revere si riempì di urletti e di stupore. Finché giunse un’imprecazione, un mix di bestemmie, da giù alla Fonderia, gli operai del turno pomeridiano, che per via di questa storia, "matada", s’erano persi due colate.
Poi, un indescrivibile andar e rivieni e nessuno che ci trovava pace e ognuno che diceva all’altro che non s’era mai sentito un simile lavoro tra i confini di Revere, che era una pazzia.
"Ma anche Antonio deve prendere il posto di suo padre. E anche la moglie di Antonio che prederà quello di sua madre…"
Così era, da tanti anni, che se per caso moriva un nascituro ci si doveva impegnare per un altro e in fretta, o metter su un’altra famiglia. Tutto perché il ciclo di produzione dell’acciaio e il ciclo della vita erano fusi in tutt’uno a Revere. Tanto che ci s’era convinti che se si interrompeva la catena in famiglia era una disgrazia per l’acciaio e quindi anche per la vita.
I professori, gli impiegati del Municipio, e tutto quel che serve per mandare avanti un piccolo paese come Revere, venivano da altre parti, roba per i forestieri. Che ovviamente per non creare troppi squilibri venivano chiamati solamente con il nome della città di provenienza: la bidella della scuola era "Pavia", il professore di matematica era "Padova", il capoufficiotecnico "Milano", e via. Al di là del Po tutti erano chiamati "la bassa".
Lo stupore iniziale creatosi dalle strane idee del piccolo Antonio, si chiuse con l’indifferenza nei suoi confronti: evitando di parlarci. E passarono gli anni, e nessun ricordo rimase di quanto avvenuto. Se non talvolta, quando c’era un funerale e gli uomini pur fuggire alle lacrime, sparlava un po’ della gente del paese: la storia di Antonio e delle sue stravaganze, era la più gettonata. Tanto che anche "il morandi", un cantante cresciuto nella balera locale che aveva riscosso un buon successo nazionale, venne completamente rimosso.
Appena Antonio fu in età di fidanzamento, e a Revere ciò coincideva con la soglia dei quindici anni, data che dava anche i natali al soprannome, le cose improvvisamente nei suoi confronti cambiarono: l’indifferenza cessò, e crebbe l’ostilità.
Antonio, chiamato "el mez mat", da allora era a pari di uno che si porta addosso senza saperlo il malocchio. Ogni volta che passava per strada lo si indicava e di lui si diceva dietro:
"Lo sai? E’ lui quello che vuol fare l’artista pitor…"
E dallo scherzo si passò alla pratica e alle gestualità: stringersi il basso ventre era minima umiliazione.
Ma quel lontano ricordo per Antonio divenne passione, sempre più forte e sempre più presente, tanto che in quella idea si rappresentava in lui anche l’idea della libertà e della comprensione. Per lui c’era solo scherno e anche insulto, come uno da evitarsi, più all’indice di Bepin, chiamato in mille modi, che era stato ricco di campi e di vacche e che ora viveva in un barcone sul fiume e non si sapeva come, tra leggende e racconti per tenere buoni i bambini.
Antonio si sfogava leggendo, i libri che avevano "quelle strane figurine" (così diceva la gente del paese), e trascorse gran parte della sua gioventù chino alla discarica a raccogliere tra i rifiuti le cose che la gente del paese gettava via, perché non serviva a lavorare l’acciaio e nemmeno per le leghe.
Tonino, il padre, era pensionabile, e tre giorni dopo la sua, scattava la data anche quella della madre. A quest’ultima le si spezzò il cuore e il suo dolore iniziò un mese prima del suo ultimo giorno di lavoro e tutto perché il suo Antonio non s’era voluto sposare.
Così a malincuore dovette spiegare, durante la sua ultima settimana, il suo lavoro alla figlia della sua vicina, proprio a quella che non le era mai riuscita di venirle simpatica: Monica, detta, "dura più d’un todesc".
Antonio, come previsto, occupò il posto del padre e fu messo ai comandi di controllo affidabilità di tensione e di resistenza dell’acciaio; doveva pigiare un bottone rosso per azionare il trascinamento delle barre d’acciaio, poi un bottone giallo per azionare un dispositivo di radiografia della barra d’acciaio e poi di nuovo il bottone rosso e con il piede dava una spinta a destra, per dirottare le barre buone "in partenza", e, se ce n’era qualcuna con delle incrinature, le spingeva a sinistra per la rifusione.
Divenne un bravo controllore di qualità, tanto quanto era stato suo padre, anche se la gente non s’era convinta di questa sua improvvisa conversione. E avevano in parte ragione, perché ad Antonio, tenerci gli occhi concentrati per tutte quelle ore sulle barre e sui bottoni, non gli piaceva.
Allora s’inventò un metodo. Poiché le bolle d’aria delle barre erano sempre negli stessi posti, le disegnò su un foglio uguali e lo appoggiò allo schermo della radiografia, se non ci passava della luce, un campanello suonava e così lui sapeva che la barra era da buttare. E finalmente si dedicò alla sua passione. Si portò prima dei piccolissimi libriccini, per passare inosservato, poi ne portò al lavoro sempre di più grandi fino a quelli che avevano solo le figure e la didascalia. E nella sua testa frullavano le emozioni e la voglia di poterci arrivare. Dopo pochi mesi, si sentì pronto, al pari dei suoi futuri colleghi, aveva già in tasca il biglietto della corriera per andare a Mantova, a comprarsi pennelli e colori.
E poi?
Poi di lui ci si sarebbe ricordato e non solo come "un mez mat".

Fu con in mano il catalogo di una mostra di Van Gogh che Antonio si dimenticò di staccare il dito dal pulsante rosso di trascinamento delle barre, la pesante barra prese velocità e schizzò via ai raggi x, tanto veloce che non il campanello non fece in tempo a suonare e la barra gli piombò dritta nel petto e lo trascinò con sé sino al muro. In uno schizzo di sangue e carne finì la sua vita con su il petto, come un bollo per le lettere, una riproduzione di un quadro di Van Gogh. "Iris".
Quando si entra nel piccolo paese oggi, si trova un cartello giallo con su scritto: "Museo d’arte Moderna". La freccia porta giù alla Fonderia chiusa da anni perché a nessuno più interessava l’acciaio migliore in tutto mondo, a cui un ‘intera comunità s’era dedicata per generazioni, con la vita stessa per farlo così bello e funzionale e poco costoso.
Un custode accompagna la gente per vedere l’opera più importante della collezione di questo museo e ti dirà:
"Questo è il Fondatore del nostro Museo, Antonio Clavedinio… sin da piccolo volle diventare un artista pitor… eccetera e parapapà".
Il resto della mostra sono sculture in ferro eseguite dagli operai, durante la grande depressione dell’89, quando la Fonderia chiuse con un surplus di lavoro per le pompe funebri.
Il custode è un cugino di Antonio. Si chiama Angelo Calzolai, e basta.
Avevo bevuto sette birre e avevo sforato!

Forse anche per questo motivo da quel giorno diffidai del nostro messaggero di novità, ma tenni questo.
Era stretto e rigato e piccolo, come quelli per l’acquavite ai frutti di bosco.


Giancarlo Gandini (Fine)

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