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Le avventure di Banedon (V)

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Le avventure di Banedon – V-

Il mondo era cupo, quella sera. L’aria era satura di umidità, non pioveva ma le foglie degli alberi erano ricoperte da piccole gocce d’acqua; ogni tanto una goccia scivolava lentamente lungo le venature, poi si staccava malinconicamente, come un uomo che deve partire ed è titubante mentre saluta la casa natia, ed infine cadeva a terra e là concludeva la sua esistenza assorbita dal terreno umido, infido. C’era un aria misteriosa per le strade. L’atmosfera era di profonda tristezza, di paura, come se qualche forza oscura stesse minacciando l’esistenza stessa del mondo.
Una figura solitaria camminava per le strade fangose, al buio. Nonostante non ci fosse la minima luce – si trovava ad almeno mezzo miglio dal paese, e non giungevano che lievissimi bagliori dai pochi camini accesi; la luna quella sera era nascosta dalle nubi – egli non portava con sé nessuna lanterna accesa, evidentemente fidandosi della propria conoscenza del sentiero. Camminava rapidamente e silenziosamente, si udivano soltanto i fruscii della veste, una veste azzurra sotto un mantello nero come la notte.
Banedon si trovava a suo agio in quella atmosfera cupa e oscura, così imprevedibilmente emozionante. Lo spingeva a fantasticare, sentiva di essere nell’atmosfera ideale per ottenere cose straordinarie. Camminare da solo, in silenzio, al buio era una delle cose che più amava fare. E poi… era una sera speciale: stava recandosi a quello che chiamava il suo "Laboratorio", una grotta situata a un paio di miglia da Arendal, verso le montagne, per compiere un importante esperimento.
Erano passate diverse settimane dalla partenza di Iruben e il giovane mago di Arendal aveva trascorso questo periodo immerso nello studio dei simboli magici del fuoco; ora avrebbe provato a mettere in pratica le sue conoscenze, lanciando il suo primo incantesimo elementale. Aveva imparato alla perfezione gli incantesimi semplici che Klenar gli aveva insegnato, ma la potenzialità delle magìe elementali lo attirava irresistibilmente.
I simboli magici rappresentano l’essenza stessa delle cose, della natura, degli uomini, della vita. Ognuna di queste cose ha un grande potere che può essere sfruttato grazie ad alcuni oggetti e parole che li "attivano", concetto questo scoperto dai più grandi stregoni di ogni tempo dopo lunghe ricerche. E’ grazie ad essi che un mago può controllare ed asservire a sè grandi poteri come quello del fuoco, dell’aria e degli altri elementali, e, a un certo livello, anche il potere della vita e della morte. I normali incantesimi che le scuole di magia insegnano ai propri discepoli sono, per così dire, "addomesticati"; le formule sfruttano prevalentemente poteri umani, e, nel caso di componenti elementali, contengono grandi riduzioni ai poteri chiamati in causa, riduzioni senza le quali l’incantesimo non funziona, per evitare disastri da parte di un giovane troppo audace. Inoltre, la forza che alimenta l’incantesimo è la forza mentale del mago stesso, e di conseguenza non può raggiungere enormi quantità. L’uso dei simboli magici non viene insegnato che a maghi di lunga esperienza e di grande saggezza, i quali sono ben coscienti del pericolo che essi comportano. Klenar si era fidato della stupefacente rapidità di apprendimento del giovane Banedon e della sua eccezionale passione per la magia, iniziandolo all’Arte elementale della Magìa del Fuoco; e Banedon, ora, voleva sperimentare subito questa sua conoscenza; era fatto così, entusiasta e impaziente, non era capace di aspettare. Conosceva le difficoltà dell’esperimento ma non ne aveva paura, non aveva mai avuto paura di imparare o di provare qualcosa di nuovo, quando si trattava di magia. Non voleva tuttavia sbagliare e sapeva che per questo era necessaria una grande concentrazione. Così fu contento di trovare, lungo il cammino, solitudine, buio e silenzio.
Dopo aver abbandonato la via principale e intrapreso un sentiero secondario, arrivò finalmente all’ingresso della grotta. Si fermò a una decina di metri, mimetizzato il più possibile dietro un albero. Osservò attentamente il bosco circostante, rimanendo in silenzio assoluto per poter udire anche il più piccolo rumore. Un improvviso fruscio alle sue spalle lo fece sobbalzare come una molla; si girò di scatto, e con gli occhi ormai abituati all’oscurità intravide uno scoiattolo che s’arrampicava su un albero. Sospirò.
– Disgraziato – sussurrò sorridendo. Poi si avviò verso la grotta. Continuò a guardarsi attorno mentre camminava, e quando fu entrato un passo, si girò e scrutò ancora attentamente per qualche istante. Non vide niente di mobile, ed entrò nella grotta. Fece i primi passi nel buio assoluto. La base della grotta era piana, ricoperta di terra; Banedon avanzava tcon sicurezza in quello che era sempre stato, fin dall’infanzia, uno dei suoi nascondigli preferiti. Dopo una decina di metri la grotta girava a destra, e cominciava a scendere. Subito dopo la curva Banedon si fermò e comincio a tastare il muro; trovata una nicchia, vi infilò la mano e ne estrasse una piccola lanterna ad olio. La aprì, raddrizzò lo stoppino, poi la tenne ferma davanti a sè, e sussurrò qualche parola, accompagnando le parole con rapidi gesti della mano libera. Improvvisamente, una lieve luce scaturì dalle dita di Banedon, e raggiunse lo stoppino, sul quale si accese improvvisamente una fiammella. Chiuse la lanterna, e proseguì nella grotta. Dopo una decina di metri di discesa c’era un passaggio basso, come una porticina, e al di là del passaggio ecco, finalmente, il "Laboratorio": un antro di forma quasi circolare, alto circa tre metri al centro, con un raggio di quattro metri. Quella specie di stanza era stata scoperta da Banedon e dai suoi amici molti anni prima, quando il mago era ancora giovane. All’inizio era piena di sassi e sporgenze, ma con un paziente lavoro i ragazzi erano riusciti a farne una stanza vera e propria, dal pavimento quasi piano. Col passare degli anni la stanza era rimasta vuota, poi il giovane mago se n’era ricordato quando si era trovato nella necessità di trovare un posto isolato per i suoi esperimenti. Non poteva certo stare in camera sua, con i genitori al piano di sotto e i vicini tutt’intorno. Allora era ritornato nella grotta, l’aveva ripulita dai segni degli anni e ne aveva fatta il suo laboratorio. Fino a quella sera se ne era servito più che altro per ritirarsi a studiare in tranquillità, mentre la sua ambizione era di servirsene per sperimentare incantesimi, creare pozioni, conservare i suoi preziosi libri ed ingredienti, come nella torre di un grande stregone.
Si avvicinò a un punto della parete dove, guardando attentamente, si poteva notare un incisione a forma di ‘B’. Stese le mani verso la roccia, chiuse gli occhi e si concentrò; la ‘B’ si colorò di blu per un istante, poi si aprì una nicchia nel muro. Banedon riaprì gli occhi. Estrasse dalla nicchia un pesante libro scuro, maneggiandolo con molta cura; lo posò su una grossa pietra levigata che occupava un lato della stanza e fungeva da tavolo di lavoro. Poi estrasse anche una penna e un calamaio, e un altro grosso libro. Infine, prese in mano alcune ciotole, tutte vuote tranne una che conteneva frammenti di uno strano materiale; e depose il tutto sul tavolo.
Il primo libro era il suo libro di incantesimi, ancora piuttosto scarno; il secondo era un testo di magia trovato nella biblioteca della sua scuola, che trattava in particolare del tipo di incantesimo che Banedon voleva sperimentare. Nella ciotola c’erano alcune scaglie della pelle di una salamandra; Banedon le aveva comprate da un mercante di passaggio quando aveva saputo del loro potere. La salamandra è infatti un animale che vive a contatto con il fuoco. Può emettere fiamme dalla bocca, come se fosse un minuscolo drago rosso, e la sua pelle può entrare a contatto con il fuoco senza bruciarsi. Quelle scaglie contenevano l’essenza elementale del fuoco, e potevano attivare il relativo potere elementale.
Ciò che ronzava nella mente di Banedon, ansioso di mettere alla prova le sue conoscenze, era la creazione di un nuovo incantesimo: sfruttando il potere elementale del fuoco contenuto in quelle scaglie voleva riuscire ad attivare un nuovo tipo di difesa magica consistente in una barriera infuocata. Aveva studiato a lungo il processo di materializzazione di un potere elementale, con tutti i problemi e i possibili inconvenienti; e allo stesso modo aveva approfondito i fondamenti della magia del fuoco, imparando la difficoltà di controllare tale tipo di magia ma allo stesso tempo il grande potere che essa possedeva.
Aprì il secondo libro e ne estrasse un foglio riempito con i suoi appunti; li rilesse per verificare di non aver dimenticato nulla. Dispose alcuni rametti in una delle ciotole vuote, e con una pietra focaia accese una piccola fiammelle. Dopodichè infilò la scaglia nel fuoco, tenendola con una pinzetta. In pochi secondi la scaglia cambiò colore, passando dal nero cupo a un bluastro con striature viola; fremente, Banedon si accorse che il potere elementale del fuoco stava venendo attivato. Pochi attimi dopo pronunciò le parole che attivavano la materializzazione, chiamando allo stesso tempo la funzione difensiva. Una lingua di fuoco sbuffò più lunga delle altre, si staccò, divenne trasparente, e si avvolse intorno alla mano di Banedon che ancora teneva la pinzetta. Il giovane si accorse di sentire un leggero calore sulla pelle della mano.
– Ecco, ora proviamo – sussurrò. Vedeva la propria mano tremolare attraverso quella strana lingua di fuoco. Prese un bastone dal lato del tavolo, e lo calò sulla propria mano; ma quando il bastone raggiunse la lingua di fuoco, la sua corsa venne arrestata, e venne anzi sospinto indietro come da un’improvvisa folata di vento. – Sì, così – disse Banedon, trattenendo un sogghigno. Calò di nuovo il bastone, con più violenza, stavolta; di nuovo esso venne arrestato e sospinto indietro dalla lingua di fuoco, e con maggior impeto quanto maggiore era stata la violenza del colpo. La lingua di fuoco volteggiava ancora intorno alla mano del mago. Avvicinando l’altra mano non sentiva male, ma solo un lieve calore.
– Sì, sì – esclamò Banedon con entusiasmo, poi si voltò alla ricerca di qualcosa; trovò quello che cercava su uno scaffale: un lungo coltello. Fece un lungo respirò, poi calò il coltello sulla propria mano con forza. Quando toccò la lingua di fuoco, il coltello venne respinto con tale violenza che sfuggì alla sua presa e cadde sul pavimento.
– Sì, ce l’ho fatta, ce l’ ho fatta! – gridò allora il mago cominciando a saltellare per la stanza mentre la lingua di fuoco continuava a circondare la sua mano. Cercò di picchiare la mano contro le pareti, contro il tavolo, ma ogni volta veniva respinta come se avesse colpito una fascia elastica. Saltellò ancora ridendo, poi si sedette sul tavolo e fissò la minuscola corazza di fuoco che aveva creato. L’incantesimo era da perfezionare; e sicuramente sarebbe stato più impegnativo creare una corazza che proteggesse tutto il corpo. Ma la sua idea era stata giusta: aveva realizzato una grande scoperta che lo avvicinava ai grandi maestri della magìa. Un’incantesimo del genere avrebbe potuto aiutare numerosi avventurieri, e gli stessi maghi.
– E’ solo il primo – disse alla stanza vuota. – Sarò un grande mago, un giorno. Inventerò altiri incantesimi… a decine…, e tutti i maghi del mondo verranno da me per averli. Sì! – gridò, con una gioia selvaggia che gli brillava negli occhi. Il mondo intero l’avrebbe conosciuto. E tanto per cominciare, era ora di andare a cercare Iruben, che l’aspettava nel Sud.
Due giorni dopo, partì.

Alessandro Zanardi (continua)

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