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Coltiviamo il cambiamento – Medori e Venditto

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di Stefano Medori e Aldo Fabio Venditto – Prefazione di Enrico Letta
 
Si dissolvono i miti e l’identità “usa e getta” la fa da padrona. E’ una delle tematiche centrali di questo libro, scritto a quattro mani da Stefano Medori e Aldo Fabio Venditto. Dalla forza dell’identità dipende infatti la coesione di un partito, quella di un’intera comunità e di un paese. Le cosiddette FIT rappresentano il modello identitario tradizionale, quello che secondo i nostri autori andrebbe rivisto in nome di un’effettiva ed efficace trasformazione della democrazia, forma di governo forse non più in grado di gestire correttamente i conflitti e le inevitabili oligarchie che da essa discendono quasi fisiologicamente. La sfida che viene lanciata è proprio nella ricerca di una ragionevole convivenza tra il conflitto d’interesse e l’alterità per un vivere comune e rispettoso.
Si parte da un baluardo, quello del PD, per riconoscere ad esso i meriti di una labile volontà ma ancor più per rimetterne in discussione i connotati di destinazione. Il lavoro svolto dai due militanti non consiste nella teoria delle idee dietro stralci di ipotetiche esperienze né si tratta di una contestazione fine a se stessa ma è l’esperienza di partito giocata con attivismo per la strada e tra la gente. E’ l’esperienza rielaborata che si rende trasmissibile, autentica, e cerca un luogo ulteriore da scovare per  aggregare persone e trasformare un’asettica convivenza democratica in una forma davvero partecipata di democrazia. E’ il nucleo solidale delle relazioni infatti che è saltato nell’era globale, sopraffatto da antichi pregiudizi, arcaici provincialismi, pensieri solitari. Rimangono corporazioni e caste. Per evitare una stagnazione senza via d’uscita occorre soprattutto la verifica, quel “delivery-point” che possa misurare il risultato, quell’obiettivo in controluce negli intenti programmatici, troppo spesso endemicamente deboli nei fatti della politica.
Le premesse e l’assetto filosofico, scanditi da uno stile elzeviristico fluido e generoso, non trascurano canoni e riferimenti letterari assai pertinenti, come lo è l’excursus storico-politico che indaga sulle democrazie e sui comunismi e tenta una sintesi dell’ideologia della sinistra italiana avanzando nuove proposte e sentieri percorribili come quello racchiuso nell’originale teoria della “pergola”: struttura identitaria essenziale che sostiene ma non delimita.
Certo chi scrive è una delusa di sinistra alla quale il Partito Democratico sembra un teatrino radical- chic più che un partito orientato verso bisogni popolari. A questa povera delusa verrebbe allora da chiedere ? E’ scomparsa! Dov’è la sinistra dei suoi migliori valori, quella scalzata dalla storia contemporanea che ci punta il dito contro intimandoci che bisogna essere anti-fascisti e anti-comunisti perché le due forme di governo hanno fallito nello stesso modo? A questa storia vorrei rispondere che per prima rinnego gli orrori dello stalinismo o del maoismo ma alcuni precetti sono sicura che andrebbero salvaguardati e riscritti, quelli, ad esempio, che incrociano da sempre nella loro meno cupa prospettiva, il sentire comune e comunitario ad un laico cristianesimo, quel tipo di comunismo, se vogliamo, pratico e spirituale e non ideologico e imperialista, quello della classe operaia e contadina (stranamente rappresentata ai nostri giorni dal secessionismo leghista!!), quello che voleva dare dignità anche agli ultimi della terra ai quali, si pensava un tempo, forse solo in arroccati tramonti partigiani o in qualche canzone intramontabile, spettasse una vita vera come agli altri, quelli più fortunati o più scaltri. Quel comunismo che nella sua praticità estrema chiedeva solidarietà non soltanto per enfasi buonista o spirito filantropico ma per una legge di sopravvivenza lungimirante che il versante più eroico e gotico del romanticismo aveva già intuito, quella legge che decreta la vita o la morte rispetto all’indomabile e imprevedibile comportamento della Natura, unico vero potenziale nemico dell’uomo, tuttavia governabile se arginato con atteggiamento, appunto, solidale e rispettoso. Siamo una specie simile alle piante, non abbiamo soltanto origini ferine e come le piante siamo fragili e bisognosi di linfa, di luce, di radici, di contesti accoglienti. E qui mi aggancio totalmente alla brillante “teoria della pergola” prima descritta. Abbiamo altresì bisogno di interagire armoniosamente fin dove la parte del nostro carattere conflittuale e sadica ce lo rende possibile. Come diceva W. Blake in Marriage of Heaven and Hell: “Il bene è l’elemento passivo che obbedisce alla ragione. Il male è l’attivo che scaturisce dall’energia”. Il male e il dolore ci pensano da soli ad affliggerci, è il ben-essere che è più difficile da stanare e rischia di scomparire! Bisognerebbe andare in questa direzione, se non altro per una regola fisica di compensazione. Siamo sopraffatti da ansie prestazionali per ottenere risultati assurdi che spesso non vanno verso qualcosa che somigli alla felicità. Visti i tempi salverei anche Marx in questa nuova sinistra che intravedo non ancora nitidamente ma con passione. Anche lui è un riferimento economico e pratico utile per capire dove ci abbia portato il cosiddetto “valore aggiunto”, geniale invenzione di sconsolati manager anni ‘90. Che qualcuno lo dica, prima o poi, senza remore, che il valore aggiunto è una grande fregatura!! Il valore aggiunto dovrebbe avere anche un “costo aggiunto”! E’ il rovesciamento di quello che Marx chiamava “plusvalore” nella sua intelligente lucidità. Non la preoccupazione che esista un padrone che ci dia lavoro, ci comandi e guadagni molto più di noi ma il terrore del suo arricchimento esponenziale, questo era il rischio che vedeva Marx, ovvero un baratro economico tra imprenditore e operaio. Situazione in cui siamo precipitati ora! Ci lamentiamo tanto della crisi ma il capitalismo non lo stiamo mettendo in discussione di un millimetro. Esso non andrebbe soppiantato, sarebbe un suicidio di massa rivoluzionare l’assetto del mondo in questa fase storica ma sarebbe opportuno ri-governarlo, limitare le disuguaglianze, rendere possibili percorsi affini a prescindere dalla famiglia in cui si nasce e dal sesso che ci contraddistingue, mettere a fuoco dov’è il benessere per tutti e per i singoli. E invece gli alti finanzieri hanno ripreso le loro dispute adrenaliniche che noi continuiamo a subire arrancando solo verso un’ipo-esistenza e a litigarci i resti della festa! Bisognerebbe dare uno !stop! alla divisione tra economia degli azionisti ed economia dei poveri cristi! O quantomeno renderle meno lontane.
In un modo meno rozzo e diretto i due autori di questo libro si sono fatti domande simili alle mie ma li vedo pur sempre integrati in una lotta di partito liberal-riformista. Forse sono più lucidi e meno velleitari della sottoscritta ma nel Partito Democratico non riesco proprio a sentire rappresentate esigenze tradizionalmente di sinistra. Identità, merito e competizione ruotano insieme, per i nostri amici, verso un unico auspicabile traguardo: IL CAMBIAMENTO. Mi convincono i loro ragionamenti, sono il frutto di analisi attente, si vede, ma il mio rimane il punto di vista di una donna di sinistra. E’ vero che semplificare la complessità del reale è un’operazione rischiosa e in alcuni casi ingenua ma per alcune problematiche di sopravvivenza, perché è questo il punto, ossia la possibilità che non riusciremo a sopravvivere con dignità e a lungo come specie, potrebbe rivelarsi lo scioglimento di un difficile enigma. A volte la complessità è solo complicazione, mistero, è soltanto un rebus da decodificare con una soluzione unica ed inconfutabile. E allora avrei da dire la mia anche sul concetto di “merito”. In uno snodo di civiltà dove il massimo del rispetto per la vita di tutti gli esseri umani è racchiuso nella distinzione tra normo-dotati e diversamente abili, il concetto di meritocrazia sfuma di credibilità. Chi dovrebbe decidere del merito? Qualcuno che ha deciso di sentirsi normo-dotato e che ha fatto gli studi giusti? Non vorrei cadere in un pericoloso fraintendimento relativistico e mi rendo conto che il tema dello svantaggio sociale più in generale o quello dell’handicap nello specifico, non è facile da gestire ma le parole spiegano dove sta andando un’intera civiltà. Purtroppo è un argomento immobilizzato da paure oscure e remote e non è facile trovare definizioni adeguate, ma catalogare qualcuno con l’avverbio “diversamente” e sottolineare il fatto che ci sia uno scarto da una qualche impalpabile “norma”, non lo condurrà mai verso un reale processo d’integrazione ma, semmai, enfatizzerà i suoi punti deboli. Inoltre l’alleanza genera il “Freak” e l’asserzione solitaria orientata disperatamente a dimostrare di essere migliori della “norma”, il “Forrest Gamp” della situazione. Questo è soltanto un esempio. Ce ne sarebbero molti altri come il delirio di indire convegni sui bambini “superdotati” a rischio di emarginazione. Non se ne esce facilmente perché non viviamo in tempi maturi per affrontare problematiche di questo genere e non siamo ancora capaci di gestire con intelligenza il materiale statistico e quello classificatorio, non sappiamo contestualizzare, non sappiamo apprendere da tutti con umiltà e indistintamente, non sappiamo giocare con le parole senza renderle pesanti, burocratiche, stigmatizzanti, pericolose, non ci sappiamo divertire davvero, non sappiamo competere senza danneggiare il nostro avversario disonestamente. Di fondo siamo cinici, disperati pieni di paura e per sentirci forti abbiamo bisogno di vedere persone più deboli di noi intorno! E’ questa la base relazionale che non funziona! Abbiamo imparato la teoria dell’umanamente “correct” ma ad essa non siamo riusciti ad agganciare un’evoluzione emotiva e spirituale. Siamo ancora portati ad erigere muri e barriere ma forse, quando scopriremo che non esistono super-uomini e super-donne ma che tutti siamo ormai collegati a tutti e che ognuno di noi ha qualche limite o handicap e che spesso le potenzialità di alcune persone, soffocate o rese invisibili, potrebbero essere un vantaggio per la collettività, non sentiremo più la necessità di specificare che una persona che ha uno svantaggio di qualche tipo, abbia altre abilità, forse riusciremo a darlo per scontato, senza ricorrere ad incoraggianti didascalie. Allora perché meravigliarsi se due omosessuali che si baciano vengono linciati, se il mondo femminile è profondamente in crisi e non ha ancora messo a punto una strategia che prescinda da modelli fasulli, se un gommone di esseri umani in fuga da un paese in guerra viene abbandonato in mare senza neppure verificare se sussista il diritto di asilo? A mio avviso, gli unici esseri umani da ghettizzare (o rieducare dove possibile) dovrebbero essere quelli che non rispettano il prossimo e le regole di civile convivenza, gli aggressivi e i violenti. Loro e soltanto loro dovrebbero essere lo scarto dalla “norma”, intesa come modello positivo di riferimento. So che non si possono tagliare i valori etici ed umani con l’accetta ma qualcosa bisognerà pur smuovere! Non c’è tempo da perdere. Vanno prese importanti decisioni, innanzitutto antropologiche. Ingenua? Solitaria! Ma dov’è la sinistra? Queste sono tematiche sue! Forse avremo bisogno di tempi lunghi, di fasi transitorie, o peggio, di toccare più violentemente con mano lo squallido fondo su cui rantoliamo, per approdare ad una reale evoluzione che ci umanizzi anche nel quotidiano e non soltanto quando vediamo cosa succede dopo un terremoto. Questo libro è pur sempre un inizio. Sono grata a questi amici coraggiosi e capaci. 

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