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Thievery Corporation

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Thievery Corporation
live a Milano – 18-05-2003

Non mi capitava più di assistere ad un concerto da oltre un anno, ed ora cosa succede? Ho rotto questo digiuno presenziando all’esibizione di un gruppo del quale conoscevo, per giunta a stento, solo l’ultimo album. Andiamo con ordine…
La mia presenza alla tappa milanese dei Thievery Corporation non va in effetti attribuita ad una mia lungamente covata ammirazione per i due dj di Washington, D.C., della cui attività ero anzi colpevolmente all’oscuro fino a poche settimane fa e che comunque praticano ambienti musicali piuttosto remoti dai miei ascolti usuali: a portarmi al Rolling Stone in una calda serata primaverile è stata invece la promessa di un incontro con Frank Orrall, con il quale avevo già realizzato l’e-interview che potete leggere sullo scorso numero di marzo. L’artista hawaiiano, leader dei Poi Dog Pondering e titolare anche del progetto 8fatfat8, è infatti tornato al suo primo amore ed ha accettato di unirsi agli eclettici washingtoniani in veste di percussionista aggiunto per questo tour, che li ha visti suonare un discreto numero di date in Italia e ne prevede altre in vari Stati del continente: imperdibile dunque per me l’occasione di conoscerlo di persona, anche solo per scambiarci due parole prima dello show… il quale però, è giusto che lo ricordi in primis a me stesso, era e resta dei Thievery Corporation, sui quali sarà a questo punto opportuno spendere qualche parola in più.
Dietro a questo moniker si celano, come detto, due dj originari della capitale a stelle e strisce. La loro musica è difficilmente definibile in due parole, raccogliendo suggestioni assai varie e mutevoli: contribuiscono al quadro d’insieme influenze lounge, dub, drum’n’bass, aperture quasi jazzate, calde tonalità etniche (Giamaica, Brasile, India e Maghreb i territori frequentati con più convinzione) ed altro ancora. Il loro lavoro più recente, The Richest Man in Babylon, fonde tutti questi elementi in un insieme variegato e sinuoso, che a dispetto dell’utilizzo di innumerevoli registri non perde di omogeneità e compattezza. Devo ammettere di aver affrontato quest’esperienza dal vivo con una certa curiosità. Ascoltando i solchi del disco in questione mi sembrava di essere alle prese con un lavoro assai intimista, rilassato e di grande impatto emozionale; poco adatto, forse, ad un’interpretazione live che ne avrebbe dovuto inevitabilmente snaturare l’intrinseca delicatezza. Mi chiedevo, insomma, se i Thievery Corporation avrebbero cercato di riprodurre a beneficio del pubblico lo stesso tipo di atmosfera che pervade buona parte delle ultime registrazioni in studio; e, nel caso, se sarebbero riusciti nell’impresa.
Nel momento stesso di salire sul palco il gruppo ha mostrato eloquentemente le proprie intenzioni: a dispetto di qualsiasi ragionevole difficoltà logistica, sono infatti presenti all’appello ben sei elementi fissi più un considerevole numero di membri ‘volanti’, richiamati di volta in volta ad offrire il loro apporto ai singoli brani. A spartire la scena con Rob Garza ed Eric Hilton, la cui postazione è collocata centralmente senza però che la loro presenza scenica sia in alcun modo invadente, vi sono da subito due chitarristi e due percussionisti; più avanti faranno la propria comparsa due ulteriori presenze ai fiati, mentre un sitar prenderà temporaneamente il posto della sei corde in alcune specifiche occasioni.
Nessun risparmio nemmeno sui vocalist: tre voci femminili e tre maschili, tanto per gradire. Se le prime lasciano il segno per la grazia e leggiadria dell’interpretazione, i secondi impongono allo spettacolo una vera e propria svolta con il proprio impatto… Da Milano si vola direttamente a Kingston, trascinati dall’energia e dall’istrionismo dei due rasta Roots e Zee: costoro non solo interpretano i brani con una carica eccezionale ma dominano letteralmente il palcoscenico, attraversandolo a grandi falcate, saltando, chiamando in causa il pubblico e palleggiandosi l’un l’altro le lyrics in modo assai sanguigno e senza tempi morti. Quando annunciano l’arrivo di un altro "amico dalla Giamaica" è segno che il meglio forse deve ancora venire… ed arriva in effetti da lì a poco, quando l’impatto scenico e fisico dei tre performers tocca probabilmente l’apice. Una nota di merito particolare spetta a mio avviso alle interpretazioni di Focus on Sight, tratta dal precedente The Mirror Conspiracy ma proposta in una versione assai più ficcante, e di The State of the Union, invettiva contro la disumanità della politica introdotta per l’occasione da una sarcastica dedica diretta George W. Bush. Quando i due scatenati rastafarian, dopo i bis che includono un’originale versione acustica di The Richest Man in Babylon, abbandonano il palco gemendo "we hate to say goodbye", c’è proprio da credere che non stiano mentendo: sarei pronto a giurare che, fosse stato per loro, sarebbero andati avanti con vigore immutato fino all’alba… però, "we gotta go"!
Detto dell’aspetto più immediato e spettacolare dell’esibizione, resta da sciogliere il dubbio circa la resa della musica dei Thievery Corporation in un contesto siffatto. Ebbene, tutti i miei dubbi sono fugati in pochi minuti: l’elettronica non solo non prevarica il resto, ma a tratti quasi scompare dalla scena per lasciare spazio ai molteplici interventi strumentali… e con quali esiti! La presenza sul palco di così tanti musicisti non può che ripercuotersi positivamente sulla densità del suono, frammentato in un caleidoscopio di sfumature estremamente vitali. In un simile contesto Frank Orrall, che svolge impeccabilmente la sua parte alternando ogni genere di strumento a percussione immaginabile, appare tutt’altro che fuori luogo…
Già, Frank Orrall: ho la fortuna di poter scambiare con lui qualche battuta sia prima che dopo lo spettacolo. Il tempo a disposizione non è molto, ma sufficiente per sapere in ordine sparso che: il nuovo disco dei Poi Dog Pondering uscirà in giugno (sebbene adesso come adesso non sia ancora stato preso alcun accordo per la distribuzione europea: al solito, tempi duri per chi vive da questa parte dell’Atlantico); quello degli 8fatfat8 è pronto ma fermo ai box nell’attesa di venire a capo di formalità legate alla casa discografica; ci sono piani per un prossimo tour americano, che già di per sé rappresenta un investimento non indifferente per un gruppo numeroso come i PdP (i quali non a caso ne affrontano in media solo uno ogni due anni circa); l’origine della presenza di Frank sul palco con i ragazzi washingtoniani va ricercata in una conoscenza comune, ossia un membro della crew dei Thievery Corporation di origine hawaiiana che per primo ha introdotto l’uno agli altri, prima che questi chiedessero ‘in prestito’ a Frank il batterista dei PdP… poi da cosa è nata cosa, ed ovviamente alla prospettiva di un bel tour europeo non si dice mai di no! Ci salutiamo abbastanza presto perché il gruppo deve impacchettare in fretta tutto il materiale prima di salire sul tour bus che partirà immediatamente alla volta di Vienna: conservo l’immagine di una persona assai disponibile e genuina, che mi auguro di poter apprezzare in concerto con il proprio gruppo quanto prima… e soprattutto me ne vado con la convinzione di aver assistito a due ore di gran bella musica.


Fabrizio Claudio Marcon

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