Era una di quelle notti così chiare che quasi sconvolgono i sensi di chi sta a contemplare il cielo, osservandone gli infiniti particolari, magari seduto sui gradini di una scala esterna in cotto, poggiato di spalle al muro dipinto a graffio di casa propria e con davanti un passamano di alluminio opaco sporcato di polvere e pioggia.
Stelle. A migliaia, a milioni. Incontabili, se non per poche decine prima di perdersi in quella marea di ammiccanti luccichii. Per guardare la via lattea bisognava mandare la testa a sbattere contro la parete tiepida, inarcando schiena e collo fino a rimirarne l’estremo confine a ridosso del cornicione.
Le Pleiadi rimembravano solitarie nella loro straordinaria unicità, dritte sopra il camino dell’edificio antistante vecchio e maltenuto. A capo rilassato e con sguardo alto ipnotizzavano con naturale bellezza e ridestavano leggendari ricordi come da vite primordiali o da voli di fantasia. La sola compagnia indiretta di un canelupo, ancora un cucciolo ma non per molto.
Era oltre la recinzione in rete, a guardia se così si può dire, dello stesso macilento edificio sottostante le Pleiadi. Passeggiava avanti e indietro con passo lento e cadenzato, la coda in movimento allegro per attirare le mie attenzioni. Ormai ci conoscevamo, da buoni vicini di casa.
La sua ombra ora lo precedeva ora lo seguiva, proiettata dallo scudo che il suo corpo agile e giovane opponeva ai raggi flebili di una luna appena nata e bassa sull’orizzonte. Il suo sguardo, rilucente ai lucori notturni dirompendo da occhi grandi e buoni, si rabbuiò per colpa di un gattone color rosso slavato, il quale, passeggiando morbidamente per la stradetta laterale protetto dal cancello di ferro, lo distoglieva da quella silenziosa compagnia istigandolo per istinto a correre come un pazzo ed abbaiare con foga e potenza.
Per abitudine, come fu risvegliato da quel mellifluo torpore, riprese il suo comportamento originale non appena il gattone sparì alla sua vista, subito oltrepassato il cancello d’accesso alla casa.
Non lo aveva preso neppure stavolta, pareva interrogarsi il cucciolo, con quella sua posa particolarmente stantia post-preda fuggita. E se un giorno lo avesse agguantato?
Riprese a scodinzolare tornando verso di me, con la sua ombra dietro che pareva ancora più allungata rispetto a prima.
Di nuovo scese il silenzio. Solo un lieve alito di vento a muovere le fronde dei pochi e bassi alberelli posti nel giardino.
Distratti dalla luce indiretta di un lampione sulla strada, i miei occhi si riabituarono a guardare il blu scuro foruncolato di bianco sopra la mia testa. Bellissima serata… Le stelle meno brillanti riapparvero ad una ad una, dapprima sfocate e poi precisandosi man mano nei contorni, da quei piccoli punti luminosi che erano.
Un movimento mi distrasse, a lato del garage, alla destra dieci metri circa dal mio punto d’osservazione. Non si vedeva assolutamente niente, forse era stata solo una mia sensazione. Ma non era una bella sensazione se un brivido freddo mi aveva attraversato la schiena scuotendomi di colpo dal profondo della mia totale calma.
Non ero propriamente convinto. Qualcosa si era mosso, anzi, si muoveva. Così almeno mi sembrava. Notavo qualcosa ma… era impossibile. Sembrava un paradosso, ma era assolutamente e completamente buio, là. Troppo buio per un cielo così luminoso anche se notturno. Un buio solido e impenetrabile, all’apparenza malsano. Pensai che la mia immaginazione mi stesse giocando dei brutti scherzi.
Ricordi di streghe, mostri e uomini neri, residui infantili teoricamente sopraffatti dalla ragione, dall’età e dall’esperienza e relegati, momentaneamente inertizzati, in un qualche angolino della memoria, ma sempre pronti a rispuntare alle prime avvisaglie di anormalità.
Oramai la magia da ‘notte chiara’ era svanita, interrotta da quel disturbo inquietante per ora sconosciuto ed invisibile. Magari un nonnulla o un colpo di vento, un animaletto spaurito… nel qual caso il cane avrebbe dovuto… abbaiare!!
Ma dove era andato a ficcarsi il cane? Di solito faceva sempre un casino boia ad ogni minima variazione vitale nel suo campo d’azione. Dov’era finito?
Lo vidi.
La sua forma oblunga e scura stava finendo di svoltare l’angolo della vecchia casa. Se ne stava andando quatto quatto con la coda infilata tra le gambe.
Forse si era stufato di starmi a guardare e a scodinzolare senza ricevere nemmeno una carezza o un complimento in cambio come spesso succedeva. Anche per lui la magia da ‘notte chiara’ era terminata, qualcosa aveva interrotto quell’idillio naturale di calma e silenziosa nottata estiva. Mi parve di udire un uggiolio sommesso del mio amico a quattro zampe e lo sbattere delle sue unghie sul cemento, tipico di quando si mette a correre.
Di nuovo il movimento, quasi impercettibile ai sensi ma realmente presente.
Com’è possibile vedere nel nero più nero? Che sia solamente un grigio molto scuro?
Era sempre più strano, mi sentivo diversamente strano. Non un rumore infrangeva quel muro di silenzio, creatosi forse per psicosi collettiva di tutto il genere faunistico locale. Pure i grilli, che sempre costantemente rompevano i cosiddetti fino alle prime luci dell’alba, avevano deciso di entrare in sciopero?
Forse era uno di quei momenti premonitori di disgrazie. Tipo un terremoto in arrivo. Gli animali captano in anticipo queste cose. Forse… ma già sapevo che così non era.
Da qualche attimo ero rimasto all’erta, puntando come un cane da caccia o un militare di guardia sulla garitta, ma non avevo né udito né visto niente, eppure… Mi sentivo maledettamente a disagio e mi venne voglia di rientrarmene in casa. Fare gli ultimi tre scalini, aprire la porta e rinchiudermi dentro, al sicuro. Ma al sicuro da cosa?
Pensai di essere uno sciocco impressionabile e rimasi lì, roccaforte eroica, a tentare di penetrare quell’oscurità con un senso di angoscia crescente, nonostante cercassi di comportarmi da persona razionale.
Mi chiesi, con un impeto rabbioso, come potesse un attimo di così intensa intimità, di suadente silenzio, di simbiosi anche, con la notte chiara e il suo cielo stellato trasformarsi, essere mutata e rovinata da una insignificante, incomoda e malnata distrazione.
Fu in quel momento, proprio a finir di pensiero, che il terrore prese forma fisica con la rapidità di un lampo, propagandandosi per tutto il mio corpo in fremiti, come fuoco in una balla di fieno seccato dal sole estivo.
Un’ombra scura (era poi veramente un’ombra?) e informe scaturì dal nero (era poi veramente nero?) creatore della mia angoscia, un anfratto inesistente delle dimensioni di un portone posto dietro e a fianco l’angolo del garage e sfrecciò fino alle scale e poi sopra, verso di me.
Non mi mossi, rimasi impietrito. Non riuscii a capire cos’era… se era qualcosa, se era qualcuno, se era e basta. Non riuscii ad inquadrarlo. Non riuscii a definirlo. Era solo scuro (o forse nero?). Non aprii bocca mentre un urlo mi cresceva dentro, non feci in tempo. Non ebbi neppure il tempo di avere paura… o forse quella si?
Ricordo solamente una cosa, in modo chiaro ed univoco. Risultato all’ultimo istante, quando occhi, nervi e cervello sono riusciti finalmente a mettersi d’accordo. Due occhi infuocati da pupille alterate, terribili e viscosi di fluidi marcescenti, pieni di odio inumano, puntati nei miei mentre delle fauci tremende mi azzannavano con impeto la gola. Odore di materia, guastata da secoli d’inferno. La luna dietro, come un sorriso di bambino.
Il seguito fu buio. Vero buio.
Un buio di un’oscurità che mai avevo visto, né provato. Esatto, provato.
Era un buio ottuso, denso, quasi palpabile, simile nella totalità della sua presenza a quello dell’angolo del garage che aveva partorito la causa della mia fine.
E poi, dopo attimi d’improbabile lunghezza o di infinita brevità qual si voglia dire, di ‘sostanza corvina’ e luttuosa, una luce in lontananza. Un faro di comprensione, una nota di vero intendimento. Luce! Familiare e stupenda come la notte chiara.
Speranzoso e rinfrancato, come attraverso un tunnel avanzai. Camminando, volando, pensando.
A volte pareva di attraversare soffice bambagia, altre di dibattersi faticosamente nel fango, altre ancora di fluttuare nella corrente di una brezza leggera.
Avanzai ancora e ancora. Non so come e in che forma ma continuai ad andare avanti e… penetrai nella luce, finalmente. Luce vivida, solida, violentemente profonda. Vi ero immerso, con tutto me stesso, ne ero parte integrante.
Ero pervaso da sensazioni indescrivibili, completamente ebbro di splendore e partecipazione. Avvertivo silenzio e musica insieme, canti celesti e mute note di spirito, in una fusione di tutte le felicità che un’anima spera di trovare sempre, senza avere la benché minima idea, fino a quel momento, che possa veramente esistere qualcosa del genere.
Poco alla volta capii, compresi appieno il mio futuro, il futuro di tutti, di tutte le umanità.
Sono felice di essere morto.
Sono felice di poterlo raccontare.
Sono felice di essere tornato a casa.
N.B. Il racconto è stato trovato su di una musicassetta, fatta scorrere al contrario e ascoltata a velocità accelerata. Il signor M. F. (non vuole sia fatto il nome per ovvie ragioni), in sogno, ha ricevuto il messaggio con le istruzioni relative per poter ascoltare la registrazione. La voce dice di essere un certo Pierangelo. La musicassetta è una fabbricazione originale, l’album ‘Back in Black’ degli AC DC.
NOTTE CHIARA
Era una notte chiara.
Marco Milani