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Una tranquilla giornata in fabbrica

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Una tranquilla giornata in fabbrica,
tra pensieri, parole e omissioni


La vita non è che una grande catena di cui possiamo conoscere la natura osservandone un singolo anello.

La vita procede stancamente in fabbrica. Le aspettative quotidiane del lavoro sono le pause caffè, utili per spezzare il ritmo che altrimenti rischierebbe di diventare troppo elevato, la pausa pranzo, dove un buon piatto di pasta non si rifiuta mai, e il momento di timbrare il cartellino e farsi una salutare e tonificante doccia prima di rincasare (in genere la doccia si fa prima di timbrare l’uscita). Il tutto finalizzato al ventisette del mese, il mitico Ventisette quando gli stipendi vengono pagati, e non si può sgarrare di un giorno altrimenti scoppia una rivoluzione.
Non tutti i dipendenti sono così, c’è anche chi cerca soddisfazioni nell’impegno e nell’applicazione, ma la maggior parte fa finta di lavorare quando intravede da lontano, come moderna vedetta lombarda, la sagoma del principale e si rintana nell’ozio quando questi si è allontanato: il lavoro arricchisce solo i ricchi secondo i poveri. Ogni luogo di lavoro sembra un ricettacolo di svogliati e menefreghisti, ma forse è la società che è formata da inetti e da qualche mosca bianca, ormai specie protetta in tutto il mondo lavorativo.
Un lavoro del genere non mi dà soddisfazione e preferisco non lavorare piuttosto che sprecare il mio tempo. È un comportamento da privilegiato, da chi non ha una famiglia da mantenere o un mutuo da pagare, ma meglio essere poveri che infelici. E poi c’è sempre il mito di Ulisse da inseguire, il mito della consapevolezza dei propri limiti fisici e intellettivi e cercare di andare oltre, di arrivare sui confini e saltare al di là, per ampliarli. Un passo dopo l’altro e poi un altro e poi un altro ancora e così sino a che si saranno consumate le suole delle scarpe e i piedi ci faranno male e non riusciremo più a camminare e allora strisceremo sino a che non ci abbandoneremo sfiniti ed esausti e consapevoli che il nostro sapere sarà una infinitesima parte del sapere umano e consapevoli che tutto morrà con noi, ma soddisfatti di ciò che avremo imparato grazie alla sete di conoscenza.
Un giovane e ambizioso impiegato intrattiene con fare da showman due eleganti signori venuti a non so che fare né con chi. Parlano del più e del meno, parlano per parlare e alla fine avranno solo sprecato fiato e non si ricorderanno nulla di quello che si saranno detti: perché fare così? Perché parlare inutilmente se non si insegna né si impara né si discute? Chi ha la risposta è pregato di inviarmela via e-mail all’indirizzo lavita.chilacapisce@èbravo .
Io non sono mai stato ambizioso, mi mancano le capacità e soprattutto la grinta. Forse sono peggiore di tante persone, ma credo di non essere presuntuoso ritenendomi migliore di tante altre per comportamento, per modo di pensare e di agire, per conoscenze e anche capacità intellettive, perché no! Ma mi manca la grinta, quella che fa digrignare i denti e ti spinge oltre le tue possibilità, quella che non ti fa mai mollare sino a che l’avversario non stramazza al suolo, quella sana cattiveria agonistica che fa diventare una persona normale un vincente. Ecco, io non sono un vincente, ma uno che preferisce essere nella mischia a sporcarsi piuttosto che sul palcoscenico a ricevere applausi.
Quante volte quelli che erano anche i miei meriti sono andati tutti ad altri, non dico meno valenti, ma meritevoli almeno quanto me; quante volte mi sono nascosto tra la folla ‘temendo’ di essere riconosciuto e premiato. Una mia domanda ricorrente quando guardo gli avvenimenti sportivi in televisione è chiedermi come mi comporterei io in alcune circostanze come ad esempio una maratona alle Olimpiadi in un rush finale a due, con il mio avversario che stramazza al suolo per crampi o stanchezza: mi fermerei e lo aiuterei a rimettersi in piedi e a terminare la gara: sì sono un coglione, e sono fiero di esserlo!.
Non dico che per me non è importante vincere, ma, prima di tutto, è importante divertirsi e stare bene con se stesso e con gli altri. Non mi piace fare le cose in gruppo perché rischio di limitare gli altri con le mie incapacità o debolezze; preferisco essere solo per poter tentare di andare oltre i miei limiti senza rischiare se non sulla mia pelle. In gruppo non cedo sino allo stremo delle mie forze, ma ciò è dannoso per me e per gli altri: sono anche capace di sacrificarmi all’inverosimile per gli altri, ma poi è difficile riprendersi, e quante persone ti dicono grazie? Forse lo pensano ma poi si tranquillizzano con il sano e vecchio adagio ‘meglio tu di me’.
Non mi piace essere su un palcoscenico, essere al centro dell’attenzione come una primadonna o come il presidente degli Stati Uniti d’America. Il mio ruolo è quella del consigliere, che lavora anche 20 ore al giorno perché tutto sia pronto e a posto, ma che poi rimane dietro le quinte: il merito è tutto suo ma sono ben in pochi a saperlo. Speriamo pochi ma buoni…
È uscita recentemente una canzone di Ligabue, "Una vita da mediano", beh, è molto vera: perché tutti dobbiamo aspirare ad essere attaccanti, a fare goal e a essere sotto le luci della ribalta? Gli attaccanti non sono niente senza una squadra dietro e l’anima della squadra sono i mediani, quelli che corrono, picchiano, non si tirano mai indietro e alla fine non trovano neanche un giornalista di quart’ordine che gli voglia rivolgere qualche domanda o gli chieda qualche commento. Non sono per loro i titoloni dei giornali o gli ingaggi ultramiliardari. Ma che Juve avrebbe vinto tanti scudetti senza Furino o che Italia avrebbe vinto il Mundial spagnolo senza Oriali? Si, ci sarebbero stati i loro sostituti, ma comunque sempre gente destinata a faticare per altri, a tirare la carretta per altri, a sudare anche per altri. Senza un Oriali anche Rossi sarebbe stato inutile e, senza un Furino, Bettega non sarebbe potuto andare neanche a giocare in America.
Io sono un mediano di vecchio stampo: datemi una soma e non vi chiederò mai aiuto per trasportarla, portate un peso e sarò felicissimo di rompermi la schiena per aiutarvi a portarlo. Sarò felice se mi direte grazie, sarò contento se non mi direte niente: se siete persone vere saprete ugualmente quanto valgo e quando potrete fare affidamento su di me, altrimenti amici come prima. E via ch’andum.
Non è importante essere lodati e gloriati, quanto essere apprezzati per quello che si fa e per l’impegno che ci mette. È il classico enigma degli insegnanti: meglio dare un bel voto a chi ottiene i risultati senza impegnarsi o a chi non li ottiene ma dà il meglio di sé? Uno che ci ha sempre messo l’anima e raramente ha ottenuto i risultati opterebbe per la seconda; so do I direbbero i cugini d’America, così faccio io dico io…

Spalla (continua)

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