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La legge “Pinto”

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(nota[1])
In una società libera, lo Stato non amministra gli affari dell’uomo.
Amministra la giustizia tra gli uomini che conducono i propri affari.
Walter Lippmann
 
“Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente e imparziale costituito per legge, al fine della determinazione sia dei suoi diritti e dei suoi doveri di carattere civile, sia della fondatezza di ogni accusa penale che gli venga rivolta”, è quanto stabilisce l’art. 6, paragrafo 1, della “Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali[2]. Di conseguenza la Convenzione (CEDU), continua prevedendo, all’art.34 (Ricorsi individuali), che “La Corte può essere adita per ricorsi presentati da ogni persona fisica, ogni organizzazione non governativa o gruppo di individui che pretenda di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti (gli Stati nazionali, ndA) dei diritti riconosciuti dalla Convenzione o dai suoi Protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non impedire in alcun modo l’esercizio effettivo di questo diritto.”.
Ben presto “il piccolo rivolo di richieste per la tutela dei diritti sanciti dalla Convenzione che dall’Italia giungeva a Strasburgo (sede della Corte), si trasformò in un fiume capace di travolgere anche l’efficiente macchina della CEDU”[3]. Secondo la Corte Europea l’Italia è, oggi, al primo posto tra i Paesi membri del Consiglio d’Europa contro i quali risultano presentati ricorsi riguardanti la violazione dell’art. 6 della Convenzione del 1950 in tema di durata “ragionevole[4]” dei processi[5], tanto da produrre, in seno alla giurisprudenza della Corte, un filone abbastanza nutrito di condanne e di inviti al Governo italiano da una parte a risolvere i problemi di una giustizia troppo lenta, dall’altra a limitare l’afflusso di ricorsi a Strasburgo, in continuo aumento[6].
Si aggiunga anche la previsione contenuta nell’articolo 35, paragrafo 1, della Convenzione (Criteri di ricevibilità), per la quale: “Una questione può essere rimessa alla Corte solo dopo l’esaurimento di tutte le vie di ricorso interne, qual è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti, ed entro un periodo di sei mesi dalla data della decisione interna definitiva”.
Il legislatore italiano ha, purtroppo, risolto solo l’ultimo dei due problemi evidenziati. sopra. Con la legge in questione, infatti, ha predisposto un ulteriore mezzo “interno” di tutela diretto a ottenere riparazione dalle lunghezze dei processi, restituendo alla Corte Europea quel suo ruolo di “garante sussidiario” dei diritti fondamentali, ma trascurando di risolvere il vero problema, quello della “lentezza della giustizia”.
Nonostante la nuova legge, infatti, la CEDU (e, con essa, il nuovo art. 111 della Costituzione[7]) continuerà ad essere violata, con la sola differenza che giudice di tale violazione non sarà più Strasburgo, bensì la Corte d’Appello competente per territorio[8].
La legge n. 89 del 2001 ha introdotto nel nostro ordinamento giuridico uno strumento che consente un’equa riparazione a “chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della CEDU sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’articolo 6, paragrafo 1”[9]. L’equo risarcimento consiste nel riconoscimento di una somma di denaro per ogni anno di eccessiva durata del processo ed ammonta a circa 1.000/1.500 euro, ma può aumentare fino a 2.000 euro in casi di particolare importanza (ed es. in tema di diritto di famiglia o stato delle persone, procedimenti pensionistici o penali, cause di lavoro o cause che incidano sulla vita o sulla salute) e a seconda della Corte territoriale competente[10]. La domanda può essere proposta a prescindere dall’esito della lite, sia che si vinca, si perda o si concili la causa davanti al Giudice. Per periodo ragionevole, solitamente si intende: 4 anni per il procedimento di primo grado, 2 anni per l’Appello e un anno per la Cassazione. Qualora la domanda si proponga per una causa pendente, può essere liquidata una somma in base agli anni trascorsi oltre il limite. A fine procedimento può essere avanzata una seconda istanza per i successivi[11].
II risarcimento va chiesto con ricorso[12] alla Corte d’Appello territorialmente competente, secondo una speciale tabella, e deve essere deciso entro 4 mesi dal deposito. Va proposto nei confronti del Ministero della Giustizia, se si tratta di procedimenti del giudice ordinario, del Ministero della Difesa quanto si tratta di procedimenti del giudice militare, del Ministero delle Finanze quando si tratta di procedimenti del giudice tributario (art.3).
Nel ricorso si dovranno esporre i fatti in maniera dettagliata. provando la lungaggine processuale attraverso la trascrizione pedissequa dei verbali di udienza, così da dimostrare i ritardi dovuti a rinvii d’ufficio, intercorsi tra le udienze. Spesso si assiste alla prova della violazione dell’art. 6, par. 1 CEDU, anche sotto il profilo “iniziale”, quando cioè è trascorso un notevole lasso di tempo tra il deposito della domanda giudiziale e la data effettiva della prima udienza. Una volta esaurita la procedura, la Corte d’Appello deposita presso la Cancelleria il decreto con il quale lo Stato Italiano viene condannato a corrispondere al ricorrente un indennizzo, oltre alle spese legali sostenute. Il decreto viene notificato, a cura del difensore, all’Avvocatura dello Stato distrettuale ed è immediatamente esecutivo. In altri termini se il Ministero non provvede volontariamente al pagamento delle somme, si potrà agire esecutivamente per il recupero forzoso del proprio credito[13]. Naturalmente i tempi dipendono dalla rapidità con cui le Corti d’Appello, dislocate sul territorio nazionale, provvedono alla fissazione dell’udienza ed al deposito del provvedimento conclusivo della procedura[14].
Ma la “legge Pinto”, più che migliorare la situazione dei tempi della Giustizia italiana, l’ha ulteriormente aggravata.
Il Primo Presidente della Corte Suprema di Cassazione, Vincenzo Carbone, nel discorso inaugurale dell’Anno Giudiziario lo scorso 29 gennaio 2009, ha dedicato un apposito capitolo della sua relazione a “I gravissimi e assurdi costi della legge-Pinto”, sottolineando che lo stesso Presidente della Repubblica Napolitano ha definito tale fenomeno come “abnorme” e “intollerabile”. L’incremento dei costi per lo Stato derivanti dall’applicazione giurisprudenziale della “legge-Pinto” – peraltro non eccessivamente severa secondo l’opinione della Corte di Strasburgo – continua ad essere esponenziale e allarmante. Con riferimento al periodo 2002-2006 gli esborsi per indennizzi ammontavano complessivamente a 41,5 milioni di Euro. Nel 2008, dopo due anni, il montante è salito a 81,3 milioni di euro, praticante raddoppiato. Non solo, agli 81,3 milioni occorre aggiungere almeno altri 36,6 milioni, dovuti e non ancora pagati, in parte oggetto di pignoramento nei confronti del Ministero della Giustizia che non ha onorato il debito derivante dai provvedimenti di condanna delle varie Corti d’Appello. In altre parole, il costo per le casse dello Stato è stato di circa 118 milioni di euro fino al 2008; ma il trend è in pauroso aumento.
Alcuni  Presidenti di Corte d’Appello segnalano il fenomeno tragi-comico della c.d. “Pinto sulla Pinto” (ricordato anche dal Presidente Carbone), cioè della richiesta di risarcimento/indennizzo per il ritardo nella definizione non solo della prima causa, ma anche della seconda causa relativa al ritardo della prima. E’ una sorta di “Pinto al quadrato”. E siamo alla vigilia della “Pinto al cubo”…
I ritardi della giustizia civile non gravano soltanto sulle parti in causa, ma sull’intero sistema-Paese, soprattutto nel settore dell’economia. E’ significativa una notizia.
Per evitare l’aggravio dei costi derivanti dai pignoramenti e dalle procedure esecutive attivate presso il Ministero della Giustizia in base alla “legge Pinto” è intervenuta una modifica legislativa (art. 1, comma 1224, legge finanziaria 2007 n.296/2006) che ha accentrato presso il MEF – Ministero dell’Economia e Finanza – i pagamenti degli indennizzi. Nel 2007, in previsione della nuova “gestione dei pagamenti” prevista dalla Finanziaria, il MEF ha effettuato uno studio per accertare l’entità del rischio economico per il futuro.
Lo studio è allarmante. Il “Rapporto intermedio sulla revisione della spesa” del 3 dicembre 2007 dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica (C.T.F.P.) indica in 500 milioni di euro all’anno il rischio economico dello Stato per le (future e probabili) “condanne ex legge Pinto”[15].
Dalle notizie di stampa e dal rapporto citato risulta che i ricorsi-Pinto iscritti in tutta Italia ammontavano, con riferimento a quadriennio 2003-2006, secondo fonte ministeriale, a n. 46.648  complessivamente; in particolare[16]:
                     n.   5.051 per l’anno 2003
                     n.   8.907 per l’anno 2004
                     n. 12.130 per l’anno 2005
                     n. 20.560 per l’anno 2006
 (per il biennio 2001-2002 i dati nazionali non sono noti).
Una curiosità giornalistica. La Corte d’Appello di Perugia avrebbe pronunciato fra il 2002 e il 2006 più di 3.000 condanne per processi gestiti dal Tribunale di Roma, per un ammontare di 12,6 milioni di euro[17]. Riporto l’interrogativo retorico che si è posto il Presidente della Cassazione Carbone nella relazione inaugurale dello scorso anno (2008): «Non sarebbe meglio destinare queste ingenti risorse invece che a risarcire i danni dell’arretrato, a finanziare misure idonee per smaltirlo o impedire che si riformi in futuro?».
La domanda è rimasta senza risposta[18].
 
Più pende… più rende
Un Avvocato


[1] Michele PINTO, Senatore della Repubblica del Gruppo del Partito Popolare Italiano, nella XIII Legislatura (dal 9 maggio 1996 al 29 maggio 2001), Avvocato e Ministro delle risorse agricole, alimentari e forestali dal 18 maggio 1996 al 20 ottobre 1998, primo firmatario della legge in esame.

Nell’immagine, il Primo Presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone, durante l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario 2009.

[2] Firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata in Italia con legge 4 agosto 1955 n. 848, cfr. KultUnderground, n.3, DICEMBRE 1994: “La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”.
[3] Cfr.”www.delittoecastigo.info”, sito a cura di Leo Stilo.
[4] Le jugement doit être rendu … dans un délai raisonnable”
[5] Cfr. relazione di Mario Barbuto (Presidente del Tribunale di Torino) al Convegno “CRISI DELLA GIUSTIZIA CIVILE, I costi per la collettività e l’esperienza torinese”, organizzato dai Consigli degli Ordini degli Avvocati di Imperia, Sanremo e Savona, Imperia 29 maggio 2009.
[6] Nel 2008 i ricorsi contro lo Stato italiano ammontavano complessivamente a 4.200; ben 2.600, più della metà, riguardavano la lentezza dei processi, soprattutto delle cause civili.
Due fenomeni, tra i tanti, hanno determinato un’impennata del numero dei ricorsi:
·          il risalto dato dai mezzi di comunicazione di massa alla crisi “terminale” della giustizia italiana;
·          la corretta e rivoluzionaria idea di diffondere capillarmente (ad es. tramite Internet) il formulario e le necessarie istruzioni per proporre ricorso senza creare ulteriori aggravi economici per il ricorrente.
[7] Costituzione della Repubblica Italiana, Parte Seconda, Titolo IV, La Magistratura, Sezione II Norme sulla giurisdizione, Art.111, 1 e 2 comma:”La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge.
Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”
[8] Nella sua giurisprudenza, la Corte europea ricorda che l’art. 6 par. 1 costringe gli Stati ad “organizzare il loro sistema giudiziario in maniera tale che le Corti e i tribunali possano soddisfare ciascuna delle sue esigenze” , auspicando una riforma del sistema giudiziario piuttosto che la possibilità di ottenere un risarcimento di un danno che si è già prodotto.  Cfr. Lineamenti di diritto europeo dei diritti dell’uomo, Michele de Salvia, CEDAM Padova 1993.
[9] LEGGE 24 marzo 2001, n. 89 “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’articolo 375 del codice di procedura civile” G.U.R.I SERIE GENERALE N. 78 DEL 3/4/2001.
[10] Tra i numerosi siti cfr: www.legale.guidaconsumatore.com.
[11] Ovviamente, nella determinazione del tempo ragionevole dovrà essere valutata una serie di circostanze, come ad esempio la complessità del caso o il comportamento (dilatorio o meno), delle stesse parti e del Giudice, art.2 Legge n.89/2001.
[12] Il ricorso per equa riparazione va presentato entro sei mesi dal passaggio in giudicato della sentenza che definisce il processo, a pena di decadenza. E’ sempre proponibile, invece, in pendenza di causa (Art.4 Legge n.89/2001).
[13] E’ successo più volte al sottoscritto, nella sua veste professionale di Ufficiale Giudiziario, di eseguire (mediante la notifica dell’atto) numerosi pignoramenti “presso terzo”, in particolare nei confronti di una sede di Equitalia s.p.a, società pubblica incaricata della riscossione dei tributi dello Stato, dunque soggetto in possesso di ingenti somme appartenenti all’erario, al fine di “bloccare” somme di denaro (sottratte alla collettività) e destinate a risarcire i numerosi cittadini, danneggiati dalle lungaggini della giustizia italiana, e indennizzati dalle Corti d’Appello ai sensi della Legge Pinto.
[14] In media, dal momento della proposizione del ricorso introduttivo a quello del concreto recupero dell’indennizzo, compresa la fase esecutiva, trascorre generalmente un lasso di tempo di circa 18 mesi, ma il periodo può essere anche maggiore, dando vita ad un caso paradossale di “ritardo” in una “procedura contro i ritardi”…
[15] Il testo del Rapporto è reperibile nel sito INTERNET del Ministero dell’Economia (www.mef.gov.it). E’ un documento molto poderoso di 169 pagine in cui le questioni del Ministero della Giustizia sono trattate da pag. 23 a pag. 46. I contenuti del rapporto sono commentati dal settimanale “IL MONDO” del 21 dicembre 2007, pag. 18,  nel servizio di GASPARINI M. “Processi lenti. Danni record. Malagiustizia: 1 miliardo di risarcimenti per i processi infiniti“; con un riquadro dal titolo “L’eccezione: Così al Tribunale di Torino hanno inventato il taglia-udienze“; nonché dal “CORRIERE DELLA SERA” del 16 dicembre 2007 nel servizio “Giustizia, debiti record. Processi lenti, risarcimenti in aumento. Il Tesoro: troppi 500 milioni all’anno” (pag. 10-11, in cui sono citati i dati di fonte ministeriale), dal quotidiano  “ITALIA-OGGI” del 6 dicembre 2007 nel servizio “Un debito di 500 milioni di euro all’anno. E’ quanto costa alla Stato la irragionevole durata dei processi“.
[16] Cfr. il servizio “Giustizia, debiti record, cit.”  del “CORRIERE DELLA SERA” (ved. nota precedente).
[17] Cfr. l’articolo “Giustizia: quanti debiti Mastella” del settimanale “L’ESPRESSO” del 14 giugno 2007, pag. 13.
[18] Cfr. relazione di Mario Barbuto (Presidente del Tribunale di Torino) al Convegno “CRISI DELLA GIUSTIZIA CIVILE, I costi per la collettività e l’esperienza torinese”, organizzato dai Consigli degli Ordini degli Avvocati di Imperia, Sanremo e Savona, Imperia 29 maggio 2009.

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