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Oggi anno 2027.
Il giovane degli anni 90 era una contraddittoria macchina per spendere soldi.
Lui era una di quelle macchine. Una marca all’avanguardia. Di quelle che meglio funzionava.
Intelligente..? Mica tanto.
Svogliato a scuola, tecnologicamente acculturato, pessimo risparmiatore, ottimo consumista e amante di inutili e costosissimi gadgets pubblicitari.
A diciotto anni da sei mesi si illudeva di avere riscoperto una spiritualità perduta.
La politica era all’apice del disinteresse. Fare poco sport e frequentare istituzionalmente nel fine settimana- discoteche e pub era l’hobby preferito. Guardava molta televisione, andava poco al cinema o in chiesa. Non frequentava per niente il teatro.
Il primo rapporto sessuale completo è stato intorno ai sedici anni.
Chi del gruppo ne ritardava l’appuntamento agli occhi dei coetanei era certamente un poco scemo. Viveva spaesato una sessualità libera e gioiosa, istruita di codici comuni e di sapori al gusto di fragola, come il preservativo più ricercato.
Viveva in gruppo, seguendo le mode, si faceva trascinare da ciò che al momento era più in voga. Per capire il linguaggio del branco bisognava parlare come loro, codificato da sinonimi, soprannomi termini lontani mille miglia da chi non li bazzicava. Frequentavano in gruppo lo stesso luogo, angolo di strada, piazza o locale alla moda. Lui si ritrovava spesso con gli amici del gruppo nel solito bar dell’altra città dove tutti conoscevano la “storia” e reclutavano la paglia quando Bardone c’el’aveva.
Kazzo !! ….. Certo la città non era quella dove abitava. Andava a casa dei birri a circa trenta km, perché era più facile fare cose di cui poi la gente non parlasse troppo.
Nelle piccole città di provincia come la sua, gli impiccioni, le rane dalla bocca larga erano tante come le mosche sulla merda che si secca all’aria fresca. Numerose come le margherite nel prato sotto casa ai primi di maggio.
Il personale del locale di Bardone era parte del gruppo. Essenza trainante.
Condivideva le loro passioni giuste o sbagliate che fossero.
Condividere era parte del loro lavoro. Doveva farlo e basta.
Così Bardone imponeva prima di assumere qualunque nuovo sbarbatello, nell’avvicendarsi, veloce e consueto, del personale al banco.
L’accoglienza trionfale era il segreto della gestione per mantenerli uniti, per farli sentire tutti protagonisti. Erano tutti assidui frequentatori. Beati spendaccioni.
Un bel ritrovo di rito per due o tre fissi* della settimana: venerdì sera = fisso 1, (sabato pomeriggio) il dopo sbobba = fisso2 (dopo pranzo) e spesso anche il dopo cena, prima della volata allo sppakkakranio.
Bardone, il barista, aveva personalizzato i boccali da birra per ciascuno di loro: con la sua firma, immagini, frasi, addirittura foto e naturalmente con l’uso esclusivo.
Si era creato un bel da fare ma come mai poteva questo gruppo frequentare un altro locale e bere in altri bicchieri?
Quel sabato pomeriggio lo ricorda sempre con una punta di acidità che gli sale sino al palato e si spegne sulla punta della lingua con un sentore amaro insopportabile che sfocia in un’occhiata che uccide la guardia ogni volta. Quell’indimenticabile appuntamento con un birro procuratogli da un amico è un chiodo fisso che gli rimarrà per sempre piantato nel cervello un’immagine compressa e schiacciata al muro della cella.
La posta era la solita. Qualcuno tempo fà si era fatto anche la macchina ma giusto un birro poteva fare una cosa del genere. Questi poi spariva dalla circolazione, la sconfitta lo bruciava. La sua figura diventava scomoda come sempre è stata per tutti la compagnia di un perdente. Il suo bicchiere veniva frantumato dallo sfidante vincitore nel muro del pianto*, di lì poco distante. Dietro al bar.
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Quel giorno la mediazione del suo procuratore cominciò estenuate, a gesti e parole grosse con il procuratori del birro sfidante, del borazzo di turno. Altri procuratori trattavano altre scommesse. La posta variava dalle 10.000 carte (lo spillo*) alle 500.000 (un becco).
Qualcuno sé perso anche un morso (il milione).
Intanto i ferri (le macchine) del fisso2 in procinto di imminenti sfide scaldavano i motori bruciavano benzina e idrogeno, consumavano frizioni e cancellina nera con false partenze. Da sempre nella partenza giusta stava il segreto della probabile vittoria.
Le ragazzine, che si credono già donne, sputavano anelli di fumo dalle bocche contornate da rossetti dai colori variopinti e sgargianti.
Il loro sesso voglioso era disegnato su quelle labbra. Bramavano la compagnia del nuovo campione Fantomas permettendo. La favola della serata trascorsa sarebbe rimasto argomento di commenti e pettegolezzi con le amiche per le future settimane. Una di loro, lo sanno tutti, era un Fantomas del pompino e, a quello che vinceva, gliene faceva uno dentro la macchina subito dopo la sfida. Si metteva in ginocchio tra i pedali del freno e del gas, sotto il volante, cacciando il sedile tutto indietro togliendo le scarpe all’impalmato della vittoria, perché, dicevano che godeva a sentire le dita fredde dei piedi sudati dalla tensione fra le grosse tette dai capezzoli a bottoncino rosa.
I procuratori si accordarono per la cifra e la lunghezza del pezzo da fare sull’asfalto dacciaio*. Fra un’ora si sarebbe cominciato. In programma prima c’erano altre due sfide e alle tre pomeridiane si apriva ufficialmente la finestra della scommesse su chi di loro, su quale ferro, per primo, avrebbe strappato la bandana di scoch grigio da pacchi tesa sul traguardo stabilito. Si scommetteva sulla faccia, sulle espressioni. Sullo sguardo più intelligente. Sul ferro che, secondo le voci ingranava più cavalli, più potenza compressa, pronta a scoppiare al momento opportuno. I sotterfugi tattici che servivano a diffondere voci, il più delle volte infondate su elaborazioni strepitose, cominciavano a circolare tra il pubblico in palpitazione quasi che si sentivano battere quasi suonavano. Aleggiava fortemente voluta da tutti quella sensazione di mistero sopra ogni motore.
Volavano pacche sulle spalle e strette di mano che valevano per alcuni più di un contratto formale a sedere davanti ad un notaio.
Alcuni procuratori erano maestri nel comporre castelli di carta basati su strepitose fandonie atte a spaventare l’avversario che qualche volta, novizio della formula del gioco, cedeva e rinunciava alla sfida in partenza rompendo il bicchiere nel muro del pianto con le proprie mani.
Gesto questo consueto di rinuncia volontaria alla scommessa, lasciava il privilegio di non perdere il denaro ma sottolineava la codardia e confermava la perdita dell’onore, a cui più di ogni altra cosa era legato il valore della sfida. Quella tensione che circolava fra le persone era l’anima del gioco.
Le elaborazioni maggiorate erano del cugino di Bardone. Era l’arma segreta a cui tutti affidavano la sospirata vittoria. Il cugino di
Bardone “era” il meccanico per eccellenza di cui tutti si fidavano e a cui tutti promettevano soldi per la modifica unica, strepitosa. Lui, fantasioso, abbindolava i pivelli inventandosi ogni volta una nuova fantomatica segreta elaborazione, paventandosi l’alchimista del nuovo futuro motore del duemila. Un nuovo carburatore, una nuova pompa all’idrogeno, un pistone esclusivo era sempre in procinto di essere messo a punto.
Faceva accomodare nella sua fiammante officina il potenziale futuro cliente. Gentilmente gli offriva da bere e cominciava a raccontargli tante storie di vittorie, di donne e motori che nessuno è mai riuscito a numerare e catalogare come sempre la stessa, accatastandosi in un tale numero, che Bardone, per averle vissute tutte, dovrebbe dovuto gestire l’officina da almeno cent’ anni.
Ogni pivello usciva dalla bottega come se avesse visitato un tempio, con una fede nuova convinto di avere contrattato la modifica unica, quella magica di cui lui rimarrà l’esclusivo titolare.
Il cugino di Bardone era un mago che estraeva il coniglio vivo ogni volta dal cilindro nero. Era capace di vendere sogni a tutti, di illuminare il viso con lo scettro della vittoria anche al più allucinante sfigato che aveva due soldi da buttare. Si spaccia lui, come parte di un investimento momentaneo che darà frutti inimmaginabili, vittorie strepitose. Accalappiando a frotte giovani e ingenui clienti dicono che si sia costruito una piccola fortuna.
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Si aprono le interviste tecniche di chi giocherà denaro sulla corsa.
Gli scommettitori affollano il piazzale. Le macchine scaldano i motori che rombano e sputano fumo bianco, ricco di odori acri di benzine elaborate arricchite di sostanze di cui ognuno gelosamente mantiene il segreto. Il cugino di Bardone cè sempre per valutare il suo lavoro, per mantenersi il giro. Per conoscere e agguantare nuovi polli.
Affascinare la clientela con nuove teoriche strabilianti elaborazioni era il suo mestiere. Più che modificare motori, elaborava cervelli.
Nessuno sapeva il suo nome. Tutti lo chiamavano semplicemente il cugino di Bardone…. quello che ha il bar vicino al muro del pianto.
La Peugeot turbo del birro di cui non si sa nulla ispirava più consensi della sua golf GT turbo. Questo risultò da una veloce indagine del suo procuratore. Non importa, l’impianto di iniezione a idrogeno inserito gli dava un certo affidamento. Una sicurezza assoluta. Il cugino di Bardone gli aveva garantito una modifica unica, speciale, creata solo per lui e la sua golf GT bianca dai fiammanti cerchi in lega. Questa scommessa, se vittoriosa, gli serviva a colmare il buco di cassa dei due *Testoni spesi nel far montare l’elaborazione e che, il cugino di Bardone, doveva in parte ancora riscuotere. Non poteva assolutamente mancare l’appuntamento con la vittoria anche perché la bruna avvenente Fantomas lo guardava compiacente.
Gli avevano raccontato cose da favola sulla sua lingua, sulla sua volontà di non mollare mai la presa di come quei fantastici bottoncini rosa spiccassero in rilievo, dissoluti e prorompenti dalla camicetta di seta viola coperta sempre da un gilettino stile indiano che lasciava spazio a infinite fantasie.
La sua presa di bocca era probabilmente la cosa più ambita che potesse regalare la vittoria della sfida, visto che il denaro il più delle volte serviva poi per pagare il conto di un’intima cenetta a due in uno dei migliori ristoranti della zona.
Fantomas gli strizzò l’occhio più di una volta e già il Kazzo gli faceva capolino dalla cinta.
Ad un tratto la rissosa voce della guardia… .. già uccisa con lo sguardo cento volte tuona nel corridoio alto più di un palazzo di due piani.
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Strafottente la guardia consapevolmente irritante, con un fracassante ghigno, conclude la sua fine osservazione.
Ha quella domanda il ricordo si spezza di botto il passato scompare come in una nuvola di fumo scompigliata dal vento che soffia.
Al viso di Fantomas si sostituisce quella faccia di merda della guardia carceraria che risalta con la sua pelle bianca da malaticcio sotto due baffoni scuri sporchi di sugo……. questa si gira di fianco e si sposta di un passo inarcando la schiena, continuando a sogghignare soddisfatto della bella frase sfoderata.
Lui gli risponde mentalmente con un fragoroso……
<< Stronzo...>>
… sorridendogli poi a denti stretti in un sorriso visibilmente forzato.
Uno “stronzo” talmente pensato bene che devono aver percepito anche tutti gli altri carcerati. Tutti infatti ridono e cominciano a battere fragorosamente le mani in un baccano da collegio di liceali.
Contenta della battuta la guardia, inconsapevole del reale valore dell’applauso, gira i tacchi e si incammina dileguandosi verso l’uscita, battendo il randello sulle sbarre come faceva la cartolina che suonava nelle razze della bicicletta dei bambini di una volta.
Qualcuno gli grida: hei !!!! hai i baffoni con il puzzo e il colore del sugo del rancio……. lavati… animale!!!! Volta le spalle e continuando a camminare non curante della beffa, si allontana, si pulisce i baffi con un fazzoletto bianco che diventa del colore della pasta scotta al pomodoro che esce tutti i giorni a pranzo da quel cesso di mensa.
La sua sagoma curvilinea si allontana lentamente e nell’addome contrasta sui freddi muri del carcere come la cacca di un cavallo sulla bianca battigia di una spiaggia caraibica, lasciando, impalpabile, una leggera scia di olezzo fumoso nell’aria che si mescola alle puzze della pelle dei carcerati che sudano e si sbracciano in commenti e insulti.
Compiere i ventanni in galera è una merda!!!!
Kazzo!!!! un compleanno veramente di cacca……. come quelle puzzolenti e morbide color crema che si attaccano con tutti spruzzi anche fuori dalle turche quando sbilanciati dallo sforzo di reni non si centra il buco.
Il ricordo di quel giorno va e viene ondeggia come un veliero in balia alla tempesta. Quella maledetta scommessa gli ha rovinato la vita. Era meglio che il destino della corsa avesse preteso la sua di pelle invece di quello stronzo incapace di guidare!!!!!!!
Ora riaffiora il ricordo del suo primo giorno di galera lontano 9 anni
3 giorni e 7 ore.
Ricorda il crocchiare del chiavistello che gira cinque volte sibilando, nervoso ma snello, veloce, complice involontario di tante storie all’epilogo. Tre passi sono sufficienti a varcare la soglia di un destino già deciso che non lascia nulla. Quarant’anni da scontare e solo tre passi per entrare in un modo che non appartiene a nessuno ma che ha tanti inquilini in attesa di sfratto. Il grimaldello si arresta al quinto scatto con un rumore che ricorda vagamente il cigolio del pedale della frizione che spingeva dopo la corsa mentre fantomas glielo succhiava di gusto.
Allora il ricordo era più nitido.
La faccia torna poggiata su quella cancellata testimone di vite spezzate.
Storie troncate nella speranza, private di un futuro, perno su cui scorrono i cardini di una porta a sbarre che chiude per sempre con la parola fine il capitolo di squallide vite di cazzi duri poggiati al muro o stretti fra le grosse dita dello stronzo di turno che gli tira una sega.
Di quel giorno non dimentica nulla….. i pesanti passi della guardia vestita di blu scuro, la prima che avesse mai incontrato, il tintinnio delle chiavi che ciondolano nelle mani che si allontanano, rumori complici di un silenzio imminente ed infinito. Sarà compagno delle sue lunghe interminabili giornate vuote. Di manelle spaziali.
Ora dopo 9 anni 7 giorni e tre ore il V braccio accoglie un popolino allucinato di una fetta di mondo lontano dal mondo.
Freddo strumento di morte, le dite lunghe e strette, stringono con forza le barre d’acciaio delle celle. Altre corte e tozze, altre ancora curve come artigli, di sbieco, in fila fuori dalle grate, sono ben visibili dalla guardiola che chiude il lungo corridoio con affacciati venticinque uomini in attesa dell’appello. Mani di ferro, di piombo di gesso, mani di cuoio, senza cuore comunque tutte colpevoli di avere stretto un patto con la morte, con il diavolo, di aver commesso un delitto, un’efferatezza, una stupidaggine. Di avere sparso del sangue, di avere spezzato una vita.
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La sirena dell’ora d’aria suona fragorosa e in attimo, in un flash, ritorna la realtà. Il suo passato si accorge essere spettro del suo presente copia maledetta di un triste futuro. Trentanni compiuti da un mese eppure quel maledetto pomeriggio continua a non scordarlo.
Continua a produrre batteri, microbi che si insinuano ovunque e gli procurano un dolore lancinante al cervello che si consuma in continui, infiniti, dolorosi, perché. L’unico consolante ricordo è sempre rivolto a Fantomas e alla sua lingua avvolgente come quella di un camaleonte che acchiappa la mosca di scatto mentre vola guizzando di posto in posto.
Ricorda quella sua bocca stretta e grande. Ricorda che lo mollava solo quando lui, piegato su se stesso, assomigliava ad un biscotto che sgocciola fragorosamente uscendo dal caffelatte, e allungare il collo sulla tazza, è l’unico movimento per evitare che si spezzi e caschi con uno spruzzo nel latte bollente.