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Una scatola (cinese) decisamente vuota

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Una scatola (cinese) decisamente vuota

Dopo essere diventato universalmente conosciuto con la doppietta
“Smoke” e “Blue in the face”, Wayne Wang approda in concorso a
Venezia con “Chinese box” ma, lo dico subito, non lascia il segno.
La ricollocazione di Hong Kong sotto il governo cinese è un’emozione troppo forte per Wang, nativo proprio dell’ex protettorato inglese, per ignorarla. La collaborazione con lo sceneggiatore Carrière, prediletto di Bunuel, non giova certo ad un film che non affonda mai gli artigli nelle storie umane che si svolgono e nemmeno nella ricongiunzione. Se a tutto ciò si aggiunge la presenza di due pezzi da novanta come Jeremy Irons e Gong Li, posso affermare con certezza che si tratta di cartuccie sprecate per un tema così stimolante, un regista dimostratamente capace e due attori di rango.
L’inizio della storia è l’ultimo capodanno inglese a Hong Kong e la sua fine è proprio il fatidico 30 Giugno 1997. Irons è John, un reporter inglese che intreccia una torbida e tormentata relazione amorosa con l’affascinante e sfuggente Vivian (Gong Li), proprietaria di un karaoke-bar ed ex “intrattenitrice”, ora legata ad un ricco uomo d’affari che ha tutto da guadagnare con la ricongiunzione cinese. John
è tormentao da non si sa che cosa: nostalgia, delusione sentimentale, rabbia o apatia. John ha sicuramente il desiderio di scrivere qualcosa di importante su Hong Kong prima che scompaia per sempre e sembra trovare l’occasione quando conosce Jean, interpretata in modo piatto da Maggie Cheung, un’originale svitata che fa di tutto per fingere di non essere interessata all’intervista con l’affascinante cronista inglese.
Jean ha un passato triste ed un fututo sconosciuto (e chi se ne frega!), John usa la sua videocamera per girare qualcosa di buono quando non serve più e Vivian alla fin fine, tra vari tira e molla, sceglie la comoda esistenza accanto all’uomo d’affari. Poca roba.
Penso che Wang abbia avuto troppa fretta di impressionare la pellicola con gli ultimi mesi della Hong Kong inglese quando, in realtà, i cambiamenti saranno più profondi e più lenti di questo “instant-movie” un po’ melò. Irons comincia a giocare un po’ troppo con la sua espressione matura e stupita e basta vedere solamente il promo di
“Lolita” per rendersene conto. Gong Li non riesce ad uscire dal clichè della geisha moderna in tutte le salse. La storia, è imbarazzante dirlo, non regge proprio nonostante, forse a causa, degli innesti fuori luogo che fanno da insipido contorno ad una portata che non c’è.
Avete presente cosa significhi guardare l’orologio ogni quarto d’ora e chiedersi “cosa sono venuto a fare qui?”: questo è “Chinese box”.

Michele Benatti

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