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Un porto sepolto

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Un porto sepolto

Un istante prima che il dalmata – un cucciolo di dalmata, abbandonato dalla famiglia brambilla per andare ad asiago – uscisse dal ciglio e venisse illuminato dai fari, un istante prima che la macchina sterzasse tentando una deviazione impossibile per quella velocità e finisse contro un blindato militare che sopraggiungeva nell’altra direzione, giusto un istante prima, marco pensava che alla fine avrebbe continuato così, che non aveva i coglioni per lasciare quello che aveva, gli amici e i suoi vecchi, e tentare di fare qualcosa di buono. Ci voleva coraggio, troppo coraggio. Gli sfuggiva persino cosa potesse significare quel “qualcosa di buono”, quel qualcosa che sempre più spesso si scopriva a cercare; non distingueva se fosse una posizione in un campo qualsiasi, a godere i privilegi che avrebbe comportato, un comodo ufficio, un club dove rinchiudersi nei pomeriggi d’inverno, una villa dove fuggire non appena il caldo si fosse fatto insopportabile, il tutto condito dalla solita moglie, bella si intende, simpatica e bella, come in un film, puttana solo con lui. barbara non andava bene per quel qualcosa di buono, era inutile, non sapeva stare con la gente, lo aveva dimostrato anche quella sera, sempre a guardarlo, sempre attaccata, con la speranza che la portasse lontano, che a metà aveva dovuto accompagnarla e tornare senza che lei lo sapesse, come al solito. barbara era la ragazza più bella che avesse rapito, a volte si stupiva di come riuscisse a piacergli, lui così ordinario e banale, mentre lei si spogliava solo con gli occhi – ma era troppo presente, mai che l’avesse vista bere o fumare qualcosa, sempre cosciente, anche tra le lenzuola, e questo aveva cominciato a infastidirlo, come essere spiato, come essere in due, come una seconda coscienza che sorveglia te stesso. E poi c’era monica, aveva notato come lo guardava alla festa, quando si era messo a recitare ungaretti, le poesie imparate a teatro, aveva visto come lo ascoltava, e aveva continuato per mezz’ora solo per lei, quelle nude parole che si accostano insieme, senza bisogno di significati diversi, quel nulla d’inesauribile segreto. luca non sarebbe stato un problema, monica si era stancata da un pezzo, si vedeva lontano un miglio, dopo sette anni di convivenza non avevano più niente da dirsi, quei due, e continuavano a stare insieme per la rassegnata convinzione che sarebbe stato meglio così – non gli importava cosa avrebbe pensato quel ritardato, prima o poi monica sarebbe andata con lui. Aveva fumato troppo quella sera, e dire che fumare non gli piaceva nemmeno, quello senso di pesantezza che ti invade la testa e le gambe, e tutto si fa più sospeso ma non per questo più bello, doveva smettere di fumare, ma era arrivato il carlo e con lui c’era sempre del buono, roba pesante, non la schifezza comprata dagli extra. E nicola gli aveva versato il daniels per tutta la festa, con barbara a lanciargli quelle ridicole occhiate, ridicole e belle, perché era lei la più bella, anche così, soprattutto così, così bella che veniva voglia di baciare i suoi occhi. Ma adesso aveva mal di testa, come al solito, e la mattina si sarebbe svegliato rotto e ustionato, con la solita voglia di bere qualcosa di dolce e di caldo, oppure avrebbe tirato le due, con mamma a passare con le sue inutili frasi. Bisognava cercare di fare queste serate il meno possibile, non era possibile continuare così. Non aveva nemmeno voglia di sentire la musica, solo di arrivare nel suo letto e dormire, quella stupida idea di fare le feste in montagna, alla fine toccava sempre la sofferenza del ritorno, sempre a chiedersi come si facesse a guidare in quelle condizioni, con i morti del sabato che c’erano sempre, e invece si riusciva sempre a sopravvivere, e non era nemmeno troppo difficile, si vede che quei coglioni si mettevano a fare qualche cazzata, che ne sapeva, a guidare con le mani incrociate, e se ne morivano per la loro strada, invece viaggiare stonati non era difficile, bisognava solo recuperare un po’ di concentrazione, le ultime energie prima del meritato riposo, e questa volta c’era giulio soltanto, l’amico di sempre, ridotto a uno straccio, giulio sdraiato al suo fianco che gli aveva chiesto di accompagnarlo.
Un istante prima che un cucciolo abbandonato per le vacanze uscisse dal ciglio e venisse illuminato dai fari, un istante prima che la macchina sterzasse per una deviazione impossibile a quella velocità e finisse contro un blindato militare che sopraggiungeva nell’altra direzione, giusto un istante prima, marco pensava a quel qualcosa di buono che continuava a sfuggirgli. Andarsene, provare a vivere, senza ricette, solo con la propria energia, fuggire e ascoltarsi, più del solito, come veniva veniva, forse era quello quel qualcosa di buono a cui pensava da tempo, ascoltarsi e interagire, non sopravvivere come stava facendo, e quel qualcosa sarebbe arrivato, non c’era da dubitarne, e tutta la vita, la vita che gli si apriva davanti, l’unica che gli avevano dato, sarebbe risultata meno monotona. Solo che ci volevano i coglioni per fare una scelta del genere, e lui non aveva mai dimostrato di avere i coglioni, il fatto stesso che si trovasse alle quattro di mattina fumato e bevuto in quella vettura dimostrava che i coglioni per cercare quel qualcosa di buono non li aveva mai avuti, o forse era un discorso del cazzo che la mattina sarebbe stato dimenticato, e la sera successiva avrebbe avuto la stessa voglia di baciare gli occhi di barbie e di stringere il suo seno emiliano, le sue tette di carne e di latte, di baciarne il pelo bagnato, di baciarlo e baciarlo nemmeno per sfizio, ma perché non voleva mai che la si vedesse da sotto, e alla fine, pensava, era una scusa come un’altra per non prenderlo in bocca. Era un peccato che le donne che amava non avessero la sua propensione per il sesso orale, forse con monica sarebbe stato diverso, ma ora era stanco, troppo stanco, aveva bisogno solo di un letto, senza monica o le altre, che tanto non ce l’avrebbe mai fatta. Andare a letto e ricominciare, il giorno seguente, sempre inseguendo quel qualcosa di buono che si ostinava a scappare, sempre inseguendolo con la falsa speranza di poterlo raggiungere senza saltare o strapparsi, inseguendolo pensando di poter rimandare di un altro giorno perché alla fine quel qualcosa è eterno e sempre alla nostra portata se lo si vuole raggiungere.
Questo pensava, quando il cucciolo uscì sulla strada.

Raffaele Gambigliani Zoccoli

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