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Diario di Viaggio

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Diario di Viaggio

Premessa
Quello che state per leggere è una sorta di “diario di viaggio”, nel quale ho cercato di catturare con le parole (per quanto possibile) le impressioni ricavate dal mio primo viaggio in Giappone. Prima di procedere vorrei fare una precisazione importante: tutto quanto leggerete è riferito unicamente ai luoghi da me visitati (nella maggior parte dei casi Kyoto) e non al Giappone in generale. Mi sembra infatti sbagliato giudicare un Paese da una sua piccola parte (sarebbe come voler capire tutta l’Italia prendendo come esempio Firenze, o un’altra città). Nel Diario troverete descrizioni e giudizi unicamente di ciò che ho visto e toccato con mano.
Un’ultima nota, di carattere tecnico: il diario vero e proprio è scritto coi caratteri normali. Le parti evidenziate sono state aggiunte in seguito a mo’ di didascalia. Ma ora basta con le premesse: buona lettura e buon viaggio.

La Partenza

Sono tre anni, forse quattro che aspetto questo momento. Mi guardo dentro per scoprire che effetto fa quando i sogni diventano realtà.
Non sento niente di particolare: solo un vago senso di eccitazione.
Forse non mi sembra ancora vero. La strada corre sotto le ruote dell’automobile: dal finestrino i panorami che vedo da quando sono nato sembrano volermi dire: tu sei nato qui, appartieni a questi luoghi. Io invece oggi mi sento come fuori posto, quasi che la mente si sia già alzata in volo verso una lontana destinazione.
Arriviamo in stazione, trascino una valigia pesantissima alla piattaforma dove arriverà il treno per Milano. Sul treno, il solito tran-tran; il ritmo ipnotico delle rotaie, il lento scorrere della campagna fuori dal finestrino.
Stazione di Milano: è esattamente come me la ricordavo. Solenne e un po’ grigia, fiumi di persone indaffarate che si ignorano a vicenda.
Salgo sull’autobus-navetta diretto all’areoporto della Malpensa, e finalmente comincio a rendermi conto di quanto sta succedendo. Sono diretto in Giappone, a dodicimila chilometri da casa mia, dall’altra parte del pianeta. Per venti giorni mi troverò immerso in una realtà diversa. In una cultura che ha radici diverse dalla nostra. Sono tre anni che studio per diletto la lingua giapponese e ora mi sembra di non ricordare nulla. Panico dell’ultimo momento? Smetto di pensarci e lascio che le cose vadano avanti da sole.
La Malpensa mi sorprende: confrontata alla stazione ferroviaria sembra costruita ieri. Colori vivaci, cartelli indicatori chiari e utili.
L’aereo parte alle nove di sera, ho il tempo di cenare. Il ristorante
è praticamente deserto, come pure l’areoporto. Fa una strana impressione, credevo di trovare una marea di persone. Forse è l’orario.
Si avvicina l’ora dell’imbarco; lascio che la mia attenzione venga assorbita dalle procedure burocratiche: pesa la valigia, mostra il passaporto, ha qualcosa da dichiarare?
Finalmente, da una grande vetrata vedo l’aereo. E’ la prima volta che volo, e non avevo mai visto un Boeing 747 da vicino. La prima cosa che penso è che una cosa così grande e tozza non potrà mai volare. E’ un dinosauro d’acciaio, un gigantesco cetaceo, scintillante sotto le luci dell’aeroporto. Come diavolo si è riusciti a costruire una macchina simile? Assorto in contemplazione di tale Leviatano mi sento come un selvaggio di fronte ad un UFO. Sono costretto a tornare in me: è il momento dell’imbarco. Dei trecento e più passeggeri, io e Mauro siamo i soli due occidentali; tutti gli altri sono giapponesi che tornano a casa. Possibile che ci siano così pochi turisti che vanno nella terra del sol levante? Mi ripropongo di scrivere su KULT per fare qualcosa al proposito.
All’ora stabilita ci dirigiamo verso il terminal e oltre, lungo un corridoio semovente che lo collega direttamente all’aereo. Ho la curiosa sensazione di trovarmi in uno di quei film di fantascienza anni settanta. L’aereo fa parte di una delle compagnie di bandiera giapponesi, e il personale di bordo è orientale. Una hostess minuta e carina dà il benvenuto a bordo a tutti i passeggeri che le sfilano davanti. Al mio passaggio, passa alla lingua inglese. Per la prima volta mi sento proprio un gaijin.

Le due compagnie di bandiera giapponesi sono la Japan Air Lines (JAL) e la All Nippon Airways (ANA).

Dentro l’aereo (quanto è grande!) prendo il coraggio a due mani e decido di provare il mio giapponese. Mi rivolgo alla prima hostess che mi capita a tiro e le chiedo se per favore mi può indicare dove si trova il posto 30A che mi è stato assegnato. Sul suo volto si disegna per un attimo un alone di sorpresa: un gaijin che parla giapponese!
Poi si ricompone e mi mostra da che parte andare, non senza aver prima lodato la mia bravura. In verità ho detto solamente due parole, ma non ha importanza. Be’, almeno ha smesso di rivolgersi a me in inglese…
Mi siedo e mi allaccio la cintura. Ci sono vari monitor e un grande schermo, sui quali vengono mostrate con un filmato le procedure di sicurezza in caso di incidente. Pur essendo ben fatto e sicuramente utile, trovo il video abbastanza inquietante. Niente di quello che vedo o sento mi toglie dalla testa che un incidente aereo non può che avere un solo esito. Per distrarmi dò uno sguardo fuori dal finestrino. Sono quasi sull’ala, e la vedo chiaramente estendersi e incurvarsi verso il basso sotto il suo stesso peso. Un opuscolo autocelebrativo dell’ANA mi informa che l’apertura alare dell’aereo è di 60 metri. I due motori che riesco a vedere dalla mia posizione sono delle dimensioni di un camioncino. Quando il pilota li accende, fanno un sacco di rumore. L’aereo comincia a muoversi sulla pista, a passo di lumaca. Ormai fuori è buio pesto e non si vede nulla, eccetto le piccole lampadine blu che tracciano piste nell’oscurità. Continuiamo così per un tempo che mi pare lunghissimo. Dopo dieci, forse venti minuti di lento incedere, l’aereo si ferma. Il muggito dei motori si gonfia a dismisura, e l’aereo inizia a rullare per il decollo.
L’accelerazione è sorprendente. Cerco di calmarmi e di immaginare quanta potenza devono avere quei motori per far accelerare tanto rapidamente quel colosso. Non riesco a fare ne’ l’una ne’ l’altra cosa. Come se fosse la cosa più normale del mondo, dopo non più di trenta secondi di corsa, la pista e con lei il resto del mondo si allontanano rapidamente sotto di noi. I miei recettori cinestetici mi dicono che stiamo salendo, salendo. Questa sensazione durerà molto a lungo.
Le hostess passano instancabili tra le file di sedili; chiedo qualcosa da bere, e si ripete la scenetta di prima: nihongo ga joozu desu ne.
Comunque, dopo aver visto che parlo un po’ di giapponese, le hostess non si fanno più scrupoli a fare altrettanto, e ben presto mi vedo costretto a farmi ripetere le cose due volte.
L’aereo ogni tanto vibra e si scuote in maniera sorprendentemente intensa. Sembra di essere in treno. Nessuno sembra preoccuparsene, e finisco per fare altrettanto. La psiche umana ogni tanto sfoggia meccanismi utili.
Sul grande schermo appare una cartina tipo “previsioni del tempo” che mostra l’Asia. Una linea rossa segna la rotta che seguiremo. Passa sopra la Siberia. Una piccola sagoma di aereo mostra la nostra posizione attuale. Compaiono altri dati: ci troviamo a undicimila metri di altezza. Ci spostiamo con una velocità rispetto al suolo di ottocento chilometri orari e più. Fuori dall’aereo la temperatura è di settanta sottozero. L’unica cosa che posso verificare coi miei occhi sono le gocce di pioggia che bagnavano il finestrino alla partenza, trasformate ora in strani cristalli di ghiaccio. Abbasso lo schienale e mi copro le gambe con la coperta in dotazione. Prima di addormentarmi, non posso fare a meno di meravigliarmi ancora una volta per la tecnologia che mi permette di volare a undici chilometri dal suolo nel buio della notte, passando sopra paesi che finora avevo visto solo sull’atlante e tutto questo stando comodamente seduto in poltrona, con un bicchiere di succo d’arancia in mano. Provo per la prima volta una sensazione incredibile di tranquillo distacco. Non faccio più parte del mondo; la terra scorre sotto di me, lontana.
L’aereo è un microcosmo a sè stante, completamente autosufficiente per più di dodici ore. Mentre ci rifletto sopra, Orfeo mi accoglie tra le sue braccia.
Mi sveglio dopo un periodo che non riesco a quantificare. Mi viene in mente che in un certo senso stiamo viaggiando anche nel tempo, oltre che nello spazio. Tra i fusi orari dell’Italia e del Giappone ci sono otto ore di differenza. Gran parte dei passeggeri dorme ancora. Sul grande schermo viene proiettato un film per chi preferisce stare sveglio. Mi metto le cuffie e ascolto per un po’ Schwarzenegger parlare in giapponese. C’è anche il canale in inglese, ma così è molto più divertente. Fuori dal finestrino, l’oscurità della notte è forata in basso da lontane luci di una ignota cittadina sovietica, e in alto da un cielo stellato che mozza il fiato. Vorrei che il finestrino fosse più grande. Da terra il cielo notturno non potrà mai essere altrettanto bello.
Le ore scorrono lente. L’orologio biologico del corpo comincia a non capirci più niente. Il giorno e la notte si stanno scambiando di posto più in fretta del dovuto. Le hostess continuano imperterrite a volteggiare tra passeggeri sonnacchiosi. Sorridono di continuo. Una vede che sono sveglio e mi porge qualcosa da bere. Mauro dorme, e la hostess gli lascia un biglietto stampato con su scritto l’equivalente giapponese di “non volevamo svegliarLa, se al Suo risveglio avesse bisogno di qualcosa, chieda pure”.
Ormai ho perso completamente la cognizione del tempo. La cartina con la rotta disegnata mostra che siamo ormai vicini alla meta. Viene servita la colazione. Dopo poco iniziamo le procedure di atterraggio.
Il monitor mi informa che stiamo per atterrare all’aeroporto di Osaka, e che sono le 18:00 ora locale. Fuori è di nuovo buio. Mi rendo conto che durante il “giorno” ho dormito. Sul monitor compare una ripresa in tempo reale delle luci della pista; sul muso dell’aereo ci deve essere una telecamera apposita. Sono già parecchi minuti che scendiamo di quota. Improvvisamente dal finestrino un caleidoscopio di luci sorprendentemente vicine: è il volto notturno di Osaka che mi dà il benvenuto. Qualche scossone e l’aereo tocca la pista iniziando a frenare. Arrivati al terminal, l’aereo spegne i possenti motori per la prima volta dopo dodici ore e mezza. Stiracchiando le membra intorpidite, mi alzo in piedi e recupero il bagaglio a mano, poi mi avvio verso l’uscita. Una hostess saluta e ringrazia tutti quelli che escono. Non riesco a ignorarla come fanno gli altri e la saluto a mia volta. Mentre percorro scale mobili e corridoi enormi per andare a recuperare la mia valigia, rimango stupito: l’enorme aeroporto è praticamente deserto. Ero convinto di trovare una marea di persone.
Non è così che ci si immagina il Giappone di solito? E subito la realtà dei fatti mi scuote dandomi un piacevole brivido: sono in
Giappone.

(1) – Continua

Massimo Borri

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