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Bologna

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Bologna

E la luna scivola velocemente via dal parabrezza della volvo, sostituita dai lampioni di via Stalingrado, poi dall’insegna dell’Hotel Imperial. La notte è fredda, il cielo nero come un manto funebre, poche le stelle che si scorgono tra la foschia e le nubi cariche di pioggia o neve; la strada è sgombra.
Paradossalmente, è come se via d’Azeglio si stesse allontanando da lui: scompaiono pian piano i ricordi delle ombre sui muri del centro, scompaiono i chiaroscuri delle finestre socchiuse, le macchine parcheggiate sui marciapiedi, i pochi passanti vestiti pesantemente.
Scompare l’odore di fritto del take-away greco; scompare l’immagine dei ragazzi che cantano dentro l’irish pub. svanisce il volto di lei.

Una volante è ferma al distributore dell’Agip, con i fari accesi, e il lampeggiante in funzione; tre agenti sono alle prese con due prostitute di colore, praticamente nude, nonostante la temperatura di poco sopra lo zero. Un uomo, con un soprabito chiaro, dai capelli corti urla qualcosa.
Ma la radio copre tutto.

E’ come vedere un film, in fondo, girare per Bologna di notte, fuori dal centro. Colonna sonora triste, riscaldamento a metà, una sigaretta che muore lentamente dentro al portacenere pieno. Le case sfrecciano ai lati, inquadratura in prima persona, troppi ricordi.
Semaforo lampeggiante, tangenziale, altre strade vuote.
Ritorna pian piano il sapore delle omelettes francesi, il gusto pieno della Murphy rinchiusa in una bottiglia alta due dita, il fumo stantio del locale.

Cerco qualcosa che non ho, dice tra sè e sè il guidatore nella notte.
Cerco qualcuno che non posso trovare.

Il bicchiere enorme viene riempito lentamente di vino rosso. Qualche goccia esce, allargandosi sulla tovaglia da due soldi, coperta già a metà serata di briciole, piatti vuoti, e pacchetti di sigarette aperti. Un film viene proiettato su un pannello, senz’audio: lei bacia lui, lui guarda fuori dalla finestra, con uno sguardo intenso, che fa venire i brividi.
Tra le mille voci che modellano quella sera il locale, una è più calda delle altre. Una domanda sussurrata ad un orecchio, con lo sguardo, timido, perso nel vuoto. Un sorriso, ma nessuna risposta. Per un attimo sembra che il tempo si sia fermato e che una patina grigio nebbia si sia posata su tutto e tutti, a parte un ragazzo con un bicchiere vuoto stretto forte in mano, e due occhi scuri, limpidi ed infiniti. Poi il ragazzo distoglie il suo sguardo da quegli occhi, e la baraonda ricomincia. La lenta litania di voci ricomincia il suo coro involontario, i bicchieri vengono riempiti di nuovo, e il film ricomincia a fornire un buono spunto per quattro parole senza più anima.

La macchina rallenta. Una nigeriana fa bella mostra di sè ad una fermata dell’autobus. La camicia chiara scintilla nella notte più dei suoi bracciali; lei si avvicina con passo incerto al finestrino, e si china per guardare dentro.
Il suo sguardo è duro, freddo, ma il viso è liscio, in qualche modo scultoreo, e lei abbassandosi mostra l’abbondanza del suo seno, e il bianco dei suoi denti perfetti.
L’auto riparte piano, senza abbassare il finestrino, e dopo di questa, un’altra compie questo rituale di vetrina.
L’autista cerca un’ultima sigaretta nel pacchetto ormai vuoto. Cambia cassetta. Dai Crawberries agli U2, mentre lo sguardo vaga tra il presente e il recente passato, proiettando sui vialoni ben illuminati, le strette strade del centro, e le pareti colorate di un locale.
Domani non starò così male, si dice. I ricordi muoiono all’alba, e la mia notte, stasera, sta per finire. Si concentra sulla guida, e intanto ai lati, case, palazzi, caserme e bar lanciano segnali luminosi di diversa intensità.
Coglie con la coda dell’occhio un barbone che fruga nei rifiuti. Un sorriso per te, compagno di qualche secondo. Vede quattro ragazzi che stanno per salire in macchina, visibilmente ubriachi. Un sorriso anche per loro.
Una preghiera piccola piccola.
Poi di nuovo, la strada.

La notte, in fondo, è una casa accogliente.

Marco Giorgini

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