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La Mantide Religiosa

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Extatosoma Tiaratum.

La Mantide Religiosa.

La mantide religiosa, MANTIS RELIGIOSA, piccolo killer con licenza d’uccidere. Il più chiacchierato fra gli insetti. Prega e uccide. La sua notorietà si deve a questo. Cosa c’è di più perverso e contraddittorio? Eretta sulle zampe posteriori, immobile, nella posizione di chi ha le mani giunte, è solo un piccolo insetto di quattro, cinque centimetri. Bello, si direbbe, per una certa somiglianza con l’uomo (come quello stilizzato che si disegna nelle prime classi delle elementari), se non fosse per una serie di dicerie che la mantide religiosa si porta dietro da più di due millenni.
Dunque bella no. Ma crudele, assassina, terribile, una vera maledizione della natura. E il fatto che sia “religiosa” non fa che amplificare il senso delle sue “azioni malvagie”. Per questa stessa ragione ogni tanto passa alla cronaca, e si prende ad esempio continuamente per i più nefasti fatti di cronaca nera. Quale epiteto migliore per descrivere una donna condannata per aver ucciso il fidanzato, l’amante, il marito ? Più che assassina: mantide. Dunque cominciamo da qui: dal perchè questo straordinario animale uccide il partner. Qualche tempo fa si impose una teoria: bisogna partire dalle fasi dell’accoppiamento. La mantide è stretta a un ramo, si guarda intorno con una capacità unica negli insetti, torce il collo a trecentosessanta gradi. Un maschio l’adocchia, le sue dimensioni sono molto più piccole se confrontate con quelle della femmina, circa un terzo. Dunque deve stare attento, muoversi con mille cautele per non finire fra le sue micidiali tenaglie. Centimetro per centimetro, accorto, guadagna terreno, non deve farsi scorgere nemmeno per un attimo, se no sarebbe la fine. Quando è abbastanza vicino, con un balzo improvviso le monta sul dorso, le morse anteriori si stringono al dorso della femmina, le zampe posteriori si avvinghiano all’addome.
Se in questo gioco d’amore e di morte, il “cavaliere” sarà stato abbastanza prudente e paziente forse la sua azione fecondatrice potrà arrivare a compimento, altrimenti per lui sarà la fine. E siamo solo all’inizio, in questa lotta d’amore giocano forze impari, l’astuzia e il calcolo contro la forza, il tempo gioca a favore della femmina. l’accoppiamento dura alcune ore, un tempo lunghissimo in cui non si deve perdere la concentrazione, pena la morte. Che, se tutto va bene,
è solo rimandata di poco. Perchè dopo qualche tempo dall’inizio dell’accoppiamento la mantide torce il collo e inizia a staccare la testa del compagno. Una gran parte del torace finisce presto fra le mascelle della femmina. La scena è impressionante. Ma ciò che colpisce maggiormente è che il maschio continui il suo amplesso amoroso. Di più, privato com’è della testa e di parte del busto diviene un amatore più vivo, un automa sessuale di straordinaria efficacia. Per chi ha visto il film “L’impero dei sensi” di NAGISA OSHIMA, il riferimento diventa facile. Nel finale, durante l’ultimo amplesso amoroso, la donna strangola l’uomo perchè le sue contrazioni si facciano più ritmate, perchè il piacere duri ancora qualche minuto. Un ultimo pegno di dedizione totale. La vita si piega all’amore. Ecco, nel caso della mantide è il contrario. La natura e la scienza spazzano via queste deprecabili “umanizzazioni”. Il piacere sadico non c’entra, non c’entra la crudeltà. Le ragioni vere dell’operazione stanno in una particolare architettura nervosa della mantide. I gangli nervosi, infatti, si estendono lungo tutto il corpo, tanto che non si può localizzare il cervello in un punto ben preciso. La saggia femmina lo sa (è una sapienza genetica). E sa anche che il ganglio cerebrale fa da inibitore alla emissione di sperma. Dunque via la testa. Per la sopravvivenza della specie. Non c’è che dire, la realtà scientifica supera le fantasie umane. E non è finita qui. Le spiegazioni appena date, forse non sono del tutto vere. Negli ultimi anni infatti, due ricercatori, Liiske e Davis, hanno formulato una nuova teoria.
Osservando degli accoppiamenti in condizioni diverse di alimentazione della femmina, hanno ipotizzato che solo qualche volta le mantidi mangino i loro maschi (e non sempre, come ho detto prima) e non solo per migliorare la qualità dell’accoppiamento. La ragione sarebbe un appetito diverso da quello sessuale, un appetito genuino proprio di
“fame”. Dante direbbe: “Più che la fame potè il digiuno”. Come controprova è stato dimostrato che i maschi si accoppiano più di una volta e perciò non è obbligatorio che vengano sempre divorati. Ancora una volta le dicerie sono da buttare via, ma c’è da giurare che dietro alla mantide si nasconderanno ancora per molti anni credenze e perversioni, del resto è sempre stato così. Ci sarà pure una ragione che spieghi il perchè di tante chiacchiere, al di là della storia dell’accoppiamento. Chiacchiere iniziate nell’antica Grecia, per i
Romani la mantide dava il malocchio, mentre Thomas Mouffet, naturalista rinascimentale, affermava che la mantide è divina e mostra con le sue zampe la strada giusta al viandante sperduto. In linguadoca ancora oggi è un animale sacro, per i Bantu è un dio ancestrale. Tutto per via della sua straordinarietà. Pensiamo al colore per esempio, è nel momento in cui le larve passano da muta a muta e si ha la metamorfosi che si colorano i tegumenti. I toni dell’abito si conformano a quelli dominanti dell’ambiente: è come se la mantide applicasse al suo corpo una fotografia di ciò che ha intorno. Indietro non potrà tornare più, per sempre dovrà rimanere fra le piante a cui ha scelto di assomigliare. Pensiamo alla sua arte di guerra. Fa un certo effetto notare quanto tempo dedica alla cura delle sue armi. Ma la mantide ha saputo andare oltre. L’avete mai vista con una preda?
Con fierezza si erge sul torace, piega da un lato le tenaglie, innalza alla base delle zampe due figure dalla forma di occhi che tiene generalmente nascosti. Le ali sono allargate come bandiere da guerra.
E vibrano, vibrano con un rumore assordante impaurendo la preda che si lascia uccidere senza opporre alcuna resistenza, pietrificata, ipnotizzata da quella che i naturalisti chiamano “attitudine spettrale”.

Giorgio Malferrari

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