“Un giorno, viaggiando in metropolitana, ho visto un pannello nero vuoto dove doveva andare un messaggio pubblicitario. Ho capito subito che quello era lo spazio più appropriato per disegnare. Sono risalito in strada fino ad una cartoleria ed ho comprato una confezione di gessetti bianchi, sono tornato in metropolitana ed ho fatto un disegno su quel pannello. Era perfetto, soffice carta nera, col gesso ci si disegna con molta facilità… L’altro aspetto importante era che l’intera cosa diventava una performance. […] A forza di vedere dovunque quei pannelli neri in metropolitana alla fine ho capito che cosa avevo scoperto. Improvvisamente ogni cosa acquistava senso… Ho cominciato a capire il potere ed il potenziale di ciò che stavo realizzando. Insomma, ho preso a passare sempre più tempo in metropolitana. Ormai non si trattava più di andare a lavorare e scendere dal treno ogni volta che vedevo un pannello. Avevo proprio fissato un itinerario secondo il quale andavo di stazione in stazione precisamente allo scopo di fare quei disegni…”.
Nasce cosi il linguaggio di immagini e lo stile gitano di Keith Hring, tra l’insurrezione dell’ideologia della strada ed il fermento creativo che dal 1976 fin oltre gli Anni Ottanta sconvolgono arte, musica, cinema e poesia: musicisti punk e break dance si appropriano dei suoni metropolitani e, con la loro opera di protesta politico-sociale, si intrecciano con i colori artificiali e metallici delle bombolette spray dei graffitisti metropolitani. Si esaltano i ritmi acidi accompagnati da testi violenti ed offensivi; è l’epoca, per intenderci, dei Sex Pistols, dei Clash, dei Talking Heads e di tanti altri che hanno accompagnato con i loro sounds adrenalinici i passi dei graffitisti da strada o dei più audaci cultori della Pop Art.
E proprio da quest’ultima corrente Haring riceve un impulso decisivo che, come per Andy Warhol, amico e maestro, lo porta a ritrovare nell’aggressività della pubblicità, nell’ottica della televisione e dei film, nello strapotere delle immagini, il proprio ambiente di lavoro, nonchè fonte di ispirazione. Diversamente dalla Pop Art, tuttavia, non affronta con la propria arte temi della comunicazione commerciale considerando piuttosto questo campo come stimolo alla creatività.
Buona parte delle sue opere vengono create in loco, sui muri dei vicoli ciechi di New York, sui manifesti, nel cuore della vita cittadina, in mezzo al suo frastuono, e tutto questo non fa che esaltare il mito di Haring che, pur essendo di carattere un solitario, riesce a sviluppare un linguaggio visivo fatto di immagini semplici, quasi infantili, ma espressivo e comprensibile non solo dal singolo individuo ma anche da vasti strati di popolazione.
A simboli intuitivamente riconducibili ad oggetti ed eventi della vita reale e virtuale Haring affianca segni elaborati che inducono l’osservatore ad un processo di identificazione con l’immagine: la televisione, il computer, il cane, l’essere umano, la morte, la gioia, la paura, il sesso, la fede, sono solo alcuni dei vocaboli che Haring utilizza nel suo universo linguistico pulsante in cui un uomo, adulto o bambino, lotta per la sopravvivenza.
Tra questi simboli, alla fine, compare anche il trademark di Haring:
The Radiant Child che il poeta Renè Ricard definisce “il bambino raggiante”.
Dal 1978 si può dire che cominci per Haring la vera e propria fase creativa, dapprima orientata verso videotapes autoanalitici in cui
Haring cerca di definire la propria identità personale e politica, riguardo i rapporti con gli altri e la propria omosessualità.
Successivamente passa ad un altro uso della telecamera più orientato verso il suo modo di esprimersi con l’arte: nascono video che riprendono il suo dipingere senza fine intere stanze che vengono così ricoperte di segni astratti a metà tra espressionismo astratto e cartoons. Seguono diverse performances televisive in cui Haring si cimenta in svariate tecniche espressive nate dal confronto tra se stesso, il proprio ossessivo simbolismo e le opere di altri autori contemporanei.
Dopo due anni di sperimentazione televisiva Haring riprende a disegnare dando vita ai primi “flying saucers zapping the dog”, un’immagine che deriva da un film dell’orrore, oppure ai delfini irradiati dalla nave spaziale o alle scene erotiche tra figure maschili o tra animali ed esseri umani. Questi primi lavori vengono esposti al PS 122 e ricevono l’attenzione di Soho News, lanciando
Haring nel firmamento delle gallerie e dei collezionisti. Queste scene, che nell’arco di pochi mesi si arricchiscono di altri motivi, quali la croce, il pericolo nucleare, il cuore, eccetera, vengono realizzate spesso in occasioni di manifestazioni politiche come The
Gay Parade, su palizzate e muri dell’East Village ed in fine, nel gennaio-febbraio 1981, sui pannelli in carta nera nella metropolitana newyorkese.
Nel novembre dello stesso anno Haring allarga il suo repertorio tecnico producendo su superfici metalliche una serie di “facce ridenti” tracciate in nero su fondi monocromi che a volte possiedono un terzo occhio, quello della meditazione.
Contemporaneamente si cimenta in rilievi, sempre in metallo, i cui contorni definiscono il bambino e sulla cui superficie dipinta di nero compaiono figure di uomini che si abbracciano, si incoronano e compiono altri gesti.
Nell’ottobre del 1982 tiene una personale nella galleria di Tony
Shafrazi per la quale realizza grandi dipinti su tele e vinili tarpaulins “squarciando” la monotonia delle sale con un’esplosione di colori fosforescenti e di forme entrambi aggressive e luminose.
A partire dal 1983-84 compaiono millepiedi, robots, cani con il corpo a monitor e la coda a telecamera, a testimoniare l’avversione di
Haring verso la tecnologia e la scienza nucleare viste come oppressori dell’umanità. Il caos come energia liberatoria, violenti contrasti cromatici e nuovi simboli iconografici si trasferiscono non solo dalla carta al vinile, ma anche su vasi di terracotta, totem di metallo o legno, fin su riproduzioni in gesso del David di Michelangelo interamente ricoperte da Haring insieme a LA II, un famoso graffitista, di arabeschi e colori sgargianti.
Nel 1985 produce una serie di sculture in ferro raffiguranti il cane, il bambino, gli uomini, dipinte nei colori elementari (rosso, verde, giallo e blu) in cui i personaggi si abbracciano, si intrecciano, fanno la boxe eccetera.
Il 1985 segna anche l’anno dell’ “emersione” dalla subway newyorkese e l’approccio ad una pittura destinata al pubblico e che quindi tratti soggetti politici e religiosi. Comincia la propria campagna contro la droga e verso la prevenzione dall’Aids.
Dipinge nel 1986 un grande muro sull’East Harlem Drive e la 128ma
Strada denunciando l’uso del Crack e nello stesso anno ricopre di figure che si tengono per mano una porzione del Muro di Berlino.
Nel 1987 a Parigi dipinge un murale per l’Hopital Necker e nel 1989 a
Chicago ne esegue un altro per una scuola di bambini, mentre a Pisa redige un murale sul retro della Chiesa di San Antonio.
Ampi murales si alternano ad enormi tele con cui Haring si esprime inserendo nuove forme, nuove parole al proprio vocabolario.
Contro il silenzio e l’ ignoranza esprime la propria rabbia impegnandosi nella lotta contro l’Aids e l’apartheid sudafricano e, sempre negli stessi anni, propaganda l’uso del preservativo e rivendica la libertà dell’essere omosessuale con una ampia produzione di posters e disegni.
Il mito di Keith Haring cresce col moltiplicarsi delle sue opere, ed ancora di più dopo la sua morte il 16 febbraio 1990, in cui al mondo non resta che rispecchiarsi nella terroristica dimensione della vita ripresa con semplicità ed efficacia dalle opere di uno degli artisti più originali e creativi del nostro secolo.
Il Bambino Raggiante,
Keith Haring
Alberto Gaetti