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Mulholland Drive – David Lynch

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Dopo l’elegia di ‘Una storia vera‘, Lynch torna ai suoi colori cupi, alle sue abituali morbosità. Come in altri suoi film, anche in Mulholland Drive non tutto ciò che è oscuro viene chiarito, non tutto torna, molti personaggi scompaiono senza aver svolto una funzione apparentemente significativa. Lynch agisce sullo spettatore con gli strumenti di un musicista: non spiega, suggestiona. La sua classe sta in ciò: costruire trame razionalmente non ricomponibili ma dall’impianto rigorosissimo, come ‘partiture’ in cui le sequenze sono giustapposte con cura in ragione del loro potere di suggerire emozioni, creare sottili e misteriose risonanze.

Mulholland Drive: una lunga strada che porta a Hollywood, un corridoio che immette nel buio. Lì, in un incidente, una ragazza bruna perde la memoria. Se ne prende cura una biondina solare e sprizzante vitalità, giunta a Hollywood per un provino. La bionda e la bruna: riconosciamo subito questa contrapposizione cromatica, tipica delle figure femminili di Lynch (pensiamo a Velluto Blu, Strade perdute). Per oltre metà, il film si lascia seguire. La bruna è puro inconscio; sua unica reminiscenza, un nome di donna che, rintracciata sull’elenco, viene trovata morta in un villino. La tensione cresce, lentamente. Poi di colpo accelera. La sfumatura omosessuale latente si svela, inattesa; il film approda al suo cuore oscuro. In una sequenza magistrale, nel cuore della notte un illusionista ci ammalia in un grande teatro semideserto con una musica misteriosa, mentre la tensione giunge al parossismo. La realtà sfuma e l’illusione si fa realtà. L’ultima parte del film è la storia di quella donna che avevamo scoperto morta. Era la precedente amante della bruna, entrambe erano attrici. Abbandonata dalla bruna, ne seguiamo l’autodistruzione, in un flashback che non è un flashback: l’impressione è che la biondina sia giunta a identificarsi con lei. Dopo la forte tensione, il tono dell’ultima parte è spesso liberatorio, malignamente ironico.
Mulholland Drive è la storia di un’iniziazione. La chiave del film è in quel cubo azzurro che la biondina scopre, con le mani tremanti, nella propria borsetta, durante lo spettacolo musicale notturno: all’acme del film, che giunge quando il fascino oscuro della bruna smemorata ha avvinto la biondina fino all’esplicito rapporto saffico. Quella scatola blu si può aprire con una chiave che fin dall’inizio abbiamo scoperto nella borsetta della bruna. La metafora è trasparente. Quella scatola è, da sempre, nella borsa della bionda, anche se viene scoperta solo ora: da essa usciranno, grazie alla chiave fornita dalla bruna, come da un vaso di pandora, tutti i segreti che si celavano nascosti sotto la solarità di una ragazza ingenua.
Nonostante il film proceda a lungo ‘alla luce del sole’, molte sono, nella prima parte, le avvisaglie sinistre del male che nella seconda celebrerà i suoi fasti. L’esperienza della protagonista è la stessa dello spettatore: scoprire il fascino che queste pulsioni maligne esercitano su di noi, già ben visibili, per quanto nascoste sotto una patina scintillante. C’è in tutto questo una sorta di peccato originale, alle cui conseguenze la protagonista non viene sottratta: è come se la biondina subisse gli effetti di questa ‘iniziazione alla rovescia’, vivendo una sorta di mutazione, un cambio d’identità tramite il quale si trova prigioniera del mondo cui ambiva. Con magistrale padronanza stilistica, in questa parabola anti-hollywoodiana Lynch si diverte a sconvolgere i confini tra colpa e innocenza.

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