Napoli, Roma, Firenze, Venezia, Bologna, Genova? O forse è Torino la città più cantata d’Italia? Ed è proprio questo il punto di vista che adotterò principalmente: guardare Torino in musica da molte città, regioni e nazioni diverse, ma anche dall’interno, dai torinesi o dai piemontesi stessi. Poco per volta, dacché c’è proprio tanto da dire. Da un paio di anni ho iniziato le mie ricerche e ho già raccolto centinaia di canzoni e di brani musicali dedicati o variamente titolati e ambientati a Torino, in numero cospicuo anche dall’estero, perfino da luoghi remoti come il Mozambico, l’Australia, il Brasile e molto altro.
Questo è il quarto articolo.
TORINO OPERAIA prima parte
Nell’articolo precedente ho cercato di menzionare una manciata di canzoni sulle molte Fiat che hanno motorizzato il nostro Bel Paese, dalla Balilla ai nostri giorni. Solo la punta dell’iceberg, direi sdrammatizzante, di ben altre storie di fatica e sacrificio per ogni auto prodotta a Torino: quelle degli emigranti, del duro lavoro in fabbrica o nei cantieri, della dura vita e delle dure lotte della classe operaia, a un certo punto anche del terrorismo; e poi ancora di inquinamento, di quartieri ghetto… Sono tutte uguali quelle case dormitorio / La città per lui è un racconto di papà… Il ragazzo nato al ghetto è già un mostro a quell’età… La sua vita è in mezzo al cemento / La sua vita è solo nel ghetto / Daranno della droga per poterlo controllar / Lo faranno rimbambire / gli diranno di morir / troppo povero per vivere / Troppo onesto per rubar… Dentro al ghetto non si vive / Solo morte ci sarà… (Statuto – Ghetto). L’impressione generale che si ricava dalle canzoni sulle automobili Fiat è quella di un repertorio per lo più leggero, spesso comico, demenziale, canzonatorio o scanzonato, popolaresco, a volte affettuoso, a volte anche di dubbio, dubbissimo gusto, ma in qualche modo sempre ironico e tutto sommato ilare. Sì, decisamente sdrammatizzante. Se così è, e così è, risulta evidente che questo è l’inevitabile prezzo che deve pagare ogni auto di successo di massa e – in termini invece più drammatici e rabbiosi – anche un’industria di titaniche proporzioni che ha così tanto condizionato, per un verso o per l’altro, le sorti di centinaia di migliaia, per non dire qualche o molti milioni, di persone.
Si scherza molto sull’auto popolare. Come dicevo, non c’è stato quasi modello Fiat che non sia stato cantato o messo in musica; per fare altri nomi e altri titoli, che non ho compreso nel capitolo precedente: La Balilla nelle sue molte versioni e varianti dialettali da Milano alla Sicilia, anche piemontese, come quella di Giuanin d’Porta Pila (pseudonimo di un primo Gipo Farassino), La 500 blu di Carmelo Zappulla, La 128 (mazurka) di Castellina Pasi, Hai comprato la Fiat Panda dei Tofàno Broders, La Punto GT di Nicola Cancedda, La Fiat tira un casino di Guido Foddis, La Y10 bordeaux di Daniele Silvestri (oggi la Y10 è costruita a Mirafiori, un tempo Autobianchi, marchio milanese assorbito da FIAT S.p.A. nel 1968). E cantata è stata anche qualche Lancia, l’altra grande fabbrica torinese nata nel 1906, ma chiusa nel 1986 per formare insieme ad Alfa Romeo la nuova entità Alfa-Lancia Industriale, che in seguito scomparve a sua volta per venire assorbita dall'allora Gruppo Fiat. Però la Lancia, meno raggiungibile, è stata, più che cantata, citata, quasi sempre a fare da controcanto élitario a una Fiat, più facilmente accessibile alla media, quindi più umanamente legata alle vicende di un’Italia “normale”, popolare appunto: la lussuosa Aprilia nei versi di Paolo Conte è ciò che potrebbe sembrare, con un po’ di fantasia in corsa, la Topolino amaranto; la Thema ne Le Trombe di Falloppio è ciò che il rappresentante (bello ed elegante) non ha scelto in favore invece di una Duna… “Ho scelto un'auto più modesta perchè ho testa"; o la Delta di Ivan Della Mea (Sebastiano, nota anche come Viva la Fiat), dedicata alle 61 tute blu licenziate dalla Fiat nel 1979, auto che diviene simbolo di uno Stato il quale, benché nato dalla Resistenza, sembra – con le sue lussuose auto blu – allontanarsi da valori di giustizia e uguaglianza sociale.
Il 31 luglio 1979 Umberto Agnelli si dimise da co-amministratore delegato della Fiat. Amministratore delegato unico restò Cesare Romiti, leader della linea dura antisindacale culminata il 9 ottobre dello stesso anno, quando vennero licenziati 61 operai Fiat accusati di violenze in fabbrica e sospettati di terrorismo; un’accusa però dimostrata da appena quattro condanne. Chissà se pensavano a qualcosa di analogo gli Operaja Criminale quando si sono dati questo nome (per altro una loro canzone si intitola proprio “Torino” da “Roma, guanti e argento”).
Sebastiano l'operaio
il terrone da catena
licenziato stamattina
e stasera alla fontana…
…Col sorriso doppiopetto
il fumeè-democrazia
la mattina ci licenzia
e poi svelto corre via.
Lo ritrovi in Quirinale
"Anche questa è una scelta",
per mostrare al presidente
la sua nuova Lancia Delta.
Una Lancia per lo Stato
nato dalla Resistenza
o per la Costituzione,
certo contro la violenza
di sessanta Sebastiano,
il terrone terrorista,
perché oggi chi picchetta
quanto meno è brigatista…
L’industrializzazione del cosiddetto triangolo industriale nel Nord Ovest (Torino, Milano, Genova) cambierà non poco le sorti di un’Italia che stava massivamente emigrando all’estero. Il fenomeno dell’emigrazione italiana, tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, noto anche come la diaspora italiana, interessò dapprima il Settentrione (1876 – 1900), in particolare il Piemonte, il Veneto e il Friuli, e solo in seguito anche il Mezzogiorno. Destinazione: Stati Uniti e Canada, Brasile, Argentina, Uruguay, Venezuela… Insomma, le Americhe. Anzi, la Merica. Dai porti del Mediterraneo partirono per Ellis Island anche i miei nonni, lui nel 1910 sul transatlantico a vapore Madonna, lei sul San Guglielmo nel 1916. Si conobbero e si sposarono a Philadelphia. La data d'inizio dell'emigrazione italiana nelle Americhe (un altro dei tanti “primati” torinesi o piemontesi) può essere simbolicamente considerata il 4 ottobre 1852, giorno della fondazione a Genova della Compagnia Transatlantica per la navigazione a vapore con le Americhe, il cui principale azionista fu Vittorio Emanuele II. La compagnia commissionò ai cantieri navali di Blackwall a Londra i grandi piroscafi gemelli Genova, varato il 12 aprile 1856, e Torino, varato il successivo 21 maggio. L’emigrazione non va letta solo negativamente (povertà estrema nelle campagne e basta), ma anche per la crescente pressione demografica, indotta dalle migliorate condizioni sanitarie, igieniche e alimentari che diminuirono la mortalità infantile. Negli anni 1876-1900 espatriarono mediamente 210.000 individui. Nel periodo dal 1900 al 1913 affrontarono il lungo e rischioso viaggio oltre 600.000 persone. L’emigrazione verso le americhe si esaurì negli anni sessanta del Novecento, grazie al miracolo economico italiano. Quella verso altri paesi europei iniziò invece verso gli anni ’50.
Di canti che ricordino l’emigrazione del Piemonte verso le Americhe ve ne sono molti, alcuni assai famosi anche all’estero, come “Merica Merica”: Dalla Italia noi siamo partiti / Siamo partiti col nostro onore / Trentasei giorni di macchina e vapore, / e nella Merica noi siamo arriva'… E la Merica l'è lunga e l'è larga, / l'è circondata dai monti e dai piani, / e con la industria dei nostri italiani /
abbiam formato paesi e città. Inno ufficiale della Colonizzazione Italiana nel Rio Grande do Sul, questa canzone datata 1875, attribuita all’emigrato italiano in Brasile Angelo Giusti, è considerata canto degli emigranti veneti ed è stata di recente anche reinterpretata da Donella Del Monaco (Opus Avantra). Eppure fu questo un canto significativo anche per i piemontesi, che emigrarono a decine di migliaia soprattutto in Argentina, come testimonia la reinterpretazione di Alberto Cesa e Cantovivo… O cari fratelli ora state a sentire / ché molti braccianti l’Italia abbandona / Lasciando la terra e l’aria si vola / Andare in America a lavorar / Ben là si guadagna 6 lire al giorno / Vestiti leggeri ma ben casermati / Soggetti ai padroni come i soldati / Sebben si fatica / ci tocca di andar… Un’altra popolarissima ballata di quel tempo fu “Mamma mia dammi cento lire” (di Gigliola Cinquetti e del Quartetto Cetra le interpretazioni e incisioni più vendute e note, fino a Max Pezzali e Arisa). Questo canto ebbe la sua matrice nella "Maledizione della madre", databile 1850, ed era la storia di una giovane che, per amore, abbandona, la casa materna per poi fare una misera fine. Ed è una canzone di origine piemontese, nota come A Turin a la reusa bianca (le versioni discografiche più facilmente reperibili quelle di Mario Piovano e di Gipo Farassino). Consiglio la versione della Chorale Traditionelle Niçoise Corou de Berre diretto da Michel Bianco (A Turin, dal disco “Peluenia”). E così ricordiamo anche che Nizza fu piemontese e sarebbe stata italiana (e così per chi vi nacque, come Giuseppe Garibaldi nel 1807, e per chi vi morì un tempo come Niccolò Paganini nel 1840, il culmine di quella che fu la grande scuola violinistica piemontese nota in tutta Europa grazie a Felice Giardini, Gaetano Pugnani, Giovanni Battista Somis, Giovanni Battista Viotti e molti altri grandi violinisti e compositori, oggi meno noti, di cui Francesco Regli parla nella sua “Storia del violino in Piemonte”). Nel 1860 Nizza fu annessa alla Francia in seguito agli Accordi di Plombières (1858) e al Trattato di Torino (1860), come compenso territoriale, assieme alla Savoia, per l'aiuto dato dalla Francia al Risorgimento Italiano. Se vogliamo, fu quasi una beffa per Garibaldi… Successivamente al testo originale ne furono quindi adattati altri di arruolamento e di emigrazione. La versione più conosciuta (Mamma mia dammi cento lire) si ispirò infine al tragico naufragio del piroscafo italiano Sirio, avvenuto il 4 agosto del 1906 contro le scogliere spagnole di Capo Palos. Memori dell’origine piemontese di questa ballata, la versione del Quartetto Cetra esordiva così: Questo canto popolare racconta la storia di una ragazza che viveva alla Rosa Bianca; mentre sua madre la pettinava, lei cantava…).
abbiam formato paesi e città. Inno ufficiale della Colonizzazione Italiana nel Rio Grande do Sul, questa canzone datata 1875, attribuita all’emigrato italiano in Brasile Angelo Giusti, è considerata canto degli emigranti veneti ed è stata di recente anche reinterpretata da Donella Del Monaco (Opus Avantra). Eppure fu questo un canto significativo anche per i piemontesi, che emigrarono a decine di migliaia soprattutto in Argentina, come testimonia la reinterpretazione di Alberto Cesa e Cantovivo… O cari fratelli ora state a sentire / ché molti braccianti l’Italia abbandona / Lasciando la terra e l’aria si vola / Andare in America a lavorar / Ben là si guadagna 6 lire al giorno / Vestiti leggeri ma ben casermati / Soggetti ai padroni come i soldati / Sebben si fatica / ci tocca di andar… Un’altra popolarissima ballata di quel tempo fu “Mamma mia dammi cento lire” (di Gigliola Cinquetti e del Quartetto Cetra le interpretazioni e incisioni più vendute e note, fino a Max Pezzali e Arisa). Questo canto ebbe la sua matrice nella "Maledizione della madre", databile 1850, ed era la storia di una giovane che, per amore, abbandona, la casa materna per poi fare una misera fine. Ed è una canzone di origine piemontese, nota come A Turin a la reusa bianca (le versioni discografiche più facilmente reperibili quelle di Mario Piovano e di Gipo Farassino). Consiglio la versione della Chorale Traditionelle Niçoise Corou de Berre diretto da Michel Bianco (A Turin, dal disco “Peluenia”). E così ricordiamo anche che Nizza fu piemontese e sarebbe stata italiana (e così per chi vi nacque, come Giuseppe Garibaldi nel 1807, e per chi vi morì un tempo come Niccolò Paganini nel 1840, il culmine di quella che fu la grande scuola violinistica piemontese nota in tutta Europa grazie a Felice Giardini, Gaetano Pugnani, Giovanni Battista Somis, Giovanni Battista Viotti e molti altri grandi violinisti e compositori, oggi meno noti, di cui Francesco Regli parla nella sua “Storia del violino in Piemonte”). Nel 1860 Nizza fu annessa alla Francia in seguito agli Accordi di Plombières (1858) e al Trattato di Torino (1860), come compenso territoriale, assieme alla Savoia, per l'aiuto dato dalla Francia al Risorgimento Italiano. Se vogliamo, fu quasi una beffa per Garibaldi… Successivamente al testo originale ne furono quindi adattati altri di arruolamento e di emigrazione. La versione più conosciuta (Mamma mia dammi cento lire) si ispirò infine al tragico naufragio del piroscafo italiano Sirio, avvenuto il 4 agosto del 1906 contro le scogliere spagnole di Capo Palos. Memori dell’origine piemontese di questa ballata, la versione del Quartetto Cetra esordiva così: Questo canto popolare racconta la storia di una ragazza che viveva alla Rosa Bianca; mentre sua madre la pettinava, lei cantava…).
A Turin a la Reusa Bianca
A Turin a la Reusa Bianca jè na fija da maridè.
E sua mama ch’a la penten-a con al pento da re d’argent.
Mamma mia dammi cento lire
Che in America voglio andar.
Cento lire te le darò
Ma in America no, no no!
Con la crescita dell’industria nel Nord Ovest italiano l’emigrazione, specialmente dal sud e dal nord est, cambiò dunque destinazione. È famoso Il treno del sole o “diretto del sole” (questo invece lo prese a Napoli mio padre), che ogni giorno portò centinaia di nuovi torinesi dal Mezzogiorno. Un treno che è stato soppresso, chissà se quasi simbolicamente nel 2011, col centocinquantenario dell’Unità d’Italia. Come scrive Laura Anello in un bell’articolo su La Stampa dell’11 dicembre: Ultimo viaggio: da oggi niente più collegamenti diretti tra Sud e Nord, per risalire lo Stivale bisognerà fare almeno una tappa a Roma o, in direzione contraria, a Bologna. Addio, proprio nell’anno centocinquantesimo dell’Italia unita, al Treno del Sole, ma anche al Conca d’Oro (Palermo-Milano), al Freccia del Sud (Catania-Milano), al Treno dell’Etna (Siracusa-Torino), alla Freccia della Laguna, il Palermo-Venezia. Tutti vagoni protagonisti di una seconda unificazione del Paese, con l’incontro-scontro tra dialetti e culture, l’emigrazione di massa, la partecipazione degli operai meridionali al boom economico nazionale. Insomma, come è vero che tutto cambia, ora non c’è più quel Lungo treno del sud di Piero Litaliano, pseudonimo di un Piero Ciampi agli esordi, che ispirò tante e tante canzoni come Il treno che viene dal sud di Sergio Endrigo, Lu trenu de lu Suli della Compagnia Daltrocanto che prende spunto dall'omonima ballata di Ignazio Buttitta, il morriconiano “Un Treno per Torino” di Genarinho, Il treno del Sole dei Mau Mau o quello dell’anarchico “cuntastorie” siciliano Franco Trincale (con la “riserva di carne umana che a poco prezzo si può comprar”). Un treno, quello di Trincale, che porta due fratelli dall’Irpinia al nord, dividendosi l’uno alle miniere dell’Oltrefrontiera (Marcinelle?), l’altro a Milano, dove si arruola in Polizia. Torneranno al paese entrambi con le Corone del Capo di Stato… Una cupa storia che rievoca un po’ quella di “Ragazzo del sud” di Adriano Celentano: Per le strade di Torino / polizia e malviventi / sono tutti di una razza / sono figli degli stenti / meridione disperato
sole, mare e poesia / o banditi per le strade / o arruolati in polizia!
sole, mare e poesia / o banditi per le strade / o arruolati in polizia!
Mio padre, di quel viaggio sul Treno del Sole, ha conservato una valigia di cartone; e sarà mia cura continuare a farlo. Il treno che viene dal sud… / Porta gente gente nata tra gli ulivi / Porta gente che va a scordare il sole… / Ma la notte è un sogno sempre uguale / Avrò un casa / Per te per me… Dal treno che viene dal sud
Discendono uomini cupi / Che hanno in tasca la speranza / Ma in cuore sentono che / Questa nuova questa bella società / Questa nuova grande società / Non si farà / Non si farà…(Un lungimirante Sergio Endrigo ne Il treno che viene dal sud)
Discendono uomini cupi / Che hanno in tasca la speranza / Ma in cuore sentono che / Questa nuova questa bella società / Questa nuova grande società / Non si farà / Non si farà…(Un lungimirante Sergio Endrigo ne Il treno che viene dal sud)
Così invece i Nuova Scena in “Povera gente”.
Povera gente…
vengono dal paese mio
due giorni e una notte
in treno…
Sempre in treno
le valigie di cartone
i figli, la moglie
…arrivano a Torino
alla stazione
c'è il solito imbroglione
che li ingaggia nella carovana
manovale, sterratore,
dodici ore senza contratto,
giornaliero,
un quinto al procuratore,
dormitorio: in quaranta
tutti in un camerone
300 lire a letto
la mutua nemmeno li paga
lavorare tanto per campare
per non morire…
I mortificanti cartelli “non si affitta ai meridionali” esistevano davvero ancora negli anni’70, come sottolinea Giuseppe Culicchia nel documentario “Cinefiat presenta” di Alessandro Castelletto; e ve lo dico anch’io, dalla memoria di mio padre e di mia madre. Torino, a cominciare dagli anni ’50, diventerà la terza città meridionale d’Italia dopo Napoli e Palermo. Come nell’inchiesta della Rai del 1961, Meridionali a Torino di Ugo Zatterin e Brando Giordani (ma non erano solo i meridionali ad emigrare), almeno cento o duecento nuovi torinesi scendevano ogni giorno dal “Treno del Sole”. Antonello Venditti nella sua “Torino” canta “Torino vuol dire Napoli che va in montagna”. E molti sono stati gli omaggi malinconici, melodici o neomelodici di Napoli a Torino, come in “Lettera da Torino” di N. Bruno e “Ciao Torino” di Patrizio, che racconta in prima persona di un immigrato “torinese d’adozione” che torna alla madre ormai “vecchiarella” e alla sua Napoli. Traducendo dal napoletano: Ciao Torino / Io ti ringrazio per quello che mi hai dato… Con me sei stata di cuore / Mi hai dato pane a amore / Ora ho un domani / e questo mio domani è nato qua…
Mi magona ancora e sempre una canzone di Lucio Dalla e Roberto Roversi, “L’operaio Gerolamo”. S’alza il sole sui monti / E adesso sono a Torino / Cala il sole sull’acqua / E mi trovo solo come un cane in un angolo / Dentro una mescita di vino… /…S’alza il sole sui monti / E sono ferito a morte, ferito al petto e condannato / Povero operaio, povero pastore, povero contadino / S’alza il sole sui monti / E un altro al posto mio è già arrivato.
L’album Frontiera, 1972, dei torinesi Procession è un un bellissimo concept progressive che affronta il tema dell'immigrazione.
Città grande son qua / cosa mi riserverai, / Tu, di certo, non sai / che ho lasciato i miei grandi amori, / Una madre, una donna, / forse la gioia di vivere… Chissà se mai verrà / giorno in cui, gente come me, / non dovrà partire / per poter lavorare / Quel giorno festa sarà…. (Città grande).
È il “Mirafiori Dream”. Radici nel Cemento cantano in “Mirafiori”: Tirare avanti così è duro / Tornerò tornerò di sicuro da Mirafiori / Con in tasca un nuovo futuro. / Qui la nebbia nasconde il sole e confonde / Illusione e realtà / Torino Porta Nuova… Speranza Vita nuova chi lo sa? / Erano gli anni dei pugni chiusi / E del potere agli operai…
E Morino Migrante (Luca Morino) nella Ballata per Mirafiori: In questi anni ’60 chi l’avrebbe detto mai / che c’è un raggio di speranza anche per gente come noi / che non abbiamo niente noi che veniamo da lontano / che spegnamo le luci presto / e che presto ci svegliamo / Perché il viale è lungo / ma questo viale ci porterà / a una casa vicino al parco / qui alle porte della città…
È la Mirafiori jazz prog-rock, alienazione e nevrosi dell'uomo metropolitano, degli Arti e Mestieri di Beppe Crovella e Furio Chirico (ex The Trip) e dei 4 musicisti di Torino, sopraggiunti dal gruppo "Sogno Di Archimede", Arturo Vitale, Gigi Venegoni, Giovanni Vigliar e Marco Gallesi (dall’album “Giro di valzer per domani”).
Di Mirafiori tornerò a parlare.
Le condizioni di vita degli immigrati furono difficili, soprattutto all’inizio, quando ancora mancavano le case. Negli anni ’50, ’60 e ’70 la borghesia andava di solito ad abitare nei palazzi nuovi fuori dal perimetro del centrocittà e, contrariamente ad oggi, i poveri immigrati riempivano invece monolocali, cantine, pensioni e soffitte delle case storiche e fatiscenti dell’oggi esclusivo centro storico. Molti condividevano una stanza dove un materasso, spesso cencioso, costava duecento o trecento lire a notte. La città si ingigantiva, furono anni di grande speculazione edilizia e sorsero interi quartieri là dove prima c’erano solo prati e qualche cascina. Furono i nuovi quartieri operai che si aggiungevano ai vecchi Aurora, Vanchiglia, Barriera di Milano, Borgo San Paolo, Borgo Dora, Madonna di Campagna… Probabilmente, tra vecchi e nuovi, Torino deve avere un primato anche nel numero di quartieri operai… Il più famoso tra i nuovi, Mirafiori. Ma anche Lingotto a Nizza Millefonti, Falchera, Lucento e Vallette. Quanto male ci si vivesse, specialmente da bambini (ma forse pur sempre meglio per altri aspetti che nei paesi abbandonati), bene documenta su Torino Luigi Comencini in “I bambini e noi”, produzione extracinematrografica del 1970.
La vita dell’operaio in fabbrica era (ed è) dura (Mi vogliono ammazzare / Vorrei amar / Vorrei oziar / Ma torno a lavorare… cantano le Officine Schwartz, In fabbrica), condizionando pesantemente anche quella privata, anche gli amori (Officine Schwartz – Si riposa la domenica). Ne parlano canzoni come “Qualcosa da aspettare” (Fausto Amodei) o “Canzone Triste” (Margot, scritta da Sergio Liberovici e Italo Calvino) dei Cantacronache, un gruppo di musicisti, poeti, letterati e intellettuali senza eguali nell’Italia degli anni ‘50, sorto a Torino nel 1957 con lo scopo di unire per primi l’impegno sociale alla canzone. Sono i precursori assoluti di ogni cantautore italiano. Oltre i fondatori Sergio Liberovici e Michele L. Straniero, vi si distinsero, con diversi ruoli e apporti interni, Emilio Jona, Fausto Amodei, Giorgio De Maria, Margot, Galante Garrone, Mario Pogliotti, Edmonda Aldini, Piero Buttarelli, Glauco Mori. Scrissero per loro anche Italo Calvino, Umberto Eco, Franco Fortini, Gianni Rodari. Contributi non secondari furono dati anche musicalmente da compositori dell'area colta quali Fiorenzo Carpi, Giacomo Manzoni, Valentino Bucchi. Di queste due canzoni (Qualcosa da aspettare e Canzone triste) consiglio anche le versioni rivisitate da Isa (Isabella Maria Zoppi, Alessio Lega, Roberto Bartoli, Silvia Starnini) nel libro con cd “Dalla città, le montagne – Torino e Piemonte attraverso la canzone”.
Ho prima citato le Officine Schwartz, nate a Bergamo nel 1983 ad opera di Osvaldo Arioldi. Non si riferiscono direttamente a Torino con le loro musiche di fabbrica (e i loro strani strumenti auto-costruiti con pezzi e strumenti di fabbrica e officina come bidompano, tubasso, biciarpa e sfregofono), ma per loro tutto il mondo è un cantiere e che Torino sia stata nondimeno fonte di ispirazione credo possa essere sancito dall’Ode Trifase, appositamente composta e suonata dal vivo alle Officine Grandi Riparazioni nel 2011 nell’ambito delle manifestazioni per i 150 anni dell’Unità d’Italia.
Prima di procedere (non qui, ma nel prossimo articolo) con le lotte operaie, vorrei aprire una parentesi proprio sulla musica industriale a Torino.
I suoni assordanti, stranianti, e i ritmi alienanti dei macchinari nelle fabbriche hanno ispirato la cosiddetta musica industrial. La musica industrial e il rumorismo hanno avuto molti precursori seminali e lungimiranti quali Pierre Schaeffer con la sua musica concreta, John Cage e la tape music, Jean Tinguely con le sue macchine sonore o Pol Bury con le sculture autosonanti (bellissime le mostre a Torino dedicate a questi due artisti, una alla Promotrice delle Belle Arti al Valentino nel 1987, quella di Tinguely, l’altra alla GAM nel 1995, con una bellissima cinetizzazione della Mole Antonelliana fatta da Pol Bury per l’occasione).
La musica industrial ha i suoi anticipatori anche nella musica elettronica di Karlheinz Stockhausen, di Bruno Maderna, di Luigi Nono (penso in particolare a “La fabbrica illuminata” del 1964 per soprano e nastro magnetico, opera dedicata agli operai della Italsider di Genova su testi di Giuliano Scabia e Cesare Pavese). E ancora pesano le avanguardie artistiche del primo '900 come il dadaismo, il situazionismo, e soprattutto la performance art e Fluxus, la beat generation, soprattutto William S. Burroughs e Brion Gysin, Edgar Varese con i suoi idiofoni, membranofoni, cluster, sirene e percussioni (esemplare è l’opera Ionisation) o il futurista Luigi Russòlo con i suoi intonarumori (Risveglio di una città).
La data di nascita ufficiale della Industrial Music propriamente detta, che ha racchiuso nei decenni un ampio spettro di generi e sottogeneri, dalla dance music al dark, dal post punk al kraut rock, dall’heavy metal al noise estremo di formazioni come i Fckn Bstrds, coincide con quella di gruppi quali Throbbing Gristle, Clock DVA, gli Human League di “Reproduction”, Cabaret Voltaire, SPK, D.A.F., Coil. Altro gruppo industrial rappresentativo è quello dei tedeschi Einsturzende Neubauten. La loro musica alterna un raffinato e decadente gusto teatrale e cantautorale tedesco all’uso di tubi flessibili, trapani, compressori, lamiere, martelli pneumatici, carrelli della spesa e quant’altro. In Italia vanno menzionati i torinesi CCC CNC NCN (acronimo di chi c'è c'è, chi non c'è non ce n'è), progetto nato da una costola del gruppo Hardcore punk di inizio anni '80 Kollettivo con sede nel centro sociale autogestito El Paso Occupato che ha man mano riunito un grande numero di performers, musicisti, tecnici per realizzare eventi di fortissimo e spettacolare impatto sonoro, emotivo e nondimeno politico. In vita da oltre vent’anni con incrollabile coerenza all’autoproduzione no profit, si tratta di un collettivo poco dedito alle registrazioni o, quanto meno, alla diffusione di materiale riproducibile. Una delle caratteristiche dell’industrial, come del punk, è stata la diffusione di tecnologie a basso costo che hanno consentito una notevole autonomia produttiva e distributiva attraverso i nodi di una ragnatela sotterranea divenuta una vera e propria realtà distributiva parallela ai circuiti ufficiali. Il supporto prediletto fu la cassetta, fino al punto che si parlerà di Cultura delle musicassette o di Tape network per definire il fenomeno.
La dimensione ideale dei CCC CNC NCN, i cui componenti sono per scelta celati da anonimato, è stata quella delle performance dal vivo che comprendono movimenti in mezzo al pubblico per sollecitarne il diretto coinvolgimento, tutti insieme artefici della unicità di ogni evento. Alla performance del 2006 alle ex Fonderie Limone di Moncalieri i CCC CNC NCN, da diverse postazioni all’aria aperta, imbrattati di calce e vestiti da operai della metropolitana, con tanto di fiaccola olimpica spenta nel catrame durante il gran finale, suonavano tra l’altro un set di betoniere e di fusti metallici.
Un esperimento insolito e interessante altresì datato 2006 è stato il progetto “Metallurgic sounds” ideato da Enzo Umbaca, che si è contraddistinto per l’uso programmato, ritmico ed effettistico, delle presse degli stampaggi a caldo, dell’aria compressa, delle billette, delle sirene ed altre macchine, e per la musica composta per l’occasione da da Igor Sciavolino e Cesare Malfatti (La Crus) eseguita da strumenti acustici (chitarra acustica, banda, la tromba solista di Ramon Moro). Enzo Umbaca, su invito del Comune di Forno Canavese e del LAP (Laboratorio Artistico Permanente – Provincia di Torino), ha sviluppato il progetto “Metallurgic sounds” per valorizzare la storia industriale di Forno, paese non lontano da Torino tra i principali poli d’attività siderurgica in Italia e, per questo, definito una “piccola Ruhr”. Il suono delle fabbriche è sicuramente molto familiare ai cittadini di Forno Canavese e dintorni, una locale forma di identità sonora (“Paese che vai, rumori che trovi” si legge tra le note di copertina). Rumori di fabbrica selezionati, registrati e programmati, altri eseguiti dal vivo con compressore, movimento di carrelli e altro, accompagnano le musiche eseguite dalla Filarmonica e dal Coro Monte Soglio di Forno Canavese diretti dal M. Mario Bertod in un concerto tenutosi il 23 settembre del 2006 sotto la mole di una grande pressa in un capannone industriale divenuto per l’occasione l’ideale sala da concerto. Nel disco, che testimonia di quell’evento, dall’ouverture al conclusivo “Inno fornese”, spiccano due momenti: un lacerante asolo di tromba del già citato Ramon Moro, tra liquidi di una pressa e lancio di pesanti metalli dentro cassoni, e un coro che riproduce in modo onomatopeico suoni di fabbrica (Pss 54).
Affascinanti altoforni oggi in progetti culturali e post-industriali come questo, che richiamano però anche tutto un altro rovescio della medaglia. Sicurezza sul lavoro, morti bianche… Tutti ricorderemo a lungo, non solo a Torino, quanto è successo nelle acciaierie della Thyssen-Krupp la notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007. Non ci sono solo alcuni film documentari come quello di Simona Ercolani, La classe operaia va all’inferno (2008), o ThyssenKrupp blues di Pietro Balla e Monica Repetto (2008) o ancora La fabbrica dei tedeschi (2008) di Mimmo Calopresti o “Torino-Terni”. Un viaggio nell’acciaio” di Massimiliano Quirico.
Torino pausa pranzo (iosonouncane – Jacopo Incani) è dedicata alla tragedia della Thyssen-Krupp ed è un bel pugno nello stomaco. Franco Trincale, che vi ha ridedicato “È morto un angelo” (in passato scritta per le molte morti dei manovali nel cantieri), vi ha anche scritto “Ancora morti sul lavoro” (Se vuoi veder l’inferno, amico mio, vieni con me, / che te lo mostro io a Torino / nelle acciaierie e nel reparto delle fonderie / dove in quell’inferno indiavolato / muore l’operaio carbonizzato. / Dante la Divina sua commedia, nel lavor si vive la tragedia…). Ben si adatta anche “Articolo 1” di Mezzafemmina (Gianluca Conti), anche se scritta sull’amianto che ha ucciso i lavoratori dell’Eternit e i cittadini di Casale Monferrato (nel 2007 si parlava di una lenta e prolungata strage in cui si calcolava la morte di 900 lavoratori e 500 cittadini). La nostra è una Repubblica fondata sul lavoro / Ma se vado a lavorare muoio / Basta anche un respiro …