C’è un Cristo morto. Illuminato a Caravaggio. Tutt’intorno una scena ultravioletta. Da manierismo scenico. Ci sono tre uomini, tre fratelli, che discutono il piano d’azione: “Ehi Joe, Come lo facciamo?” Come in un film d’azione americano.
Silenzi. Intercorrono tra una battuta e l’altra. L’aria è tesa: il clan aspetta.
Totem[1], scritto dal drammaturgo e antropologo Fabio Massimo Franceschelli, è l’esplicitazione del totemismo occidentale: la famiglia (per lo più cristiana) è rappresentata come un clan al quale i protagonisti sono legati senza via d’uscita. Al suo interno i rapporti sono descritti con precisione dal drammaturgo che individua in Joe – nome dei tre fratelli che ritorna di volta in volta grottesco e ioneschiano – le qualità esistenziali del primogenito, secondo e terzogenito, capeggiati da un padre scarafaggio-parassita-autoritario dal sapore kafkiano. Il vero Totem è lui. Anche se all’inizio sembra dover essere quel Cristo in croce posto in cima ad uno scatolone, poi quando questo si anima e si distacca dalla scena ingombrando il proscenio con appendiabiti appositamente portato per lui, taglia il pane e lo imbottisce con un pesce finto, lo mette dentro una sporta di plastica, indossa un cappotto di pelle nera lungo e se ne va… quasi ad abbandonare la sua funzione messianica, diventa uno di noi, è pronto ad affrontare la strada con il suo panino sotto il braccio. Lo spirito del figlio diventa materia – lista.
E questa è una delle felici soluzioni registiche di Claudio di Loreto il cui tipo di ricerca si dirige verso la rappresentazione della visione, la qualità visiva dell’immaginazione, costruendo di volta in volta semantiche possibili, rimodellando l’iconografia e rimpastandola dove possibile con la ricerca sul corpo dell’attore, un attore schiacciato a terra, pagliacciato da gote rosse, ricurvo su sé stesso che mostra il volto ai riflettori come rivolgendosi al Totem.
Il testo infatti delinea proprio la dinamica dell’associazione con il proprio totem: una cerimonia di iniziazione è ciò che aspetta i tre giovani uomini, incitati alla violenza, perché: “è la sofferenza che avvicina l’uomo a Dio, l’urlo straziato, il sangue che schizza, la puzza del dolore. Occorre la sofferenza.” – e allora – “Che cazzo c’entra la sofferenza? Prima lo facciamo meglio è.” – … – “Joe, non contraddire papà!”
Il tutto racchiuso all’interno di una placenta soffocante: una madre fagocitante si aggira per la scena ed è con lei che il dramma edipico prende forma, il figlio deve sostituire il padre, è arrivato il suo momento. L’iniziazione del primogenito però non avverrà mai perché come un Amleto, Joe, prenderà consapevolezza della situazione e finirà per essere ucciso, emblema di una sensibilità calpestata, ontologicamente destinata a morire.
La scrittura gergale ed immediata, costituisce un testo dal sapore acido e coinvolgente, riprendono più suggestioni e rielaborando citazioni di ieri in una visione dell’oggi post-pasoliniana.