La scrittrice dell’orrore globale, quello che non abbandona la Storia e che di tanto in tanto si ripropone, -come di recente nella scuola di Beslam, contro il quale ha sentito l’urgenza di scagliare il suo strazio- ritorna con questo romanzo sulla tragedia dell’olocausto, che è lutto indelebile per sé e per il tempo, non in grado di medicare ferite personali e collettive così profonde.
Nata da una poverissima famiglia di Ebrei ungheresi, deportata ancora bambina in un campo di concentramento, Edith Bruck dal 1954 vive in Italia e ne usa la lingua, trasformando la sua scrittura in parola letteraria di denuncia e la sua persona in un infaticabile attivismo testimoniale nelle scuole, affinché non solo permanga il ricordo dello sterminio, ma le nuove generazioni siano educate a vigilare sui valori democratici e vivano nel rispetto della diversità e delle minoranze.
Dall’esperienza del suo incessante pellegrinaggio tra gli studenti e dalle domande inquiete, curiose o addolorate e soprattutto dalla lettera di una studentessa che la chiede a sua guida spirituale, nasce anche un romanzo accorato sul valore della testimonianza, avvertita dalla Bruck come una sorte inappellabile.
Ossessionata dall’esperienza dell’atrocità subita nel campo di Auschwitz, dove perse i genitori, un fratello e alcuni altri parenti, non ha lasciato a se stessa molto altro spazio al di fuori dell’autobiografia, quasi cercando di trovare, nel ripercorrere il suo tormento, gli indizi impossibili che rendano l’immane violenza, se non accettabile, almeno comprensibile dall’umano intelletto nella sua stupefacente genesi ed evoluzione. La memoria della cattività ritorna continuamente, anche in una improbabile lettera alla madre, per tentare di capire come la Storia partorisca i suoi mostri. Il senso vero della scrittura di E. B. è proprio nel bisogno di comprendere, per sé e per gli altri, come la cecità di un singolo e dei popoli induca a tali abissi di crudeltà ed è evidentemente un percorso senza sbocchi perché è un dilemma cui nessuno ha ancora dato risposta.
Alla ferocia umana non c’era e non c’è risposta, né ieri né oggi. L’uomo è ben poca cosa, diceva mia madre, Iddio deve averlo creato in un momento di cattivo umore.(Signora Auschwitz Il dono della parola; ed. Marsilio )
L’identificazione tra il peso dell’oltraggio e la sua vita è tanto netta che, da un’incontro con l’autrice, riporto l’impressione di una rigidità anche fisica negli occhi fermi e gelati che sembrano attraversare l’interlocutore, per continuare a fissare semplicemente i propri pensieri.
E’ passato mezzo secolo dal genocidio ed ecco che questo nuovo romanzo di Edith Bruck ci propone un seguito, quasi il delitto fosse inesauribile, ed in verità non sono molti i racconti che riportano le vicende dei sopravvissuti, posteriori alla loro liberazione. Allo stesso modo mancano a ben rifletterci voci contemporanee al misfatto che si andava compiendo. Pochissimi hanno conservato la forza necessaria a reggere una matita tra le mani nel chiuso dei lager e anche questo è un indizio dell’annientamento della persona nei suoi connotati più nobili.
A Vera Stein giunge una lettera da Francoforte nella quale è invitata a produrre una documentazione per godere di una modesta pensione, che il governo tedesco –e non è finzione letteraria- a mezzo secolo dall’olocausto ha deciso di assegnare ai superstiti. Vera non vuole soldi e comincia a muoversi controvoglia, perché non esisterebbe una cifra per pagare le piaghe mai risolte, ma nel risarcimento individua una sorta di riconoscimento di ciò che ha subito e che l’ha trasformata in Dolore. Insomma un piccolo importo utile ad autenticarla e a palesare la sua identità più autentica e profonda.
La corrispondenza subito s’inerpica nel surreale: nella lettera, burocratica e ingarbugliata, le viene chiesto di produrre, in veste inquisitoria, una messe di certificati, tra i quali spicca al numero 7 la richiesta della prova documentata della sofferenza subita durante la persecuzione. Le testimonianze non sono sufficienti.
Paralizzata si domanda come sia possibile esporre ed esibire la lacerazione dell’anima, ma decide di non arrendersi, pur non avendo il marito accanto in questa battaglia che riproporrà ricordi dolorosi, tra i quali egli teme che Vera si perderà.
Dopo lunghi anni di tentativi epistolari per cercare di dipanare l’ingorgo di carte, Vera si decide a partire per Francoforte dove però farà una scoperta sconcertante.
Alla sofferenza che pesa su questa vita si adegua lo stile, che nulla concede alla leggerezza. Vortica, scarno di aggettivi e abbellimenti, verso il precipizio della sua conclusione per avventurarsi in altri periodi e svelare altre cose.
Anche poetessa, oltre che scrittrice per il teatro, la televisione e il cinema, E. B. ci lascia il senso della durezza della sua lotta in questi versi che meglio di ogni considerazione marchiano la sua opera e la sua poetica: Nascere per caso/, nascere donna/ nascere ebrea/ è troppo in una sola vita.