LA LEGGE 180. COMMA 22
“In comunità ho imparato alcune cose. Utili, infinitamente utili.
Ho imparato a parlare per ore intere con delle persone senza ascoltarle e non mi era mai riuscito, nemmeno con i parenti a Natale. Ho imparato a capire se una persona scavalcherà un cancello semplicemente per come lo guarda pochi minuti prima. Ho imparato a dormire e alzarmi a ogni necessità rimanendo ancora addormentato, dire “state zitti, cazzo!”, e, la mattina dopo, non ricordarmi nemmeno di averlo detto. Ho imparato ad essere gentile e tollerante. Ho imparato ad incazzarmi a morte, interrompere la democrazia, minacciare, essere totalmente intransigente.
Ho imparato a fare sorrisi che fanno sentire meglio la gente solo guardandoli (…)”.
(Claudio Morici, “Matti slegati”, Padiglione C, 8, pp. 61-62)
Il romanzo d’esordio del narratore e net-artist romano Claudio Morici, classe 1972, è un’opera d’una profondità e d’una intensità disorientanti. È un libro nato dalla biennale esperienza dell’autore nelle comunità terapeutiche, come psicologo: nella realtà derivata dalla rivoluzione basagliana, assassina della follia. Perché era il manicomio a creare i matti, secondo gli apostoli del dottore. Insegna il maestro Tobino: “Sono stati gli psicofarmaci a rivoluzionare i manicomi, e non le loro teste. E nemmeno si domandano se la follia loro la conoscono, se ne saprebbero distinguere il volto, loro che l’hanno frequentata soltanto dopo l’avvento degli psicofarmaci, se ne sanno la violenza, la fantasia, l’orrore, l’inesprimibile immacolatezza, l’impenetrabile lutto. E neppure amano conoscere, per nulla sono ansiosi di valutare di quanto con i composti chimici la follia è stata offuscata, travestita, mascherata (ma non vinta); e a volte costretta a brancolare. Neppure sorge loro l’inquietante interrogativo, l’assillo morale, se è giusto con gli psicofarmaci ottundere la personalità, arginare, imbavagliare, legare una delle più profonde, meravigliose, misteriose manifestazioni umane: la follia” (“Gli ultimi giorni di Magliano”, 1982, pp. 18-19).
Morici ha accompagnato gli ospiti della comunità, sognando di liberarli dal male e dedicandosi loro con pazienza, umiltà, dedizione: testimoniando la loro sofferenza, assumendosene il terribile carico, avvertendone la responsabilità. Per un arco di tempo scandito dalla somministrazione di psicofarmaci: e non è forse un caso, allora, se ogni capitolo (qui: “Padiglione”) è inaugurato non da una citazione letteraria, ma da un bugiardino. Morici ha interiorizzato la lezione di Tobino.
Detto questo: salutare nell’opera prima del narratore romano una sintesi d’un’esperienza esistenziale e un rinnovamento delle intuizioni e delle analisi tobiniane non è onesto; o almeno, non è esaustivo. Perché questo è un romanzo in cui ogni parola sembra essere stata cesellata: disossando e scarnificando stesure precedenti, sanguinando nella memoria e avvilendosi nel ricordo, distaccandosi provvisoriamente da un vissuto che vive cristallizzato nell’anima dell’autore.
La trasfigurazione di quel che è stato vissuto non sempre è pacifica, non necessariamente è naturale, non automaticamente diventa arte. “Matti slegati” è un’opera d’arte, scritta con amore, intelligenza, sensibilità. Perché possa essere non solo fonte d’una fascinosa e cupa esperienza estetica: ma monito e denuncia d’un dramma – quello degli ospiti delle comunità di Basaglia, e dei loro famigliari – e d’una, pur episodica ma preoccupante, abiura dei “dogmi” del maestro dei “rivoluzionari” da parte d’una comunità scientifica sempre sinceramente propizia a somministrare veleni intossicanti e talvolta non insensibile al fascino del denaro.
L’acutissima sensibilità dell’artista Morici conosce uno scudo: l’ironia. L’ironia allevia e mitiga l’impatto di scene troppo dolorose da poter essere descritte: esorcizza, pur precariamente, il male e sostiene il ricercatore nei momenti di più tetra incertezza e più lancinante malinconia. Ma non è un’ironia volta a mistificare gli eventi: l’impressione netta è quella d’assistere, in più d’un frangente della narrazione, a una fedele registrazione dello stato e della condizione dei pazienti e del personale della comunità terapeutica. E soltanto quando il peso di ciò a cui s’assiste diventa intollerabile, allora s’accetta il conforto del sarcasmo. Che sostiene, ribadiamolo, autore e lettore al contempo.
Morici carica, con stile e determinazione, il mulino a vento della Legge 180.
Ha talento. Sa raccontare una storia, calibrandone tempi, accelerazioni, intervalli: sospendendola e rinnovandola. Eccellente la sensibilità per i ritmi e i colori del parlato; evidente, in particolare, nei dialoghi in romanesco, di singolare efficacia. Non è un romanziere “visivo”. Non dipinge immagini, non cade nel precipizio della visionarietà. La sua è la narrativa di chi ascolta e sente: parole, e voci dentro.
“(…) Ho imparato a non dare fastidio a chi vuole essere lasciato in pace. A fregarmene delle lamentele fatte apposta per farsi notare. A distinguere un pianto con sofferenza da un pianto senza sofferenza. Ho imparato che non esiste un matto che non sappia cosa sia la realtà e cosa sia il delirio, anche se non lo dice allo psicologo” (Claudio Morici, “Matti slegati”, Padiglione C, 8, p. 62).
Per quanti fossero interessati al tema, suggerisco un eterogeneo sentiero di narrativa: “Qualcuno volò sul nido del cuculo”, di Ken Kesey; “K-Pax“, di Gene Brewer; “Gli ultimi giorni di Magliano” di Mario Tobino. A chi vuole capire davvero cosa si viva nelle comunità terapeutiche, consiglio di passeggiare per corridoi e camerate: sono aperte al pubblico, e i pazienti, eccettuati i casi di T.S.O. (trattamento sanitario obbligatorio), possono entrare e uscire a loro piacimento (per andare dove, considerando che spesso le comunità sono isolate? E che i confini…). Vi capiterà di riconoscere i personaggi raccontati da Morici: infermieri in abito da paziente, pazienti con aria da dottori, liberi di circolare tra una stanza e l’altra, medicinali a portata di mano, un televisore sempre acceso: a suggerire che la catatonia catodica può essere un intrigante diversivo.
Qualche ulteriore annotazione a proposito della struttura e della trama del libro. “Matti slegati” è suddiviso in 7 Padiglioni, suddivisi rispettivamente in 6+10+8+3+5+6+23 capitoli.
Il protagonista del libro, Andrea, è un infermiere psichiatrico. Non ha una brillante vita sociale: al ritorno dal lavoro, si dedica ai surgelati e a qualche film porno, nel tentativo di spegnersi. Apparentemente, è come se fosse “sempre altrove, concentrato su quel pezzo d’aria che separa ogni persona dall’altra” (B, 3, p. 25). La Comunità è un vecchio casale restaurato, sulla Laurentina. Intorno, niente. D’estate, qualche incendio. Il primo bar dista trenta minuti a piedi, e trenta minuti dista la fermata dell’autobus. Se i matti scappano, si parte alla loro ricerca guidando un pulmino.
Responsabile della sede è Laura, “90 kg di competenze psichiatriche”, “baule di severità”, ninfomane e prepotente e volgare. C’è un tirocinante, il giovane Pietro, sempre troppo libresco e “terapeutico”, ridicolizzato dall’incolmabile divario tra i suoi studi e la realtà: divario esasperato dalle battute dell’infermiere anziano Lorenzo, capo carismatico, romanaccio e provocatorio.
E poi ci sono gli ospiti. Il coatto e paranoico millantatore, Nino, il triste, elegante ed educato Crisantemo, che scrive lettere al Papa e alla polizia, la fuggitiva Antonella, figlia di un primario: diciotto anni, un aborto alle spalle, una relazione morbosa con un rumeno che voleva farla prostituire, un ritardo cognitivo di grado medio-alto.
Vite e voci che s’intrecciano, mentre Andrea, da buon agente segreto, indaga sulle verità nascoste nella “struttura”: si va a sradicare la corruzione, per denunciare e smantellare un sistema che non guarisce. Annulla.
La nostra Letteratura ha espresso un nuovo, grande talento. Il cinema dovrebbe dedicare qualche attenzione a questo libro: sembra nato per essere tradotto sul grande schermo. Per essere un caso. Perché non sa mentire.
*****
PAROLE D’AUTORE (di Claudio Morici)
“La letteratura è ricerca?”
“Franco, c’ho messo un paio di giorni prima di decidermi a rispondere alla tua domanda. Tu mi hai chiesto se, secondo me, la letteratura è ricerca. Beh, io per rispondere ho dovuto fare una ricerca. Probabilmente con lo stesso metodo che uso per i miei romanzi. Lo riconosco perché all’inizio penso, “sì, lo so”, così, per qualche ora. “Lo so così tanto che neanche devo rispondere subito”. Poi come inizio a concettualizzare mi accorgo sempre che “il discorso sarebbe troppo ampio per risolversi in qualche riga”. Comunque ci si può provare. Ma subito dopo è la volta della percezione di cose impossibili da esprimere. Le vedo lì davanti a me, ma sarebbe perlomeno una mancanza di rispetto scriverci su. E qui mi perdo. C’è come un salto, ad un certo punto mi ritrovo perso e non ho coscienza del punto delle rotaie in cui il treno è deragliato. Penso che non so rispondere, penso che sono un deficiente, giuro, proprio un cerebroleso, non ho opinioni, può essere che cammino per strada e mi spavento perché un vecchietto mi ha guardato male. Oppure che mi fermo in mezzo al corridoio di casa e mi dimentico che stavo facendo. Non riuscirò mai a rispondere. Eppure la sapevo, la sapevo! Comincio a scrivere appunti del tipo “la prossima volta ricordati di scrivere e basta”, “mai pensare che sai una cosa, prima di scriverla”, “prendi appunti, come adesso”, e cose così. Ma è troppo tardi. Mi metto a guardare la televisione. Penso che un tempo, due giorni fa, ero uno forte, uno che poteva scrivere e sapeva pure perché lo faceva. Ora è tutto finito. Prediligo i reality show, mi seguo tutte le repliche notturne. Alle 4 fanno la Fattoria. Poi ce n’è uno con la Berté mezza matta che litiga con tutti ma si capisce che è stata una grande. Se lo sarà dimenticato anche lei? Penso a tutto il tempo che sto perdendo, penso a quando (fino a due giorni fa) passavo questo tempo scrivendo, cercando qualcosa. Ma cosa? Cosa cazzo facevo lì come un cretino a spingere tasti e a guardare lettere sullo schermo? Vado in cucina, mi faccio un paio di bicchieri di rosso del discount. Il cane si sveglia, lo mando affanculo.
Torno sul letto. Penso che sto finendo i soldi in banca. Se continuo così tra due mesi non mi rimane una lira. Perché non mi va di lavorare? Perché non ci riesco? Perché a volte penso che sto lavorando anche se non mi paga nessuno e mi sento a mio agio? Mi alzo, vado davanti alla libreria. C’è una cartellina dove conservo tutte le lettere di rifiuto degli editori. Le guardo e mi viene quasi da ridere, sono il corpo del reato, lo storyboard della mia attuale inettitudine. Ogni tanto le prendo e mi metto a contarle. Sono 18, ne vado fiero, più delle telefonate dove dicevano che mi pubblicavano. Di quelle non c’è traccia infatti, c’è solo il libro. Alcune lettere di rifiuto risalgono a 7-8 anni fa. Tutte standard, ma ognuna l’avrò riletta tante di quelle volte. Che merdate di romanzi che ho scritto a vent’anni. Se fossi stato un editore non mi sarei mai pubblicato. Eppure scrivevo e avevo momenti in cui sapevo addirittura cosa stavo facendo. Lo vedevo lì, davanti a me. C’era un film di Kusturica, mi era piaciuto tanto, mi aveva fatto scrivere tanto, c’era Jerry Lewis che faceva l’eschimese. E parlava di un pesce particolare, un pesce che cambiava forma da giovane ad adulto. Da giovane aveva un occhio da una parte e uno dall’altra, vedeva, in sostanza, su due lati opposti contemporaneamente. Immagino avesse solo difficoltà a vedere davanti a lui, perché era piuttosto sottile. Lo stesso pesce, da adulto, subiva un cambiamento morfologico, come noi uomini la barba, i peli pubici. Accadeva che da adulto uno dei due occhi del pesce si spostava e andava a mettersi accanto all’altro. In sostanza aveva due occhi dallo stesso lato, diventava una specie di sogliola. Certo anche in questo caso aveva problemi a vedere davanti a sé, ma avere due occhi dalla stessa parte può dare dei vantaggi. Averli è adattivo, è rassicurante, vedi tutto in modo più coerente, non hai più il sentore di qualcosa che c’è dall’altra parte. Sei adulto, appunto.
Ecco, lo scrittore è fatto strano. È uno di questi pesci sì, come tutti gli uomini, ma c’ha qualcosa che non funziona nell’occhio e cresce senza lo spostamento. È costretto a questa visione cronica, obbligata, che diventa poi straziante “.
(Claudio Morici, maggio 2004)
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
Claudio Morici (Roma, 1972), romanziere e net artist italiano.
Laureato in Psicologia Clinica con una tesi intitolata “Fenomenologia esperenziale del sognare lucido” (pubblicata in “Sogni Lucidi”, a cura di Fabrizio Speziale, Edizioni Il Punto d’Incontro, Vicenza, 1999), ha lavorato per due anni in diverse comunità terapeutiche, prima di cambiare lavoro.
È stato direttore dei contenuti del sito d’arte indipendente www.gordo.it.
“La Comunità Terapeutica credo sia una specie di grande sogno. Medici, operatori e pazienti sono i personaggi che parlano, desiderano e agiscono secondo i desideri del sognatore e, soprattutto, non sanno di stare sognando. Credo che questo possa dirsi di tutte le istituzioni chiuse. Nel caso delle Comunità il sognatore è la psichiatria, duecento anni di ricerca, teorie, ipotesi e mandato sociale. Se ci lavori o vivi in Comunità, non c’è differenza, hai veramente la sensazione di essere sognato da un altro. Parli da psicologo, rispondi da paziente. Il tuo malessere diventa malattia o controtransfert terapeutico. Pensi che ci sia un senso a stare lì, anche se ancora non l’hai proprio capito. Utilizzi la maggior parte delle tue forze per fare andare avanti la baracca, come se la cosa avesse un fine in se stesso. Matti Slegati racconta di un rumore, uno scricchiolio o qualcosa del genere. Come qualcosa che si sta rompendo e una volta rotto ti fa capire che era finto“. (C. Morici, intervista di D. Giardina)
Claudio Morici, “Matti slegati”, Stampa Alternativa, Roma, 2003.
In copertina: disegno di Claudio Parentela.
“Matti slegati” è il primo romanzo pubblicato dall’autore.
Recentemente, Morici ha pubblicato il suo secondo volume di narrativa: “Derrumbe. Il fungo ha mangiato me” (Valter Casini Editore, 2004)