Un film come L’invasione degli ultracorpi, ormai al suo quinto remake, non solo è da vedere ma, forse, anche da ri-vedere per lo spirito di demonizzazione che lo anima, spirito così radicato nelle più antiche paure dell’essere umano da non risparmiare nessuna ipotesi di latenza. Lo spirito infatti in Invasion c’è tutto ma, nel complesso, non si può certo considerare un film riuscito, se non altro rispetto al suo antenato del ’56, prova magistrale di fantascienza dell’epoca. Fa eccezione Nicole Kidman, impavida psichiatra che ha la fortuna di avere un figlio immune’ per una malattia esantematica contratta nei primi anni di vita. L’attrice è, come di prassi, professionale, grazie al suo innato trasformismo recitativo che qui diventa eroico e perfetto anche nelle più spigolose imperfezioni. Sceneggiato da Dave Kajganich (Invasion of the Body Snatchers di Don Siegel era sceneggiato da Manwaring) ma basato sullo stesso romanzo di Jack Finney, è stato oggetto di molte letture le quali, partendo dalla tematica affrontata nel film, di respiro universale, probabilmente non potranno mai risultare esaustive. La meno credibile sembrerebbe quella che riconduce il messaggio del film, sicuramente quello dell’originale, ad una sorta di propaganda anticomunista o antimaccartista, ipotesi accettate entrambe, almeno secondo Mereghetti, dal regista stesso. In realtà, a parte l’idea di “alludere” che pervade tutto il racconto, avvitato proprio sul filo del mistero psicologico di azione-reazione o aggregazione-diffidenza e dunque valvola pirotecnica di tensione, altri riferimenti precisi che accreditino questa teoria non emergono; nella versione di Don Siegel potrebbe fare eccezione giusto una frase in cui si parla esplicitamente di uguaglianza. Esiste altresì la rivendicazione dell’amore e dell’identità sull’imminente scomparsa dei sentimenti. La continua minaccia che incombe diffonde una suspense intensa sebbene priva di effetti speciali nella prima versione, affidata a patetici effetti nell’ultimo remake. In questo film ogni spettatore è indotto a proiettare una propria propensione persecutoria: dalla generica tendenza alla sopraffazione tra razze fino all’olocausto o all’antica paura degli extraterrestri, del pregiudizio, dell’inspiegabile, del doppio, dell’altro da sé. Ma qui il doppio non c’è. Se ne L’invasione degli ultracorpi infatti, gli organismi contenuti nei famosi baccelli, agnizione scenica che appare dal nulla, riproducevano una ad una le sembianze degli abitanti di Santa Mira come copie di robot sfornati dall’industria del sospetto, in Invasion (in origine The invasion), sarà da un relitto di Shuttle che si scatena una vera e propria pandemia. In questo caso gli alieni, quasi adepti di una setta che ha l’obiettivo di convertire l’intera umanità, non creano copie di sé ma si trasformano in altro, in animali simili a rettili antropomorfi che contagiano con il veleno splatter’ e corrosivo acquisito durante il processo di metamorfosi.
L’invasione degli ultracorpi, film retto dagli straordinari dialoghi (in parte censurati) di Sam Peckinpah e da una prevedibile sceneggiatura nel suo più recente remake, sicuramente era contro la società in quanto fenomeno di massa, contro il progressivo e rapido processo di disumanizzazione che il consumismo iniziava a prospettare in controluce nella realtà americana. Replicanti ante-litteram, inanimati e privi di emozioni in quanto facenti parte di un universo sociale indistinto e seriale, erano tutto quello in cui l’uomo si stava per trasformare. L’espansione rapida di ogni massificazione antropologica, sembrava dirci Siegel, rende l’uomo non-pensante e non-amante nella misura in cui è fagocitato ed integrato dentro schemi sociali che manipolano la sua specificità attraverso un coercitivo meccanismo di omologazione.
Nel remake di Oliver Hirschbiegel, già regista di un interessante film quale “La caduta”, c’è un’ambiguità di fondo. La Kidman è vittima di un leit-motiv compulsivo e necessario: non fa altro che prescrivere ed utilizzare medicinali; rovescia boccette di barbiturici ingoiando pillole a go-gò per la propria sopravvivenza. Forse si tratta soltanto della necessità di onorare qualche multinazionale farmaceutica o di enfatizzare la ricerca medico-scientifica, visto che alla fine un vaccino fornirà presunte speranze per tutti. Il nemico allora in questo caso è, forse, la malattia-malvagità, quella psichica in primis, contro la quale può tutto la neuroscienza. Gli esseri alieni prelevano la memoria individuale durante il sonno, ossia, molto presumibilmente, nel momento in cui ogni essere umano è inerme, incapace di reagire e interagire lucidamente col proprio ambiente, di modificarlo, di vederne gli orrori della sopraffazione e del potere, impotente per difendersi dalla sua violenza. E’ sull’oblio e sulla subliminale realtà ipnotica e omologante della tecnocrazia o della globalizzazione, diremmo oggi, che sparisce l’uomo con tutto il suo apparato evolutivo e si affaccia un sosia deforme che, come un computer, ha salvato su un asettico hardware cerebrale, solo inanimate, già esperite informazioni di sé.
Il finale di Invasion of the Body Snatchers, anche se originariamente immaginato da Siegel senza speranza, riscattava tuttavia il protagonista che, con la coraggiosa affermazione della propria individualità (ideologia?), garantiva la salvezza a se stesso e dunque al mondo intero. Ma l’amore di coppia, che nell’originale sembrava concedere ai due protagonisti una possibilità estrema di salvezza, risultava esiziale per la giovane donna, debole di fronte alla violenza del mondo. I rapporti di forza della coppia, sembra dirci ormai Oliver Hirschbiegel, si sono invertiti, infatti nel suo film l’uomo cede per primo all’omologazione pandemica, più fragile del suo corrispettivo femminile.