Il milieu malavitoso ha le sue regole. E chi vi appartiene tende a rispettarne i codici, perché per i banditi della vecchia guardia (siamo negli anni sessanta) l’onore e il rispetto del proprio nome valgono più di ogni cosa. E allora si mette in gioco anche la propria vita quando si rischia di sprofondare nella fogna del disonore, essere chiamati traditori o spie è un colpo più duro di una fucilata. Morire lo si può accettare, ma fare il nome di qualcuno è una macchia che non verrà più tolta.
Gu (Daniel Auteil) è evaso di prigione. E’ tornato dalla sua donna, Manouche (Monica Bellucci) e capisce che è ora di abbandonare Parigi, magari per ricominciare in Italia o da qualche altra parte. Gu è però al verde. Gli viene proposto di partecipare ad una rapina. Gu accetta. Ci sono cento milioni in palio. Fila tutto liscio. Poi però Gu cade in un tranello della polizia. Esce fuori il nome di chi aveva organizzato il colpo. Gu viene fregato dall’ispettore Blot (Michel Blanc). Perde la sua reputazione.
E allora si vede costretto a rischiare di nuovo tutto quello che aveva vinto affinché il suo nome non venga infangato. L’amore, i soldi, il futuro divengono nulla rispetto alle esigenze del presente, il riscatto del proprio onore.
L’universo della malavita, come sappiamo, è unicamente maschile, le donne che vi gravitano intorno sono di due tipi, le puttane e quelle che stanno accanto a qualche pezzo grosso. Manouche appartiene alla seconda categoria e per amore del suo uomo sarà pronta ad affrontare tutte le prove che il destino le metterà davanti. Il destino, uno degli altri elementi fondamentali del noir, un genere che nelle sue forme più elevate arriva a raggiungere la profondità drammatica delle antiche tragedie greche ma che nelle sue forme più povere, come succede in questa pellicola, diventa solo apparenza, codificazione di luoghi e personaggi, stereotipo di drammi e violenze mai veramente vissute fino in fondo.
Le deuxieme souffle è un film arrogante e senza la minima modestia, dove la lentezza narrativa appesantisce lo sviluppo dell’azione, dove il cuore del noir non riesce mai a grondare vero sangue, quello che dovrebbe pulsare nelle anime ferite dei protagonisti, che dovrebbe sgorgare dai brandelli delle loro vite. Tutto finisce per trasformarsi in un estetizzante narcisismo filmico, i ralenti usati dal regista sono pura masturbazione visiva e non riescono mai a diventare una rappresentazione figurativa o coreografica della morte (come tanto cinema orientale ha insegnato).
Alcuni dialoghi (soprattutto all’inizio) scivolano senza misericordia nel ridicolo (e senza dialoghi adeguati il noir soffoca), mentre Parigi è un intreccio di strade senza vita (che solo nell’inutile piano-sequenza finale improvvisamente vengono riempite di corpi e volti).
Tra gli attori si trovano facce interessanti (Eric Cantona) e personalità capaci di reggere il proprio ruolo (Daniel Auteil, Michel Blanc, Jacques Dutrinc) ma anche la solita Monica Bellucci, copia ossigenata delle dive del passato, che vorrebbe farci credere che la sua tinta bionda abbia addirittura un valore drammaturgico.
Dell’anima del noir rimane poco e niente, del vero e maledetto romanticismo degli scrittori che hanno fatto grande questo genere (basti pensare, per i francesi, ad Izzo ma anche all’autore del romanzo di partenza da cui è stato tratto il film, José Giovanni) non rimane che una pallida ombra e di quelle storie, capaci di entrare dentro al cuore, in quel luogo oscuro dove bene e male perdono i loro confini, abbiamo solo una inutile falsificazione. Una scrittura filmica così narcisistica finisce per cancellare anche le buone prove degli attori, non può assolutamente reggere il confronto con il capolavoro di Melville del 1966 e ci lascia una superficie patinata di immagini in cui la profondità tragica della narrazione si appiattisce fino a scomparire.