Una silloge che porta con sé il richiamo ad una poesia antica e dimenticata, e reca il germe d’una contemporaneità che pare lasciare lentamente il passo ad una inquietudine/quiete, che possa sbocciare come un fiore, per dipanare il costrutto dell’Essere e dell’universo attraverso cruente parabole, composte da scomodi versi impiantati in scale di lenta ascesa della conoscenza.
E si tratta di silloge, non di mera raccolta, laddove si tenga conto della programmaticità artistica, segnante i punti di attuanda teorizzazione.
La prima lirica, “Qui i tizzi del crepuscolo”, indica la via che la poesia seguirà. Si dice che essa sarà dissonante e brutale: Poesia ti rifarò dissonante e brutale/Arrovesciata su bacche di sterpi (pag.11).
E la programmaticità è anche e soprattutto risoluzione alchemica; infatti non si usa il verbo fare, ma rifare: fare nuovamente. E il nuovo è il minimale da esso stesso recato: tizzi con crepuscolo; sterpi; conoide; delirio; occhio querulo, bulino; catena…
Si è nel dominio del dipanarsi di un crescendo drammatico, di un attenuarsi lento del gesto massimo ed un innalzarsi obliquo, e infine folgorante, del gesto estremo, minimale in senso crimino- genetico; ossia minimo:
l’oppressione del respiro che volge al freddo (pag.11)
Delimitato da un suono, come fulmine conoide (pag.12).
Lo scenario unitario (lento) svela il dramma del particolare: La mia claudicante vicina stropicciata (pag.13); e dell’universale rintracciabile in più di una lirica, e riconducibile sempre all’io cogitante del poeta, che non dimentica il canto, ma non può (pur volendo) compiutamente musicarlo.
L’universo è tavola geometrica, ma anche big bang; ed è all’opposto dei formicolii e del calare lento d’un timbro artistico, che cede sotto sferzate d’usurpazione (che cela dietro la conoscenza).
Il poeta scrive, si esprime, eppure trema all’idea, e per l’idea, della possibile perdita- sconfitta dell’espressione. La voce manca in più punti; e non si rintraccia luogo di riscoperta:
Ah, la mia voce (pag.42);
Delle utopie tradite/E una penna un abito senza memoria (pag.40);
Lacero i miei codicilli (pag.38);
QUI SUFFICIT MIA GOLA- PAROLA AL DIRE (pag.36);
AL LOGOS MI AVVICINA COSTANTE (pag. 32);
QUI IL TACERE RIMBOMBA (pag.26).
Pare esserci un andare e un tornare, un cerchio di grecità da seguire e, in contemporanea, sullo stesso schermo (e scherno) un ritorno ai primordi della gnosis, composta da ciò che “secondo chi vive e scrive” debba essere il verso.
Perciò, quella dissonanza e brutalità annunciate si rispecificheranno ancora e sempre nella nudità promessa (vale a dire: nella mancanza di veli):
Nuda poesia. Ti inciderò ignuda e violenta/Altera come il giunco alla piena/Audace come la chiglia in tormenta/Che emerge con escoriazioni dal flutto/E l’oppressione del respiro che volge al freddo/Ma pure il furore e l’onore:/Te le ho cantate, tempo.
E rileggiamo il tutto, adesso, pieno d’innumerevoli altre suggestioni, che portano la fruibilità ad personam di un’opera difficilmente ripetibile e contra res naturæ, che è delirante trasporto emotivo per chi ha da pensare: Bevo alla catena […] Del bruciato deserto (pagg.17-19).
Grazie, Fortuna! È con fortuna, che accolgo la lettura di un libro così denso e studiato, così rovente; dal sapore classico, e che pure relega il classicismo alla nota appena diafana, da nascondersi subito nello strepitio di suoni e immagini da riverenza alle verità infinite, cui l’anima cogitante debba prestare ascolto.
Questo lavoro profonde osservazione, ma mai osservanza.
I libri di storia ne parlano, ma dall’esterno. Io preferisco raccontarvi quello che ho pensato e sentito – cosa che non fanno i libri di storia – e descrivere accuratamente i risvolti umani della vicenda – cosa che non fanno le leggende –. [1]
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE.
Fortuna Della Porta (Nocera Inferiore, Salerno), poetessa italiana.
Fortuna Della Porta “Diario di minima quiete”, Lietocolle Libri, Falloppio (Como), 2005. Collana editoriale Erato
L’edizione esaminata ha una bella fattura di stampo “vecchia tipografia” ed è corredata da una prefazione d’indubbio interesse e fine scrittura, stilata da Giorgio Linguaglossa. Il pregevole libro s’avverte essere stato impresso in tiratura limitata.
[1] Da: David Dvorkin “I figli della montagna lucente”, Edizioni Sonzogno Fantascienza, Milano, 1978; pag.7.