Questo libro di Antonio Pascale è stato recensito un po’ ovunque sulle pagine culturali di quotidiani e riviste. Ed è vicino dall’essere considerato romanzo cult. Se non lo è già.
La scrittura di Pascale è particolare e difficilmente inquadrabile. Dice bene Alfonso Berardinelli quando sostiene che “qualunque cosa racconti, Pascale è credibile, è divertente, smonta e rimonta la realtà davanti ai nostri occhi portando ogni elemento e dettaglio al più alto grado di evidenza.”
E anche qui, anche in questo S’è fatta ora (fresco vincitore dell’edizione 2007 del premio letterario Brancati-Zafferana), Pascale dà prova di abilità nella sua arte di composizione e scomposizione narrativa, rinunciando – almeno in parte – alla costruzione di un plot tradizionale, basato su una trama lineare che si sviluppa in maniera consequenziale e sul rigido rispetto della cronologia, e dando spazio a una scrittura che pesca molto nel pensiero, oltre che nell’accaduto. E il pensiero di Vincenzo Postiglione, protagonista del libro e alter ego dell’autore, si comprime e poi esplode, a fasi alterne, in cinque momenti fondamentali di un’esistenza in corso: la giovinezza, la politica, l’amore, il rapporto con la scienza, il confronto con il dolore.
S’è fatta ora è un’esclamazione ricorrente del padre di Vincenzo, la cui origine, nei ricordi di Vincenzo bambino, risale a un pomeriggio come tanti degli anni Settanta (era il 23 ottobre del 1975), quando il papà – seduto sulla panchina di un parco – pronuncia la fatidica frase.
Quel S’è fatta ora segna la fine del tempo dei giochi e l’ora di tornare a casa, ma segna anche un’inadeguatezza di fondo e il disagio paterno nell’accudire la prole.
“Non che non amassero i figli. È che noi figli eravamo un accidente capitato troppo presto. Eravamo arrivati poco prima dei loro trent’anni, quasi a farlo apposta. (…) A questi padri, seduti sulle panchine dei parchi giochi, toccava non solo rinunciare allo stadio e compensare il tutto ascoltando Tutto il calcio minuto per minuto con l’auricolare, ma dovevano pure badare a noi, figli cagionevoli.”
E il bambino cresce percependo, forse, quel senso di inadeguatezza sulla propria pelle e trasmutandolo in ansia che rischia di degenerare in ipocondria cronica.
“(…) erano le cinque del mattino, l’ora, secondo il dizionario Larousse, nella quale più spesso le persone muoiono. Prima dell’alba, così stava scritto. L’ora più fredda del giorno, durante la quale si misurano le temperature minime.”
Da ragazzo, Vincenzo, frequenta compagnie discutibili, almeno fin quando non impatta in Shakespeare; fin quando la voce di un attore di teatro, nel mezzo dei fischi di una scolaresca inconsapevole e casinista, dichiara: “Ragazzi, lo so che non v’hanno mai insegnato ad amare il teatro ma, ve lo dico col cuore, non fate gli stupidi.”
Quella frase, semplice, lineare, apparentemente banale entra nello spirito del giovane e contribuisce a ribaltargli l’esistenza. È da quel momento che Vincenzo si avvicina alla lettura e alla scrittura.
S’è fatta ora diventa occasione per raccontare l’uomo e la società meridionali in modo nuovo, additandone le contraddizioni con un’alternanza di malinconia e ilarità, di j’accuse e rassegnazione.
Da questo punto di vista riscontriamo nel libro di Pascale un’ascendenza fantozziana che da un lato affonda le sue radici negli irrisolti conflitti socioesistenziali di matrice kafkiana e dall’altro si mescola con la tradizione della narrativa campana. Ne viene fuori un’opera, un romanzo di formazione, che ha una peculiarità tutta sua.
E poi i personaggi di Pascale sono vivi, veri. Si ha l’impressione di percepirne l’alito, di ascoltarne le cadenze e gli accenti del parlato. E ciascun personaggio è tanto più vero quanto più conflittuale è il rapporto che vive con gli altri. È un crogiuolo di rapporti umani e interscambi, questo libro. Rapporti a volte misurati, altre volte spontanei, altre volte ancora basati su un sospetto pregiudiziale (“Che brutta cosa a gente“, recita sempre il padre di Vincenzo), ma che diventano reciprocamente imprescindibili. Così come l’amore diventa imprescindibile dal dolore. “L’amore è questo, purtroppo. Uno che fugge (da un dolore) e l’altro che gli dice di aspettare (per affrontarlo c’è tempo).”
E tutto questo, l’autore, lo rende sulla pagina con penna lieve. Ma è una levità incisiva, la sua. Che lascia il segno. E l’effetto che genera è paragonabile a quello percepito dopo aver assaporato un vinello che in apparenza pare leggero e che solo dopo genera effetti inebrianti.
Minimumfax, Nichel, 2006
pag. 126, euro 9,50
Antonio Pascale, nato a Napoli nel 1966 ma cresciuto a Caserta, ha pubblicato La città distratta (l’ancora del mediterraneo 1999, Einaudi 2001), un affresco della vita nella città di Caserta, con cui ha vinto l’edizione 2000 del premio Sandro Onofri; La manutenzione degli affetti (Einaudi 2003), con cui ha vinto molti premi letterari e Passa la bellezza (Einaudi 2005). Ha curato l’edizione 2005 dell’antologia Best Off, un’antologia dei migliori testi pubblicati su riviste letterarie italiane (minimum fax 2005). Il racconto “Io sarò stato” fa parte dell’antologia La qualità dell’aria (minimum fax 2004). Con S’è fatta ora (minimum fax 2006) ha vinto le edizioni 2007 del Premio Letterario Nazionale Bergamo e del Premio Letterario Nazionale Brancati-Zafferana.