Il mondo chiuso di Accattone e più in generale del sottoproletariato romano sembra obbedire ad un fatalismo dal quale è impossibile uscire.
Un ambiente (quello sottoproletario) che si sviluppa ai margini della vita operaia e di quella borghese. Un mondo a parte fatto di strade polverose, catapecchie, palazzoni popolari che si innalzano dal nulla e dalla sporcizia. Un mondo fatto da uomini che ancora conoscono cosa significhi la parola fame. Un mondo dal quale il lavoro viene bandito perché inteso come sfruttamento e come costrizione, ma dove quegli stessi uomini trovano il loro mantenimento attraverso il furto o la prostituzione. Fatalismo anche per le donne, costrette a prostituirsi per mantenere i loro uomini o a crescere i figli di quelli che sono finiti in galera o sono morti. Un mondo che sembra talmente basso e infame e rozzo da spaventarci.
Ma è qui che arriva Pasolini. E attraverso le sue immagini non vediamo più solo la miseria che deriva da questo mondo ma anche il forte vitalismo e l’autenticità che queste persone trasmettono. Perché se è vero che nella società borghese sono il benessere e le buone maniere a connotare una persona è anche vero che nella maggior parte della volte queste risultano essere una semplice facciata, costruita su misura, per abbellire la persona stessa. Una facciata che poi nel corso degli anni ha conosciuto le sue mode, i suoi stereotipi, i suoi modi di consumo fino a portare ad una omologazione (tanto temuta da Pasolini) che ha finito per uccidere le istanze più vere che ogni persona si porta dentro.
Ma qui nelle borgate la vita è ancora legata all’istinto, alla frode, alla battuta sempre pronta, al cazzeggio, al dolore, all’infamia. Tutte componenti di una vita che conosce le sue regole per la sopravvivenza, regole che non promettono paradisi o miglioramenti, ma che fanno fare i conti con la brutalità della vita stessa, del lavoro, del piatto di minestra da mangiare la sera
Pasolini vuole bene ai suoi personaggi, non li giudica, ce li mostra in tutta la loro interezza, senza troppi fronzoli retorici ma neanche eccedendo in uno scarno realismo. Gli accostamenti tra la musica sacra (Bach) e una vita così profana portano alla nascita di un profondo senso di pietà nel cuore dello spettatore. Pietà per le molte ingiustizie, per i torti subiti, per un’esistenza che si mischia perennemente alla miseria, un’esistenza dove i vinti e gli sfruttati non hanno possibilità di riscatto e se la cercano (lavorando) saranno solo degli schiavi.
Accattone (Franco Citti) rappresenta proprio tutte queste impressioni fino a qui dette. Pappone, sbruffone, bugiardo, non si fa problemi a rubare la catenina al figlio o a condurre una nuova ragazza sulla via della prostituzione. In perenne scazzo con tutti, piagnone, frega i suoi amici per una piatto di pasta. Eppure, verso la fine del film, qualcosa sembra scattare in lui, forse un senso di rivalsa. Prova a lavorare ma il lavoro non fa per lui, quindi non gli rimane che andare a rubare.
Durante la notte fa un sogno (ci ricorda Bergman, Il posto delle fragole) pieno di simbolismi di morte, un sogno molto triste con tutti gli amici ad un funerale (il suo) e il becchino che gli scava la fossa all’ombra e Accattone che chiede di mettergliela al sole, come a dire che neanche da morti i poveracci hanno diritto ad un privilegio.
Poi Accattone con altri compari va in giro per Roma alla ricerca di qualcosa da rubare, fregano alcuni insaccati, vengono scoperti. Accattone scappa, prende una moto e fugge. Poi uno schianto, i suoi compari e la polizia girano un angolo e Accattone è steso per terra.
Sorride – Adesso si che sto bene.