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Fame – Knut Hamsun

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SOLITUDINE, NEVROSI E GENIALITÀ.

 

Non avevo dolori, la mia fame li aveva attutiti; sentivo invece un vuoto piacevole, puro dal contatto di tutto ciò che mi circondava, ed ero felice di essere invisibile a tutti. Misi le gambe sulla panchina e con le spalle mi appoggiai, così potevo sentire meglio tutta la voluttà dell’isolamento. Non una nuvola nell’anima mia, né un senso di fastidio, non un desiderio o una voglia. Ero con gli occhi aperti in una condizione di completo distacco da me stesso, mi sentivo deliziosamente solo e lontano” (Knut Hamsun, “Fame”, parte seconda).

 

L’archetipo della letteratura egoica, egoarchica ed egocosmica del Novecento si può facilmente riconoscere in questo romanzo del norvegese Knut Hamsun: “Fame” è l’ammissione della sua primitiva (irrisolta o irrimediabile?) fragilità e la registrazione delle sue prime, incerte e traballanti vicende esistenziali nell’allora Cristiania. Narrato in prima persona, il libro sintetizza le esperienze del tempo in cui l’artista “faceva la fame e vagabondava” per una città che “nessuno abbandonava senza portarne le stigmate“: è, in un certo senso, il racconto di questi segni che Hamsun trascinerà via con sé alla partenza, relitti d’una formazione atipica e dolorosa, reliquie di un isolamento e di una condizione di perpetua incomprensione (incomunicabilità) che non abbandoneranno mai l’autore.

 

Giovanissimo, nevrastenico e febbrile, l’io narrante vive patendo una sofferenza interiore che va nutrendosi di ogni sua energia, intaccando e contaminando ogni suo pensiero e inficiando i suoi scritti: scritti che costituiscono l’unica fonte di (precario) sostentamento, offerti con distratta angoscia a redazioni che sembrano vagliarli con abulico compiacimento.

Lacerato e abbattuto dalle troppe promesse ricevute e dalle troppe speranze tradite (“i tanti rifiuti, le promesse dette a mezza voce, i tanti no, le speranze illusorie di cui m’ero per tanto tempo nutrito, i nuovi tentativi, che ogni volta si dimostravano vani, avevano fiaccato il mio coraggio“), deluso dalla sua incapacità di integrarsi in altri ambiti lavorativi, il narratore è un io che cerca conferme e un netto e irrefutabile riconoscimento del proprio ruolo da parte del sistema. In assenza di un’approvazione e di una “identificazione” di questo genere, sembra godere nello scavarsi dentro, sprofondando in se stesso, tartassandosi, esasperato da un progressivo massacro del proprio equilibrio e della propria salute. A un punto, sembra quasi che niente più possa evitare l’ammissione della dannazione: il narratore si ritrova a scrivere i suoi articoli nei cimiteri, già sedotto dalla morte o sul punto di vagheggiarla come rifugio; o, ancora, può sembrare dedito ad adorarla (è una contemplazione?) come fonte di maggiore e più estenuato attaccamento alla vita.

 

Il romanzo è strutturato in quattro parti: il lasso di tempo narrato corrisponde a due stagioni, l’autunno (principio della storia) e l’inverno. Paesaggio e ambiente risultano in sostanziale consonanza con gli stati d’animo del protagonista. Nel momento dell’epilogo, adottata la felice soluzione dell’imbarco (alla ventura), a Cristiania “le finestre splendevano nitide da tutte le case“: il giovane scrittore si è liberato dalla prigionia del niente, non sente più fame e si è riscattato dal passato.

 

Memorabili le passeggiate notturne del protagonista: Knut incarna uno stato d’animo di iper-ricettività e di autentica visionarietà, confonde, splendido, immaginazione e realtà; e il sogno pare dominare ogni incontro e ogni sentimento, ogni parola si tinteggia d’onirico e di inconsueto. Il ragazzo ha pochissimi denari, e quando ne ha li sperpera; a volte perché condizionato dalla sua grande umanità, e dunque prodigo nella carità e negli atti di misericordia, a volte perché vittima di uno stato confusionale eccezionale: placa la fame per poi rigettare, convulso e nervoso; non cammina, ma si trascina per le strade; non dorme, s’assopisce in un nuovo e irregolare torpore.

Impegna o vende tutto ciò che ha: si è liberato del panciotto, cercherà di liberarsi perfino dei bottoni e d’una vecchia coperta. L’io si sta liberando dalla schiavitù del possesso delle cose: Knut ha soltanto se stesso, la sua fantasia e la sua creatività. Avrà anche l’occasione di vivere uno stravagante e passionale incontro amoroso: nella sottile frontiera che divide la pazzia dalla lucidità, in un momento in cui nulla riesce a definirsi per ciò che è e ogni istante viene percepito come torrente di fuoco: Knut crepita e zampilla di vita, sublime e imperfetto ed eterno. E battezza una donna che forse non ha un nome; perché è compito di chi crea nominare, perché chiamare per nome una persona può significare non conoscenza, ma dominio. È un amore di carta, adorazione e incanto: è un sogno che s’impadronisce della realtà e la scaraventa via.

 

Impeccabile e seducente la narrazione; vivace e magmatica la lingua letteraria; straordinaria l’introspezione del protagonista, contraddittorie e contrastanti le sue relazioni con un’alterità che converge sino a confondersi nel titanico ego di Knut, fino ad apparire, non episodicamente, sua libera e occasionale invenzione.

Un autentico capolavoro, semplicemente irripetibile. Il Novecento tutto è debitore al genio norvegese: nessuna eccezione. Questo libro è una sorgente inestinguibile di vita, di stile, di letteratura.

 

Scrivo come invasato e riempio una pagina dopo l’altra senza un momento di pausa. I pensieri si formano così improvvisi dentro di me e continuano a scorrere così abbondanti che dimentico una quantità di particolari e non riesco a scrivere con sufficiente rapidità sebbene lavori con tutte le forze. Continuano a venirmi in mente immagini, sono pieno del mio soggetto e ogni parola che scrivo mi viene proprio messa sulle labbra” (Knut Hamsun, “Fame”, parte prima).

 

EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE

Knut Pedersen, alias Hamsun (Garmostræde, presso Lom, Gulbrandsdal, Norvegia 1859 – Nørholm, Grimstad, 1952), romanziere, poeta e drammaturgo norvegese, autodidatta. Premio Nobel per la Letteratura 1920.

 

Hamsun visse sino in fondo l’avventura del ribelle – scrive Magrische si abbandona al respiro vitale, negando qualsiasi valore aldilà della vita stessa e scoprendo perciò alla fine il suo irrazionale nichilismo, anche se mitigò tale vitalismo con una gentile e perduta poesia delle lontananze dell’anima. Volle sottrarsi all’anonima pressione della società moderna e finì per diventare l’apologeta del suo volto peggiore: passò dalle simpatie anarchico-socialiste della sua gioventù di proletario disoccupato, negli ultimi anni del secolo scorso, al collaborazionismo con l’occupatore nazista della sua Norvegia, che trascinò nel fango la sua tardissima e indomita vecchiezza“.

 

Knut Hamsun, “Fame”, Mondadori, Milano, 1988.

Traduzione di Clemente Giannini.

 

Il primo nucleo del romanzo, “Sult”, fu pubblicato sulla rivista danese “Ny Jord”, anonimo, nel 1888. Prima edizione: “Sult”, Copenaghen, 1890.

Prima edizione italiana: “Fame”, Napoli, 1921.

 

Il libro è strutturato in quattro parti.

 

Approfondimento in rete:

Pegasos.

Nordland.

Iperborea.

Odin.

Lars Frode Larsen.

Knut Hamsun Online.

 

Bibliografia critica consigliata: fondamentali le pagine di Claudio Magris: “Fra le crepe dell’io”, in “L’anello di Clarisse”, Einaudi, Torino, 1984.

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