Carne e vagiti, poche parole. Come nel primo capitolo di questa trilogia.
In Medea e figli compaiono loro con il corpo da uomo, nudi, e il volto-maschera. Bebè di lattice che crescono, giocano, lottano e soffrono sotto lo sguardo vigile di mamma Medea e papà Giasone. La lingua è un gioco simile alle filastrocche che i bambini cantano a scuola, composto dalle lettere dell’alfabeto greco. Niente di più, come se non ci fosse possibilità di parola e di articolazione in una tragedia inspiegabile alla ragione umana: c’è semplicemente suono e ritmo che scandisce la crescita dei due bambini.
Ritorna il letto, campo di battaglia tra uomo e donna, e stavolta due lettini per questi figli che come la madre sono prima di tutto cuccioli d’animale.
Tutto scivola inesorabilmente verso l’atto finale e quello che non è spiegabile con la ragione Latella lo lascia realizzarsi nella carne. Fino ad ora ogni gesto, ogni suono è stato sopra le righe, a tratti bestiale, ma qui, lo spettatore, nemmeno si accorge che è stato compiuto il dramma. Rimane solo una madre ferita che poco prima battendosi il petto nudo ha urlato le parole madre e donna e ha scelto quest’ultima. Giasone rimane sullo sfondo inerte, non-uomo, semplice spettatore dietro i letti ora diventati prigione.
Medea e figli non ha la forza visionaria di Medea e Giasone e a tratti si perde il filo, si arranca ma la scelta di far scivolare nel silenzio l’infanticidio rimane impressa nel cuore.
Il merito è di non cercare spiegazioni ma di voler semplicemente vivere ciò che è e ciò che è stato. Così Medea e così il pubblico.
(domenica 20/5 al Teatro Nuovo di Napoli tutta la trilogia a partire dalle ore 18)