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Elogio della bicicletta – Ivan Illich

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Ci ha da “poco” lasciati Ivan Illich (1926-2002) e con lui se n’è andato un uomo dal grande coraggio, capace di affrontare vis-à-vis il comune modo di pensare, di sovvertirlo, sezionarlo, metterne in luce gli aspetti più controversi e ridicoli. Con  tesi atrocemente anticipatrici, a volte agghiaccianti, Illich fu un profeta, un profeta trascurato, un intellettuale nel senso più nobile che si possa attribuire a questo termine. Non c’entrano cartomanti e veggenti, fu profeta, così come l’uomo che sa leggere con profondità, con estrema lucidità, il presente, l’attuale, colui che sa evidenziare la Verità tra gli sguardi della massa ignorante.

Il filosofo austriaco fu uno di questi pochi (ma la scarsità in questo ambito è una sensazione che accompagna i contemporanei di ogni epoca), un uomo capace di librarsi in volo e guardare le cose dall’alto, al di sopra dei muri che fanno ombra ai nostri occhi, libero pensatore che non abbandonò mai il proprio posto di battaglia, il ruolo critico di cui si sente grande bisogno proprio ora, in un periodo in cui la critica sembra essere stata neutralizzata e naturalizzata, resa innocua, ben accetta con un sorriso, liquidata frivolamente. Nel mattino del nuovo millennio, le sue parole brillano ancora del gusto per l’anticonformismo genuino, per la severa ribellione ad un ideologia insolente, affermano con argomenti sconvolgenti la loro direzione ostinata e contraria .

Questo “Elogio della bicicletta“, dietro ad un titolo singolare, nasconde un saggio dato alle stampe nel ‘73, un lungo articolo molto attuale sui problemi della crisi energetica e dei trasporti e, soprattutto, sull’incapacità dell’uomo di vivere liberamente e bastare a se stesso. Un esempio di contro-ricerca in cui, con un’arguzia notevole, scelse di affrontare, allora, subito dopo il famoso Rapporto Burtland, un saggio sui problemi sociali generati da un sistema di trasporti radicalmente monopolizzato dall’autovettura e da una tecnocrazia che  ormai pervadeva e preformava ogni antro sociale.

Utilizzando un metodo un po’ DeCrescenziano, immaginate un mondo pulito, sano, dove ognuno abbia a portata di mano la propria panetteria, il proprio posto di lavoro, la propria università, il proprio ospedale; dove ognuno si muova sulle brevi percorrenze in bicicletta e per i lunghi viaggi abbia a disposizione una rete capillare di trasporti pubblici, possibilmente su rotaia.

Ecco, adesso, pensate al mio tristo paesino steso lungo una brulicante direttrice di percorrenza asfaltata, un boa di catrame, che negli anni ha ingrossato le sue viscide membra, ha gonfiato le sue spire, inghiottito sempre maggiori quantità di berline, scafi, carlinghe di ogni genere. Se un tempo osservare il tramonto dalla finestra aveva in sé qualcosa di magico e rituale, ora, guardare il sole che affonda, pare una chiassosa procedura di morte, veleno, rumore, e quando risollevo i miei nudi avambracci, sul davanzale, la pelle s’è fatta grigia come la strada che davanti fluisce costante. E se poi d’estate l’arsura ci obbliga a spalancare le veneziane, ecco che per parlare tra noi usiamo l’amplificatore, il megafono o il walky-talky: solo questi appositi marchingegni garantiscono la comunicazione a noi esseri viventi  negli habitat del rumore.

Davanti a tali constatazioni, con argomenti ben più raffinati, il pensatore austriaco ci interroga: perché abbiamo scelto l’auto, l’ingorgo, l’inefficienza? Siamo sicuri che sia stata una scelta volontaria? L’abbiamo proprio voluta noi questa auto?? E non sarebbe meglio ripensare al nostro modo di spostarci?

La tesi a cui ci vuol condurre Illich è che l’industria, nella sua vorace espansione in ogni ambito della vita, abbia monopolizzato anche il modo di muoversi dell’uomo nel suo ambiente, abbia imposto i suoi dictat – un trasporto individuale e motorizzato – scompigliando gli equilibri di un atavica unione tra l’uomo e la propria terra, con l’unico risultato di innalzare smisuratamente i costi energetici, sociali e ambientali del trasporto e preformare spazi sociali ad immagine e somiglianza del motore (grigi e rumorosi), non tenendo conto delle proporzioni umane. La crescente quantità di energia inghiottita dal metabolismo sociale, crea non altro che distorsioni e differenze, realizza una vera e propria società in classi, fondate sulle proprie possibilità energetiche, trasforma le persone in “schiavi energetici”. Se vogliamo ottenere rapporti sociali contraddistinti da alti livelli di equità l’unica scelta possibile è una tecnologia a basso livello energetico, una strategia alla portata di ogni nazione. La bicicletta, contrapposta all’automobile, diventa quindi protagonista e simbolo di uno stile di vita che rifiuta il concetto di crisi energetica, una crisi che deriva da un consumo pro capite senza limiti. Illich dimostra attraverso un’acuta analisi che “gli uomini liberi possono percorrere la strada che conduce a relazioni sociali produttive solo alla velocità della bicicletta”.

(per una rilettura più recente dello stesso problema: Bauman Z., “Povertà localizzata, ricchezza globale” in “La solitudine del cittadino globale”, (Intersezioni) Il Mulino, Bologna, 2003).

Lungi dall’essere una nuova Repubblica, una nuova Città Ideale, un nuovo sogno ad occhi aperti, questa di Illich è soprattutto una critica al presente, un sottolineare all’uomo la propria incoerenza, la propria profonda finitudine. Le macchine, l’automobile, in tutto il loro idillio di tecnica e progresso, con le loro promesse venture, di libertà, velocità, potenza e prestigio, ci hanno lasciato al contrario nell’ingorgo funesto, nel diabolico rebus del parcheggio, insozzati di fumo ai bordi delle strade (passano le macchine a milioni e i miei calzoni adesso stanno in piedi anche da soli… canta un poeta contemporaneo..). Altro che “Il sorpasso” di Gassman, oggi l’auto è la pantomima dell’uomo moderno, sul suo SUV fiammante, fermo al semaforo dietro ad una minuscola e scolorita Centoventisette.

Se questo pamphlet titola “elogio della bicicletta”, quel che ne emerge è una “critica all’automobile e alla società industriale”, alla fatuità con cui ci siamo aggiogati all’auto: velocità elevate e motori sempre più potenti, sono fonte di pericoli maggiori, di spazi brutalizzati e sempre meno vivibili. Lo spazio sociale sotto l’orda degli automobilisti viene progressivamente disgregato, snaturato: tutti coloro che non hanno, e non hanno avuto, la possibilità di muoversi nella protezione di un abitacolo, vengono confinati entro isole pedonali, nelle riserve ecologiche della civiltà conviviale, in aree protette per specie in via d’estinzione, Zoo, dove la gente, come il grande quadrupede africano, ancora pascola e passeggia.

Dimostrare quanto andiamo dicendo è fin troppo semplice, chiunque, dotato di piedi o di velocipede, può percorrere in solitudine le roboanti strade del traffico e sentirsi, in breve, fuori dal gruppo, solo contro tutti, contro un mondo a motore più forte di lui e del suo istinto naturale.

E’ questa l’auto in tutti i suoi aspetti perversi: “un mezzo di trasporto non funzionale, che ha promesso velocità, superamento dell’orologio e dei luoghi e ha creato limiti di ogni genere, di tempo e di spazio, ingorghi, fumi, assenza di parcheggi […] ha svilito, con le sue infrastrutture, il paesaggio e gli ambienti di vita“, sottolinea Illich. Un canto del cigno, questo, una delle ultime voci della modernità ad intonare l’assalto ad una opportunità sbagliata, l’automobile, che è stata imposta come unica soluzione, come credo inviolabile, a spese di tutti e col guadagno dei soliti noti: case dell’automobile, del petrolio e politici arraffoni.

Come ricorda l’antropologo Franco La Cecla nella sua critica al testo, datata 2006: oggi cercare alternative all’auto rischia nel migliore dei casi di provocare una grossa risata, di vedere la critica smontata da una presunta assenza di realismo, un realismo che pare configurarsi come l’inevitabile deterioramento dell’Uomo e del mondo, come l’abisso, come il tramonto. La critica di La Cecla, assume i contorni di una arguta invettiva, di un astuto insulto al popolo dell’automobile, ma manca di chiedersi il perché. Perché si reitera l’errore dell’automobile? Perché anche ora che il petrolio sta finendo(ci)? Perché perseveriamo nello sbaglio, quando sappiamo che il mutamento climatico dipende soprattutto da noi? Siamo succubi di chissà quale “Grande Fratello”? Della “sovrastruttura” marxiana? Abbiamo a che fare con un nuovo Leviatano malefico?

Le ragioni, di par mio, vanno ricercate nella psicologia sociale: angoscia, frustrazione, senso di ansia e inadeguatezza, serpeggiano in questo mondo sempre più spinto e discriminante, si riversano e si scaricano ancora su di lei, sull’automobile, sul suo clacson, sul suo acceleratore, sul freno a mano, sul desiderio di possederla, fanno dell’auto la nebulosa catalizzante di tutte le tensioni e gli istinti carnali dell’Uomo. L’automobile, oggi, non può più essere considerata una scelta imposta, l’automobile è una scelta volontaria, un reiterato peccato dell’uomo occidentale – ancora dopo cento lunghi anni – simile a quello dipinto, da Hesse, ne “L’ultima estate di Klingsor“: il puerile, bramoso, sfrenato, uomo occidentale, perennemente al tramonto, avvampato dalle sue manie e dalle sue pulsioni, proteso nell’abisso: anelante rovine e abisso come ultima dimostrazione della propria infantile potenza.

Culto della tecnica? No, assolutamente: bisogno intrinseco, segreto, razionalizzato; fine ultimo per potersi mostrare agli altri con lo scudo della propria carrozzeria, per poter attraversare la miseria delle periferie nella pace dell’impianto Bose, per celare la propria insicurezza e come in un fertile rito pagano, in una cannibalizzazione Arawak, assumere le qualità del proprio acquisto. Un misticismo del motore per soddisfare velleità trascendentali, riflesso condizionato del vivere avulso, del rifiuto al contatto: della macchina oggi si ha bisogno per rifuggire la paura del confronto col diverso, dell’essere diversi e potenzialmente soli. Ecco cos’è la macchina: è la cupidigia dell’Io vuoto, l’impotenza davanti a forme sociali che non hanno più nulla di umano e l’incapacità, la paura, di un ritorno ad una convivialità a basso consumo energetico. Basta pensare al giorno in cui un ineludibile, quanto inutile, blocco del traffico ci obbliga ad usare i mezzi pubblici; ci riempiamo di giornali, cruciverba, sms e senza proferir parola, indossando gli auricolari, escludiamo il mondo dalla “proprietà privata”, nostra zona riservata, che, col tempo, assume sempre più le parvenze di un autismo cronico.

(E’ possibile che su queste riflessioni gravi l’ombra della mia collocazione geografica, ndr)

Infine, sarebbe utile fare un ulteriore considerazione: nel 1973 il rapporto Burtland inseriva nei glossari scientifici il concetto di sviluppo sostenibile, Illich, solo pochi mesi dopo, andò oltre. Le sue parole invitavano a ritornare alla convivialità, ad un mondo ridimensionato, plasmato nuovamente in sembianze antropomorfiche. Ecco la vera profezia: oggi che lo sviluppo sostenibile inizia ad essere considerato da più parti, oggi che fioriscono certificazioni etiche ed ambientali, associazioni per la tutela del patrimonio artistico e naturale, per i cibi tradizionali, per le specie in pericolo, in questo momento storico in cui l’economia sta voltandosi a guardare l’ambiente tumefatto che s’è lasciata alle spalle, alle avanguardie tocca andare oltre, sovvertire anche questo concetto, sostituire  il termine Sviluppo con il termine Decrescita. A noi toccherà mostrare che la vera strada non è la continua espansione ma, come indicato da Illich, l’abbandono di quote di energia pro-capite contro-producenti, il restringere con il massimo impegno una macchia già troppo estesa sulla crosta della terra; diminuire, proporzionare, ridistribuire capitali e vita. Anche se al primo impatto può sembrare scomoda e fastidiosa, questa è ragionevolmente la via per un domani migliore.

E se così non sarà, se il mondo rimarrà convinto che far la coda per rilassarsi la domenica è bello, citando tristemente i versi di un poeta contemporaneo, domani arriverà lo stesso…

 

Alcune citazioni

 

«Le biciclette non sono soltanto termodinamicamente efficienti, costano anche poco. Avendo un salario assai inferiore, il cinese per comprarsi una bicicletta che gli durerà a lungo spende una frazione delle ore di lavoro che un americano dedica all’acquisto di un auto destinata ad invecchiare rapidamente.»

 

«Nel sistema basato sulla bicicletta, occorrono strade apposite solo in certi punti di traffico denso … La bicicletta ha ampliato il raggio di azione dell’uomo senza smistarlo su strade non percorribili a piedi… dove egli non può inforcare la sua bici, può di solito spingerla.»

 

«Inoltre, la bicicletta richiede poco spazio. Se ne possono parcheggiare diciotto al posto di un’auto, se ne possono spostare trenta nello spazio divorato da un’unica vettura.»

 

«Per portare quarantamila persone al di là di un ponte in un’ora, ci vogliono tre corsie se si usano i treni, quattro se ci si serve di autobus, dodici se si ricorre alle automobili, e solo due se le quarantamila persone vanno da un capo all’altro pedalando in bicicletta.»

 

 

Edizione esaminata e brevi note

 

Ivan Illich (1926-2002) è stato un filosofo, storico, antropologo e teologo tra i più eretici e interessanti del ‘900. Tra le sue opere, tradotte in italiano: Descolarizzare la società (Mondadori 1972), Il genere e il sesso. Per una critica storica dell’uguaglianza (Mondadori 1984), Nemesi medica. L’espropriazione della salute (Bruno Mondadori 2004).
Illich Ivan, Elogio della bicicletta (con un saggio di Franco La Cecla), Bollati Boringhieri 2006

Collana: Incipit

Pagine:95

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