È diventato un film il riuscitissimo e controverso romanzo di Arthur Golden. Pubblicato nel 1997, è stato tradotto in 32 lingue ed ha raggiunto quota quattro milioni di copie solo per la tiratura in lingua inglese, stazionando nella lista dei best seller del New York Times per ben 58 settimane.
Si tratta di un’opera davvero avvincente che cattura la fantasia di noi occidentali introducendo il lettore nel mondo dorato, artificiale e rarefatto delle Geishe giapponesi.
Ma Oriente e Occidente, si sa, difficilmente si possono conciliare. Trattandosi di due realtà storiche e culturali talmente differenti da risultare praticamente agli antipodi estremi della scala di comparazione tra valori e significati, viene da domandarsi: può mai un occidentale e per di più uomo, narrare efficacemente e con autenticità di un mondo ormai estinto, tipicamente giapponese, esclusivamente nipponico, e per di più rigorosamente femminile?
La risposta non è certo facile da fornire, per tutta una serie di profonde motivazioni.
Innanzitutto, e questo va detto, Arthur Golden, pur essendo al suo primo romanzo, non è certo un tipo qualsiasi. Nato e cresciuto a Chattanooga nel Tennessee, si è laureato in Storia dell’Arte all’Università di Harvard nel 1978, specializzandosi in seguito in arte giapponese e conseguendo anche un Master presso la Columbia University in Storia del Giappone.
Questo libro non è nato a caso, ma è scaturito da una determinazione precisa ed è costato all’autore quasi dieci anni di preparazione, storica e documentata. Golden è considerato a tutti gli effetti un vero esperto orientalista, si è trasferito per qualche tempo a Pechino e parla correntemente anche il cinese mandarino.
Tuttavia, pur avendo fatto centro con un incredibile successo di pubblico al suo primo romanzo, Arthur Golden è, e rimane, un uomo, e un uomo occidentale, come cultura, formazione e mentalità.
E questo è decisamente un grave handicap per chi vuole compenetrarsi nella realtà nipponica, soprattutto se decide di narrare di un mondo artificiale che oramai attiene quasi completamente al passato.
Non che Golden abbia sbagliato qualcosa nella ricostruzione storica, anzi, tanto più che oltre a documentarsi ha anche provveduto ad approfondire le sue cognizioni in materia parlando appositamente con una vera e autentica Geisha, di cui ha raccolto le memorie.
Peccato però che sia proprio lei, la Geisha in incognito, e con lei il mondo nipponico in generale, a scagliarsi contro il suo romanzo e a giudicarlo falso, fazioso e deviante.
Un’accusa grave, anzi gravissima, di inattendibilità e incompetenza.
Ma fermiamoci un attimo e distinguiamo bene le cose.
Cos’è in realtà Memorie di una Geisha? Ha forse la presunzione di essere un trattato completo ed esaustivo sull’argomento? Un saggio magari? Un documentario serio e circostanziato con pretese culturali, sociali e intellettuali?
Niente affatto. Memorie di una Geisha è semplicemente un libro, un romanzo storico se vogliamo, una narrazione ben documentata magari, ma niente di più che questo, un’opera narrativa di fantasia, basata su fatti veri, ambientata in situazioni reali, confacente alla mentalità dell’epoca, ma pur sempre romanzata, abbellita ed adattata.
Un’opera editoriale destinata, non dimentichiamolo, al mercato occidentale, pensata per riprodurre i segreti misteri di un’arte tipicamente orientale, per di più quasi scomparsa, agli occhi del pubblico occidentale del ventesimo secolo. Niente di strano che sia stata in parte riadattata e re-interpretata.
Dal mondo nipponico è partita, sdegnatissima, l’accusa. Golden non ha descritto il Giappone vero, ma il Giappone come vorrebbero vederlo, o pensarlo, gli Occidentali.
Ma non è un’accusa in realtà, bensì una constatazione. Perché è esattamente questo quello che Arthur Golden ha fatto.
Sempre circondate da un’aura romantica di seduzione e mistero, le Geishe hanno storicamente esercitato su noi occidentali un fascino assolutamente irresistibile. Del resto anche le opere liriche come la famosissima Butterfly cosa hanno fatto se non riprodurre, fantasiosamente, un mondo tanto diverso dal nostro da risultare alla fine per noi quasi incomprensibile?
Ma allora qual’è in fondo la pietra dello scandalo?
Il problema sta tutto nell’inafferrabile concetto culturale che sta alla base stessa della figura della Geisha, a metà precisa tra l’Entraneuse d’Alto Bordo e la Prostituta, nel nostro equivalente occidentale.
“Ci sono due miti a proposito delle geisha. Uno è che le geisha sono delle prostitute. Questo mito è sbagliato. L’altro è che le geisha non sono delle prostitute. Anche questo mito è sbagliato".
Secondo la Geisha di cui Arthur Golden avrebbe raccolto le memorie, sarebbe proprio la sua la storia riprodotta e romanzata dallo scrittore, ma distorta e avvilita, arricchita di falsità ed invenzioni, e anche destrutturata da serie carenze strutturali e tecniche.
Insomma, a sentire Mineko Iwasaki, che sarebbe l’ispiratrice del riuscitissimo personaggio della Sayuri del romanzo, "Golden ha preso la storia della mia vita, l’ha romanzata con le sue fantasie, ha aggiunto falsità. Il libro parla solo di sesso. Chiunque legga il libro pensa che sia basato sulle mie esperienze. E se questo è vero, allora io sono una prostituta".
Sulla base di questo travisamento e del conseguente danno d’immagine la Iwasaki ha richiesto come risarcimento ad Arthur Golden e alla Random House di New York, la sua casa editrice, la cifra record di 20 miliardi di Lire, ma solo nel Novembre del 2000, dopo che il romanzo è stato tradotto anche in Giapponese, l’unica lingua che la Geisha conosce.
Le otto pagine di denuncia depositate presso la Corte Federale di Manhattan parlano di tradimento nei confronti del ruolo sacro delle Geishe, di diffamazione e di travisamento nei confronti del quartiere storico di Sion, nella città di Kyoto, la patria d’adozione di tutte le Geishe.
Una denuncia che non giunge certo a caso, visto che la Iwasak, che ha prestato la sua opera come Geisha nel periodo compreso tra il 1965 e il 1980, dunque in epoca relativamente recente, ha accolto a lungo e ripetutamente lo scrittore americano nella sua casa di Kyoto, rispondendo senza riserve a tutte le sue domande e erudendolo sugli antichi riti, i misteri, le regole e le abitudini della vita di una Geisha.
Ma vediamo la differenza tra le due storie.
Nel romanzo la protagonista, Chiyo, a soli 9 anni viene ceduta dalla famiglia a un ricco commerciante che avrebbe dovuto adottare lei e la sorella, ma che invece le porta a Kyoto, la città delle Geishe, per venderle.
La piccola, più graziosa e docile viene inserita in una Okiya, una casa di Geishe, nel quartiere di Gion, l’altra, già grandicella e meno flessuosa, viene invece indirizzata in un Jorouya, un bordello vero e proprio. Siamo nel 1929 e all’epoca in Giappone per le famiglie povere di pescatori e contadini questa era una procedura piuttosto normale, se impossibilitati a mantenere la troppo numerosa prole.
Dunque per la piccola Chiyo, secondo la tradizione e le regole della casa, inizia un lungo periodo di lungo tirocinio, come addetta al servizio delle Geishe più anziane, quelle che mandano avanti con i loro guadagni l’attività e la gloria della casa. In Giappone ogni casa che alleva e istruisce le Geishe riceve lustro e prestigio a seconda della fama delle sue protette, che svolgono una regolare attività e vengono ufficialmente invitate come ospiti d’onore a party, feste ed incontri d’affari.
All’epoca la star indiscussa del firmamento locale è la Geisha Hatsumono, che lavora per la casa dove è stata accolta anche Chiyo, che viene addetta proprio al suo servizio. Sotto la sua scuola la piccola viene addestrata, tra soprusi e angherie, per essere poi essere retrocessa al ruolo di serva come punizione per un maldestro tentativo di fuga.
Riammessa alla scuola delle Geishe solo grazie al bonario interessamento di Mameha, l’unica rivale di Hatsumoto, la protagonista si avvia a diventare la Geisha più famosa e meglio pagata della sua epoca, fino ad essere adottata dalla madre che gestisce la casa, e nominata come sua probabile erede e futura tenutaria.
Nel gioco di interessi, rivalità e carriera, perché quella di Geisha è in realtà una carriera in piena regola a tutti gli effetti, la piccola Chiyo assume il nome di Sayuri e corona un improbabile sogno d’amore con un importantissimo uomo di affari della grande city nipponica, denominato vagamente “Il Presidente”.
Nella realtà invece, la storia riportata assomiglia per molti versi a quella della Iwasaki.
Nel caso di Mineko a parte l’epoca, trasposta da Golden negli anni ’40 mentre la carriera della Iwasaki si è svolta negli anni ’80, tutto il resto risulta drammaticamente similare.
Nata ultima di 11 figli, Mineko aveva già due sorelle maggiori che praticavano l’apprendistato come Geisha, poiché la tradizione impone che un’apprendista ripaghi alla sua casa l’investimento effettuato, Mineko viene ceduta alla tenutrice della stessa casa dove operavano le sue sorelle, a titolo di rimborso, alla tenera età di quattro anni.
Divenuta a tutti gli effetti figlia adottiva della tenutaria, Mineko viene avviata alla carriera di Geisha, divenendo effettiva nel 1970, ed ottenendo nella sua carriera i più brillanti risultati mai raggiunti nel suo campo e stabilendo anche diversi eclatanti “record d’incassi”.
Giunta a ventinove anni, grazie al suo straordinario successo e al suo indiscusso primato, Mineko, ripagati alla casa madre tutti i suoi debiti e quelli delle sorelle, potè concedersi il lusso di ritirarsi a vita privata e di dedicarsi a una normalissimo menage coniugale, senza mai pentirsi della sua attività e della sua sfolgorante carriera.
Ma il punto fondamentale degli attacchi del mondo nipponico al romanzo di Golden sta tutto nell’aver incautamente svelato, e magari sbandierato, al mondo esterno, antichi riti di iniziazione che davvero, senza nemmeno leggere tanto tra le righe, farebbero assomigliare la figura della Geisha parecchio assimilabile a quello della mantenuta.
Golden infatti non si perita di illustrare nei minimi dettagli la “sacra”, si fa per dire, cerimonia del “Mizu Age”, ossia la perdita della verginità di un’apprendista Geisha, che spesso veniva battuta all’asta a tutto beneficio dell’Okiva, la casa madre.
Sul piano finanziario si trattava di un vero e proprio affare condotto appositamente per trarre il massimo incasso possibile dalla deflorazione di una giovane ragazza che spesso non aveva nemmeno 15 anni.
Difficile certo, per un occidentale, ammantare di misterioso romanticismo un rito come questo, che ai nostri non può apparire altro che barbaro, al di là poi delle implicazioni artistiche del ruolo della Geisha, che sicuramente vanno riconosciute.
Diventare Geisha, all’epoca in Giappone, rappresentava spesso l’unica speranza di riscatto per una ragazza povera, ed era a volte veramente l’unica via per uscire da una vita di miseria e di stenti e per garantire al tempo stesso un certo benessere economico alla famiglia.
Inoltre, una volta intrapresa quella carriera, si poteva ambire a diventare in tutti sensi dei personaggi di rango, altolocati e privilegiati, che potevano contare su servitori, palazzi e capi di vestiario rari e preziosissimi
Va anche detto, poi, che, a parte la cerimonia iniziale del Mizu Age, il cui introito andava tutto alla casa che aveva istruito la ragazza, successivamente l’attività della Geisha, richiestissima e profumatamente pagata, era solo quella di intrattenitrice.
La sua conversazione, la musica, l’eleganza, il portamento, il trucco e la perfetta aderenza ai riti della cerimonia del the, ne facevano un personaggio altamente professionale, i cui servigi venivano pagati a peso d’oro.
Quanto poi alle prestazioni sessuali, se avvenivano, era per semplice scelta, quando la Geisha trovava un protettore disposto a mantenerla e a facilitarla nella sua carriera, cosa che del resto da noi fanno spesso soubrette, veline e attricette varie senza che si gridi allo scandalo più di tanto.
Negli incontri d’affari, nelle cene di lavoro, nei meeting e nelle feste, le Geishe erano invece considerate come delle padrone di casa che esibivano le loro rarefatte e raffinate virtù a totale beneficio degli ospiti per un evento che fosse veramente memorabile e di classe.
Difficile certo che noi Occidentali si possa compenetrare questa magica realtà fino in fondo, soprattutto quando, come nel film, si continua impunemente a confondere i Cinesi con i Giapponesi.
Prodotto da Steven Spielberg, “Memorie di Una Geisha”, è infatti stato al centro di serratissime polemiche da parte della comunità nipponica giapponese visto che per questa pellicola, teoricamente dedicata a una delle arti più antiche e nobili del Giappone, è stato prescelto un cast a matrice prevalentemente cinese.
Si parla dunque di un feroce boicottaggio che aggiunge altre polemiche ai presunti travisamenti già effettuati nel romanzo.
Forse, dopotutto, è veramente destino che Oriente ed Occidente non possano incontrarsi mai.