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Sotto la stella d’Autunno – Knut Hamsun

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IL VIANDANTE SCONFITTO
 
“Sotto la stella d’autunno” è la nuova narrazione delle vicende del consueto alter ego dell’artista scandinavo: un vagabondo, narratore e protagonista del romanzo – qui, addirittura, coincidente con il nome di battesimo dell’autore, Knut Pedersen. È fuggito dalla città, soffocato dai suoi ritmi frenetici e caotici, deciso a trovare la pace altrove, nella campagna.
La ricerca di questa quiete sembra dapprincipio connotata da un generico richiamo – il viandante vuole tornare alla solitudine da cui sente di provenire, rinunciando allo status e al ruolo conquistato nella città; e tuttavia, in questo suo post-romantico vagabondaggio per le campagne norvegesi, scandito da lavori occasionali e dalla vicinanza di diversi compari, solcato da un intervallo amoroso irrisolto e incompiuto, non episodicamente emerge la memoria della recente ri-generazione metropolitana, dell’abitudine al dialogo fitto e borghese dei caffè e l’attitudine alla buona conversazione. Ed è un’emersione non pacifica, perché tende a dilatare le distanze che già segnano le (tendenzialmente, velleitarie e non approfondite) interazioni con l’alterità.
 
La ferita non si cicatrizza: Knut è cosciente d’essere inquieto e nevrastenico e, progressivamente, assume consapevolezza d’essersi mitridatizzato all’estasi originata dalla contemplazione e dall’adesione alla natura; a dispetto d’un incipit che sembrava promettere una narrazione elegiaca del ritorno all’armonia della vita dei campi, nonostante Knut sembri godere delle passeggiate notturne nei boschi (e nei cimiteri: in cerca d’unghie da integrare in una pipa), l’esito della sua pretesa esperienza catartica è fallimentare.
 
Qualcosa di eccessivamente vago è stato il motore di questo “ritorno”: il richiamo altro non era che un’idealizzazione d’un passato stato d’animo, o d’una trascorsa predisposizione spirituale: l’archetipo del viandante non può conoscere tregua, né rivendicare una patria – pure generica. Non sa radicarsi: è ombra o spettro o apparizione, di volta in volta, e pare leggere e interpretare in questa chiave ogni incontro con persone legate al suo passato, come il (sedicente) imbianchino Grindhusen.
 
Non è un grande romanzo, non ha nessuna originalità (considerando le precedenti opere di Hamsun, s’assiste a una blanda, farraginosa e disordinata ripresa di temi, ambientazioni e stati d’animo: l’autore dunque emula se stesso, si ripete e non si rinnova affatto) e sembra gloriarsi del suo respiro diaristico, del suo (non sempre graziosamente) artefatto autobiografismo e d’una trascrizione nervosa e singultica di dialoghi fondamentalmente pleonastici; e duole riconoscere che, nonostante la marginalità e la vacuità degli stessi, essi compongano larga parte del testo.
 
Knut s’inchina alla sua fragilità nervosa, non si nega al richiamo di qualsiasi passione – purché sia fonte d’un nuovo deragliamento psichico, ed estranea all’equilibrio – e si ritrova in viaggio verso un’altra esistenza, sinistramente simile a quella abbandonata con tanto entusiasmo.
La trama sembra costruita sovrapponendo e giustapponendo false piste; personaggi appaiono all’improvviso e altrettanto incomprensibilmente cedono il passo a nuove figure, con l’eccezione dell’amorazzo incompiuto nominato in precedenza; tanto da risultare più prossimi a proiezioni e trasfigurazioni dell’ipertrofico ego autoriale, piuttosto che autentiche testimonianze dell’esistenza di qualche essere umano differente dal narratore.
 
Romanzo breve riservato, ovviamente, ai cultori dell’opera del grande scrittore norvegese: non ha importanza, in fondo, che “Sotto la stella d’autunno” possa rivelarsi poco più che un discreto esercizio di stile; conta poter godere ancora della prosa e dei riflessi dell’anima d’un genio – che può eccedere e precipitare nell’imitazione di se stesso, ma dono degli dèi all’umanità rimane.
 
 
***
 
« “Uno scrittore può, in fin dei conti, avere di tanto in tanto in sé anche un po’ di lirica che vuole poter esprimere, tanto più se per dieci anni non ha scritto che libri che mostravano i pugni serrati”, scrisse Knut Hamsun al celebre critico danese Georg Brandes la vigilia di natale del 1898. È, questa, una frase che segna con chiarezza la fine di una fase nell’attività letteraria del norvegese, la fase che aveva prodotto le sue opere più innovative e, forse, più grandi – Fame (1890), Misteri (1892), Pan (1895) – e apre un periodo di ricerca di toni e forme nuove, capaci di integrare intuizioni e conquiste dei primi romanzi con quel “po’ di lirica” che lo scrittore sente ora il bisogno di esprimere» – spiega Ferrari nell’introduzione (p. 7).
 
Le intenzioni dell’autore non corrispondono alla realtà, almeno in questo caso: m’aspetto d’essere smentito, ma di lirica o d’elegia non ho sentito il profumo.
 
EDIZIONE ESAMINATA e BREVI NOTE
 
 
Hamsun visse sino in fondo l’avventura del ribelle – scrive Magrische si abbandona al respiro vitale, negando qualsiasi valore aldilà della vita stessa e scoprendo perciò alla fine il suo irrazionale nichilismo, anche se mitigò tale vitalismo con una gentile e perduta poesia delle lontananze dell’anima. Volle sottrarsi all’anonima pressione della società moderna e finì per diventare l’apologeta del suo volto peggiore: passò dalle simpatie anarchico-socialiste della sua gioventù di proletario disoccupato, negli ultimi anni del secolo scorso, al collaborazionismo con l’occupatore nazista della sua Norvegia, che trascinò nel fango la sua tardissima e indomita vecchiezza”. – scrive – ”.
 
Traduzione e introduzione di Fulvio Ferrari.
 
Titolo originale: “Under høststjaernen”, 1906.
 
Il libro è strutturato in trentaquattro capitoli, numerati progressivamente e non titolati.
 
 
Hamsun in Lankelot: “Fame”, “Misteri”, “Pan”, “Per i sentieri dove cresce l’erba” (Franchi).
 

Bibliografia critica consigliata: fondamentali le pagine di Claudio Magris: “Fra le crepe dell’io”, in “L’anello di Clarisse”, Einaudi, Torino, 1984.

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