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Nick Drake – la necessità consolatrice dell’arte

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Passò così gli ultimi pomeriggi d’inverno, dentro a bar di porto, davanti al mare scuro e a una coltre di nubi compatta, spezzata solo dalle ciminiere. Ore a passare cucchiaini tra le dita e un po’ di luce nel fumo del locale, a scrivere rime sopra squallidi tavolini in finto marmo. Infondo, nemmeno quel fumo serviva più a celare l’anima graffiata: che senso avevano quei pomeriggi  appoggiati ad inzuppare d’acqua salata le proprie sofferenze e i ricordi? Che senso, se non farli bruciare ed ubriacarli con un bicchiere?

I divanetti di velluto rosso ospitavano spesso gli interrogativi del disagio – sempre teso tra l’evocazione e la necessità di rifugiarsi – dell’uomo che non può scegliere che una sola cultura, un solo modo di pensare, e rifugge, in altri luoghi immaginifici, le tremende ire della materialità, inconsapevole vittima di sé stesso e della propria sensibilità, ora dilatata allo strenuo della sopportazione, ora annullata da qualche anestetico di massa.

Eppure, sino all’ultimo momento, si interrogava: “Giungerà il giorno in cui l’uomo potrà danzare, nell’incontro con  la Verità, o anche solo con la piccola e parziale verità di un artista o di un altro uomo e, magari cambiare senza più bisogno di voltarsi indietro?”.

Non sta a me rispondere a questo disperato interrogativo – non ne ho le competenze – ma sta a me, come persona vivente, pormi domande che, davanti all’opera e al messaggio di Nick Drake, vanno affrontate.

La prima cosa che mi viene naturale chiedermi è perché continuiamo così, perché le parole d’ordine devono essere omologazione, omogeneizzazione e appiattimento? Perché oggi aderire alla non-cultura della superficie restaurata o, forse e solo, imbrattata? Perché proprio deve accadere ai miei simili? Perchè nella virtualità, nell’anestesia, nel cemento e nel ferro, questa generazione usa simboli di rivolta in una società dove non c’ è più nemmeno un ordine morale da sovvertire? E usa la moda dei progenitori tanto odiati, credendo di incarnare una falsa rivoluzione? Perchè darci così facilmente a certi locali e a ragazzi tutti uguali?

Non possiamo per sempre giocare ai ragazzi tristi a cui il destino, che pur ha le sue colpe, ha giocato un brutto scherzo. Probabilmente mi sbaglierò, ma dubito si possa cambiare un granché con la musica dei Blink 182 o dei Babyshambles. La vita è, e deve essere, estro e determinare sé stessi tramite un percorso di differenziazione e non di nascondimento nella massa. Scusate l’ira, i troppi “perché” e la retorica, ma sento il bisogno di più artisti, musicisti, scrittori veri, e un quadro, nell’angolo di questo locale, sembra una via d’uscita a portata di mano… tratteggia campi di zafferano e una strada tra ali di fiori ed erbe; e forse in fondo a quella strada si trova la risposta, ovviamente, sempre che si abbia la volontà di camminare. E mi chiedo se Nick Drake non fu in qualche modo questo.

Personaggio segreto, fauno e selvatico, non a caso, trovava nella necessità ristoratrice e consolatoria dell’arte il proprio messaggio, il filo che ricuce e soggiace le parole sussurrate dalla voce flebile e inquieta. Le note di Nick Drake rimarcano, una volta di più, la poetica frammentaria e laterale di questo poeta distrutto, la parzialità e la caducità dei sentimenti, l’impossibilità di rincollare tutte le briciole di un’esistenza, il bisogno di tornare alla natura e non di confondersi nella massa. Canzoni che sono emozioni minimali raccontate con una nudità e una violenza non comuni. E come cocci di un vaso spaccato, incompleti e taglienti, versi di fragilità e violenza, creano un vortice dentro al tunnel dell’intellettualità più buia, disarmata, e anch’essa nuda, scioccata dalle briciole di marginali vite perse nella più assoluta atemporalità. Infondo, la poetica di Drake è ancora oggi nascosta, rifugiata in una strada che attraversa campi di zafferano scapigliati dal vento, luoghi in cui il rossore non è mai stato vergogna.

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