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Il piatto piange – Piero Chiara

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Sono trascorsi ormai oltre 40 anni dall’uscita di questo romanzo (era il 1962) e in quest’arco di tempo ho avuto l’occasione di leggerlo più volte, ritraendone sempre un gradimento crescente.

E’ stata la prima fatica, nella narrativa,  di Piero Chiara, a cui ne seguirono diverse altre dall’esito egualmente fortunato (La spartizione, 1964; Il balordo, 1967, con cui vinse Il Bagutta; Il Pretore di Cuvio, 1973; La stanza del vescovo, 1976; Il cappotto di astrakan, 1978; Vedrò Singapore ?, 1981).

Benché abbia letto tutti questi romanzi, apprezzandoli, Il piatto piange mi è rimasto dentro con un’emozione che si rinnova a ogni lettura. Non so spiegarmene esattamente il motivo, ma penso che a questa mia preferenza non poco contribuisca l’aver scoperto tanti anni fa come sia possibile scrivere di eventi, del tutto normali, in modo semplice, ma efficace. Sì, perché lo stile di Piero Chiara è del tutto particolare, nel senso che, senza ricorrere a magistrali descrizioni, ha un’immediatezza che consente al lettore di vedere trasformarsi le parole in immagini. Un pregio, quindi, rilevante che, unito all’originalità delle trame, ha decretato il successo di questo grande scrittore che ha visto poi molte delle sue opere trasposte sul grande schermo.

In questo senso, Il piatto piange assume caratteristiche proprie del neorealismo, con un’ambientazione della vita di paese, nell’arco fra le due guerre, di rilevante interesse, non solo letterario, ma anche sociologico.

E’ un mondo chiuso, quasi addormentato, dove la vita scorre ancor più monotona per effetto del regime fascista che tende a impedire ogni novità. In quest’atmosfera di un ozio quasi logorante, gli accaniti giocatori di poker o chemin de fer trovano nelle carte un’evasione quasi surreale, una forma di innocua primordiale ribellione. Gli unici eventi, quindi, che si staccano dal grigiore quotidiano sono le interminabili partite, con i lazzi nei confronti dei perdenti, oppure le avventure boccaccesche, anche queste una sorta di gioco per rivendicare la propria essenza di uomini fondamentalmente liberi.

In un clima ovattato, fra le montagne e il lago, si delineano, più che una serie di storie, una varietà di personaggi, ognuno con pregi e difetti, ma soprattutto con caratteristiche del tutto proprie.

Troviamo così il biscazziere Sberzi, disposto perfino a giocare se stesso, Mammarosa, la tenutaria del bordello del paese, descritta con senso di tenerezza come una delle istituzioni del luogo, l’anonimo Camola, se pur nell’intimo misterioso, e il tombeur des femmes Tolini.

E’ tutto un mondo proprio di un’epoca e che verrà spazzato via dalla seconda guerra mondiale e dalla Resistenza, tanto che i due personaggi più tipici e anche più forti, il Camola e il Tolini, moriranno in circostanze diverse, ma in seguito a una zuffa con i tedeschi.

Assicuro che leggere queste pagine è di un’estrema piacevolezza, quasi a riscoprire una diversa civiltà, ora perduta, una sorta di archeologia letteraria che Piero Chiara ha saputo e voluto farci conoscere.       

 

Piero Chiara nasce a Luino il 23 marzo 1913, in una famiglia di origini siciliane.

Studia in vari collegi religiosi, ma poi abbandona la scuola, completando da autodidatta la propria formazione culturale.

Dipendente di un’amministrazione statale, vive, durante gli anni del fascismo, la più chiusa e al tempo stesso più eccitante vita di provincia: lunghe letture, il gioco e gli intrighi d’amore.

Data la sua naturale indole al dissenso, diviene inviso al fascismo, al punto che il Tribunale Speciale emette una severa condanna nei suoi confronti e che evita unicamente con la fuga in Svizzera.

Terminata la guerra, ritorna in Italia con un’aureola di antifascista, che gli sarà di aiuto nel reinserimento nell’Italia repubblicana.

Inizia un periodo di fervida creatività che lo porta ad abbandonare il lavoro nell’amministrazione statale per dedicarsi unicamente alla scrittura.

Nascono così i romanzi che ho citato, oltre a molti altri, una produzione tutta di notevole livello, dove la capacità dell’autore di scrivere con equilibrio, di non indulgere mai alla volgarità anche nelle storie più scabrose, non viene mai meno.

Piero Chiara muore a Varese il 31 dicembre 1986.

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