Il film si apre con le immagini di un orfanotrofio indiano in cui spicca senza fatica un tipo alto, biondo, sudato, lo sguardo preciso, una smorfia apparente sul viso. Il tipo è Jacob, un danese che da diversi anni è in India per occuparsi dell’orfanotrofio, nulla più.
Il film parte veramente quando Jacob è “costretto” dalla mancanza di denaro in cui versa l’orfanotrofio a rispondere alla chiamata di un uomo d’affari, anch’egli danese, che lo convoca a Copenhagen per valutare la possibilità di destinare fondi al suo progetto. Jacob lacia perciò l’India, controvoglia, promettendo di tornare al più presto ma non appena conosce Jorgen, l’uomo d’affari, si capisce che non lascerà più la Danimarca. Jorgen stupisce e irrita il taciturno e introverso Jacob. Tanto è brillante e tracotante il primo quanto è silenzioso e sospettoso il secondo, che sembra un pesce fuor d’acqua nella nitida e pulita città danase, così diversa dalla rumorosa e colorata India. Jorgen invita Jacob al matrimonio della figlia, che si tiene il giorno seguente e lì il film subisce un’altra accelerazione: la moglie di Jorgen e Jacob si scambiano uno sguardo che appartiene a chi si conosce già e infatti, prima della cena, i due si salutano, sia pure in maniera molto formale. Gli sguardi però lasciano intendere che tra i due ci sia stato qualcosa e qualcosa di importante. Helene, la moglie di Jorgen, è stata la donna di Jacob vent’anni prima, quando le loro due vite erano completamente diverse. La relazione tra Helene e Jacob (interpretato da Madds Mikkelsen, anche in “Casino Royale”) ha lasciato qualcosa in entrambi e non solo. Quella che sembra essere solo una coincidenza si rivelerà essere parte di un disegno preciso di Jorgen. Il racconto lo interrompo volutamente qui, non è necessario sapere come prosegue o come va a finire “Dopo il matrimonio”, è molto meglio vederlo.
Il film di Susanne Bier, la regista anche del recente “Non desiderare la donna d’altri”, si può fregiare della produzione della Zentropa, la casa di Von Trier, e si vede. Il marchio del mentore è visibile dalle riprese a mano e dal suono che, in buona parte, è in presa diretta, asciutto e reale. Dimenticando il “Dogma”, un’etichetta ormai metabolizzata e non più attuale, possiamo parlare di “Dopo il matrimonio” più semplicemente come uno di quei film in cui è il contenuto a prevalere sulla confezione, anzi, in cui la confezione scarna e naturale è fatta apposta per esaltare il contenuto. Banale, ma verissimo, è dire che nei paesi del nord ci deve essere una predisposizione naturale allo svisceramento della famiglia e dei suoi codici segreti. Ibsen, Strindberg, Bergman non possono che saltare alla mente quando si guarda il film della Bier, abissale e crudele, amorevole e ovattato. La famiglia, in fondo, è alla base di tutti i drammi classici e contemporanei, basti pensare a Checov, a Shakespeare, a Pirandello o a tanti altri drammaturghi e scrittori d’ogni tempo. “Dopo il matrimonio” aggiunge qualcosa a questa tradizione, il film è ottimo, la storia pure (sebbene tradisca qualche ingenuità nella descrizione dei personaggi minori, come ad esempio il genero e la figlia di Jorgen), la narrazione non cade mai di tono, anzi è un crescendo emozionale costruito con maestria col finale dal pathos giusto per la conclusione, proprio come “da tradizione”.
Come sempre, buona visione a tutti.
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