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Il Grande Capo

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Lars Von Trier ci dichiara subito le sue intenzioni.

Una gru, movimento ascendente, l’immagine riflessa di una macchina da presa. Una voce ci spiega che stiamo per assistere ad una commedia, che siamo in un cinema e che questo è un film.

Le intenzioni sono dette.

L’inganno finzionale svelato.

Il mezzo cinematografico messo a nudo attraverso il suo riflesso in un vetro (ma già negli anni venti ci aveva pensato Vertov, l’importante è però rinfrescare la memoria su questi concetti).

Poi ci troviamo all’interno di una piccola azienda danese. Von Trier delinea le sue scelte tecniche, stilistiche e teoriche. Gran parte del film è girato in interni, attraverso una sperimentazione di ripresa e fotografia portata avanti da un programma per computer, chiamato Automavision. Il montaggio distrugge qualsiasi regola di grammatica filmica, i tagli non seguono nessuna legge, tranne quella di un’anarchia narrativa che cerca di stravolgere tutti i codici della comunicazione cinematografica.

Risultato? Il messaggio arriva chiaramente allo spettatore, segno questo che al cinema le regole esistono ma non è detto che debbano per forza di cosa essere rispettate.

Illuminazione naturale, niente trucco, niente musica.

Si gioca tutto sugli attori, sui loro rapporti, sulla loro bravura.

Escono fuori situazioni ironiche o grottesche, una critica acida al potere e ai trucchi che esso compie, esce fuori un quadro che incornicia il mondo del lavoro in una  serie di comportamenti ipocriti e alle volte insensati.

Il Grande Capo è un film che lavora su molteplici piani. Al di là della storia raccontata, come sempre accade nei film del regista danese, è poi la riflessione teorica quella che interessa maggiormente.

In questo caso cinema, teatro e psicodramma si amalgamo e si smascherano in continuazione. La narrazione cede il passo a momenti in cui il regista si rivolge direttamente a noi, in quanto pubblico, e ci mette a conoscenza delle sue intenzioni. In questo modo il cinema diventa un mezzo espressivo ancora più strutturato e complesso. Mettendo in corto circuito i codici della rappresentazione e lavorando sullo straniamento Lars costruisce una storia che cerca in ogni modo di allontanarsi da tutti quei film che conosciamo a memoria.

Un tentativo, per l’appunto, di rivitalizzare il cinema.

Alla fine la voce del regista dice – Chi è venuto qui aspettandosi questo se l’è meritato.

Poi partono i titoli di coda.

Io inizio ad applaudire.

Intorno a me il silenzio.

Certo, non è un film per tutti.

Ed era proprio questo che io mi aspettavo.

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