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Dimenticami dopodomani – Andrea Di Consoli

8 min read

prefazione di Mario Desiati
Rubbettino (Soveria Mannelli, 2024)
pag. 201
euro 16,00

“Dimenticami dopodomani” è il ritorno in libreria con la poesia dello scrittore, poeta, giornalista, autore televisivo e sceneggiatore, Andrea Di Consoli; ma avendo avuto la fortuna di leggere in anteprima questa sua nuova raccolta di testi poetici, ché “anche se la metrica libera di questo libro non è poi tanto libera, lo smascheri subito il settenario che occupa il verso libero, la pausa che si protende al punto giusto, oppure quando l’endecasillabo risponde alla domanda che aleggia e che qualche volta affiora nei versi” (Desiati), possiamo già consigliarne la lettura a ragion veduta.

L’opera arriva dopo “Gli occhi di Don Carlo. L’universale favolistico della Lucania di Carlo Levi” (TerreBlu, 2023), “Autunno a Rotonda” (Ianieri, 2022) e “Tutte queste voci che mi premono dentro (Editoriale Scientifica, 2021); epperò a molti anni di distanza dal romanzo capolavoro “Il padre degli animali” (Rizzoli, 2007). Come, soprattutto, molto lontano nel tempo dalle raccolte di componimenti poetici “Quaderno di legno” (Edilazio, 2009) e “La navigazione del Po” (Aragno, 2007).

Mario Desiati, in sede di prefazione, fra le cose più interessanti, dopo aver ricordato la formazione romana molto simile che ha fatto maturare sia Di Consoli sia lui stesso, riprendendo una definizione tratta dal fortunato titolo dell’antologia di narrativa “Sporchi al sole” pubblicata diversi anni fa dalla pugliese Besa, annota che “Di Consoli è un disertore e anche uno sporchissimo al sole, ma molto più giovane di quegli scrittori meridionali che emergevano durante l’inizio del decennio, con una sua originalità che però avrebbe creato sgomento, come se uno tra i semi piantati nel solco fosse rimasto un seme solitario sulla nuda terra e lì è attecchito”. Prima di tornare al libro d’esordio d’Andrea Di Consoli, figlio di Rotonda della Basilicata potentina e protetta dal Pollino, ‘ritornato’ dalla Svizzera dove erano emigrati i suoi genitori, quel “Discoteca” (Palomar), “il primo libro di un poeta lucano, classe ’76, nato a Zurigo, ma per lavoro a Roma”. Letto da Desiati grazie al consiglio, prezioso davvero, del compianto Enzo Siciliano: “Quel libro lo sentii mio, perché arreso alla sua vocazione, e visto che ci intendevamo con la pagina scritta, pensai che ci saremmo intesi anche nella vita”, confessa lo scrittore e poeta pugliese. E qualche anno fa, fa memoria recente sempre il Desiati, “gli scrissi una lettera implorandogli inediti, se ne aveva scritte altre in questi anni che si dava morto ai suoi lettori. Dovetti sembrare un disperato. Tre anni dopo trovo una risposta in queste pagine. (…) Anni dopo esserci riabbracciati quando tornai in Italia, ho ricevuto brano dopo brano la carne del nuovo libro”. Un libro che “non è una classica raccolta di poesie, l’autore ha invece deciso di dar vita a un flusso quasi narrativo di scene madri, vita quotidiana, frammenti del passato e umani come il medico Ciasullo o il nostro caro latinista Luca Canali che rilucono un senso nuovo alla propria identità che cambia. Il corpo cambia e dunque anche le aspirazioni, qui si pratica un esorcismo che conduce chi legge a conoscere un’anima contraddittoria, dunque universale. Possiamo dire per facilità di esposizione che sono poesie a verso libero che esprimono malinconia e intensità, un orgoglio inammissibile nella terra che si fa margine e che proprio nel margine ha le sue verità”, illumina in ultimo Desiati.

“Ho scritto questo libro – spiega invece lo stesso autore della pubblicazione in coda del film/libro- tra le fine del 2022 e i primi mesi del 2024. Pensavo di aver chiuso con la poesia; o, comunque, con i miei racconti in forma di poesia – infatti non scrivevo versi da più di dieci anni. Poi, durante la pandemia, mi ha cercato con insistenza Mario Desiati. Era appena tornato dalla Germania. Aveva riletto La navigazione del Po e mi diceva che dovevo tornare a scrivere. Ci siamo visti qualche volta a casa sua, a Roma, e io ogni volta gli dicevo con la voce rotta che con la poesia avevo chiuso. Una sera mi sentii umiliato. Mi disse che sentiva che avevo da dire molte cose, e che stavo sprecando il mio tempo. Me ne andai ferito – ricordo che era notte. Le sue parole iniziarono a lavorarmi dentro, come un tarlo. Nei mesi successivi scrissi delle poesie, ma non mi convinsero. Così le buttai – evidentemente avevo trovato una venuzza, ma non la vena grossa. Poi, di colpo, nell’ottobre del 2022, scrissi qualcosa che mi sembrò liberatorio. Avevo ritrovato la voce – uno scrittore se ne accorge subito, quando ritrova la sua voce. A volte la si perde per anni. E così sono andato avanti per un anno e mezzo”.

È la seconda volta che lo vedo al McDonald’s di Torpignattara. 

È un uomo di mezz’età, e davanti a sé ha un figlio un po’ annoiato – un ragazzo sui tredici anni. 

Non lo so se è suo figlio, ma a me pare di sì, almeno per come gli parla, per come lo guarda. 

Me ne accorgo subito quando un padre separato si vede con i figli nel weekend. 

Me ne accorgo perché ci sono passato, e riconosco il senso di colpa sulle facce dei padri – le attenzioni eccessive, gli ascolti forzati, le premure disperate, ma anche gli improvvisi silenzi, i rancori non detti, quel non saper litigare per imbarazzo, e per una penosa sconfitta condivisa. 

I figli dei padri separati parlano poco, ma pure i padri separati parlano poco. Parlano pensando ad altro. 

Fingono di essere lì, ma sono distratti. 

Tutti sono come ammutoliti da colpe che non hanno – o comunque da colpe umane, risolvibili. 

A legarli è il senso di colpa, l’unico grande sentimento che prova un genitore di questi tempi. 

Io osservo questo padre e suo figlio tredicenne, e so esattamente cosa provano. 

Ci sono passato, ripeto. 

Ma mentre li osservo ho un moto di orgoglio, e penso che la famiglia tradizionale vada buttata giù per sempre. 

Che è tutto finto, quell’ordine di camere ammobiliate, orari prestabiliti, rumori di lavatrici notturne. 

Sono piene di infelicità tante famiglie che rimangono unite “per i figli”. Ma so cosa si prova, quando si dice “basta”. 

E so che questo padre che ora beve una Coca-Cola qui davanti a me si sente in colpa anche per aver penetrato poche ora fa, o la settimana scorsa, un’altra donna che non è la madre di suo figlio. 

Anche se non la ama più. 

Anche se l’ha disprezzata per anni. 

Anche se ha maledetto il giorno in cui l’ha conosciuta. 

La verità è che questo padre non sa dire a suo figlio, come non ho saputo fare io, e come non sa farlo più nessuno, il perché della vita il senso di tutta questa paura, e di tutta questa morte.

È un uomo che forse lavora nell’informatica, oppure è un consulente del lavoro. Ha un pizzetto da uomo con delle fisime ossessive, tipo i fumetti giapponesi o le serie di Netflix. 

Probabilmente l’anno scorso avrà chiesto all’Agenzia delle Entrate di rateizzare le tasse arretrate. 

Perché un padre separato spende più di quello che guadagna, e questo per senso di colpa, perché un padre separato non sa più dire “no”, dopo che è andato via di casa. 

Un po’ mi fa male osservarli, un po’ no. 

Perché è piena di finzioni, la famiglia tradizionale. 

E perché c’è una verità gigantesca, nel padre che decide di rintanarsi in una casupola, di addormentarsi da solo, di stirare goffamente le camice un po’ lise mentre fuori piove, e la solitudine è come l’ombra di un cane sofferente che si allunga in un vicolo scuro. 

Parlano con reticente delicatezza, ma sono pieni di rabbia. 

Vorrebbero solo dirsi: «Ma tu che ne sai di me?». 

E ancora: «Tu non ci sei mai, e non c’eri, di che parli?». 

Li guardo e penso che sono belli, anche così divorati dai risentimenti e dai sensi di colpa. 

E mi piace che abbiano buttato giù la famiglia tradizionale tremando, magari poco convinti, e che si siano liberati di quella prigione piena di ipocrisie e di cose che non si devono sapere. 

Non che non siano tristi, così feriti in una fredda domenica di marzo; ma in loro c’è una verità essenziale e, per certi versi, commovente. 

Sento orgoglio – un orgoglio difficile, anche presuntuoso. 

Non è mai bello strappare i riti degli appartamenti famigliari, spesso immobili e inquietanti come gli acquari domestici degli anni ’80. 

È difficile. 

Si scontano solitudini risentite, e un certo numero di solleciti bancari. 

Ma c’è una verità eroica, in questi fallimenti. 

Non ci ho mai creduto alla profezia del tramonto dell’Occidente, perché vedo qualcosa di enorme, in questo balbettante parlarsi senza certezze prestabilite in una terra di confine senza insegne – intingendo patatine fritte nella salsa barbecue. 

E perché so che da tutto questo silente e smarrito patire nascerà un mondo nuovo. 

 

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