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L’Amico di Famiglia

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Finiscono i titoli di apertura e io ho già i brividi lungo la schiena. Le linee della mia faccia compongono un quadro fatto di emozioni. Tutto scaturisce dalle immagini, ancora non so niente della storia, dei personaggi, di quello che dovrà accadere. Mi sono bastati cinque minuti di immagini. Cinque minuti composti da inquadrature che rapiscono, che ti entrano dentro, che muovono il tuo sguardo facendoti emozionare. E la musica, che ti sussurra dolcemente l’inizio di qualcosa.

Paolo Sorrentino apre così il suo terzo film, in un modo che ti lascia a bocca aperta. Rimani stupito da quanta importanza venga data alla composizione dell’inquadratura, ai continui e precisi movimenti di macchina, alla concezione di un cinema che sia prima di tutto capacità di mostrare attraverso lo sguardo.

Poi iniziare a costruire. Una storia, una trama, dei personaggi.

E passare dalle immagini a chi vi si muove dentro, agli edifici che le riempiono, all’umanità che poco alla volta ne scompone la bellezza in una rappresentazione della nostra miseria.

Un uomo con una busta della spesa. Un braccio rotto.

Una sporcizia esterna quanto interiore.

La malattia, dei cattivi odori, l’ignoranza.

Il degrado umano comincia a riempire i bordi dell’inquadratura.

L’architettura è quella di Sabaudia, fascista, sgradevole allo sguardo, degrado visivo.

Gli uomini e le donne che vi si muovono sopravvivono come meglio possono. I soldi servono a tutti. Questo è il mondo che ci siamo ritrovati. Modi per arrangiarsi, modi per tirare vanti.

Un uomo con una busta della spesa. Un braccio rotto.

Una sartoria.

L’uomo è seduto all’ultimo tavolo.

Alcune persone entrano, gli chiedono dei soldi, gli chiedono un prestito.

Fratelli e sorelle care questo uomo non è quel che sembra.

Questo uomo non è un sarto.

E’ uno strozzino, un usuraio.

Paolo Sorrentino lo mette al centro del suo lavoro. Il compito è creare un ritratto che lo riguardi, tutto il resto girerà intorno a lui. Le altre storie, gli altri personaggi, non hanno poi molta importanza.

E’ Geremia quello che dobbiamo seguire.

Dobbiamo vederlo e ascoltarlo.

Sorrentino ci trasporta in un mondo abbrutito e disfatto, come lo sono i corpi di molti di quelli che lo abitano e dove la bellezza può avere valore solo come merce di scambio.

Un mondo dove ogni morale è stata dimenticata perché è la sopravvivenza l’unico metro di giudizio per le proprie azioni. Geremia che ha messo da parte molto denaro vive e va in giro come uno straccione. I soldi sono accumulo, sono una forma di potere sul prossimo, sono corruzione della propria anima.

A Geremia non interessa la ricchezza.

A lui interessa il muoversi, il parlare, il ricattare, lo sfruttare. L’essere riverito e omaggiato. Gli piace ordinare, essere ascoltato.

Un uomo distrutto dalla vita trova in tutto quello che c’è di peggiore in lui l’unica forma di sopravvivenza

Un modo per non lasciarsi definitivamente sconfiggere.

Un modo per potersi riprendere tutto quello che gli è stato negato.

Geremia ha consapevolezza del suo stato d’essere e non si tira indietro davanti alla propria natura.

Si ruba la bellezza di una ragazza, la si corrompe e la si ama.

Si fugge qualsiasi amicizia.

Si cercano i propri limiti e non si trovano e allora si continua sulla propria strada senza porsi mai domande, scivolando lentamente sempre più in basso, ma senza per questo perdersi.

Sorrentino costruisce un personaggio maledetto e angelico allo stesso tempo. Un uomo che è puro nella sua sporcizia, che ha delle regole per quanto non ne rispetti nessuna dell’umana convivenza. Il film va quindi visto nell’ottica di questo personaggio. Sorrentino ci racconta prima di tutto la sua storia.

Bisogna cercare di andare oltre lo sviluppo narrativo della trama, anche perché nell’intreccio si trovano i maggiori difetti del film. Gli ultimi dieci minuti crollano letteralmente su se stessi. E’ come se Sorrentino abbia lasciato le redini della storia che raccontava e questa, a briglia sciolta, sia scappata verso una conclusione che non ha il mordente del resto del film.

Inoltre alcuni dialoghi sembrano troppo letterari, battute di sceneggiatura ad effetto che aspettano solo il momento di essere recitate. Le massime e gli aforismi di Geremia sono efficaci, ma a lungo andare diventano anche essi ripetitivi.

L’affresco di un’umanità degradata è però degno di attenzione e di elogi, come il modo di girare del regista e come il coraggio di allontanarsi da tutto quello che il nostro cinema negli ultimi anni ci ha offerto.

Perché al giorno d’oggi è ancora importante raccontare storie, soprattutto quelle che ci dicano quanto può essere sporca e infame la nostra natura.

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