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S’è fatta ora – Antonio Pascale

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ovvero Fare il tavolo come fare la scrittura e la poesia

 

Oggi, 20 novembre 2006 (come direbbe Antonio Pascale), sarei voluta andare alla presentazione di S’è fatta ora, che si è tenuta questo pomeriggio presso la Feltrinelli di Via Colonna, a Roma. Ho saputo dell’esistenza di questa presentazione stamattina, e appena l’ho saputo mi sono talmente emozionata, al pensiero di sentir parlare Antonio Pascale di S’è fatta ora, e magari anche di La città distratta, e magari anche de La manutenzione degli affetti, che mi sono completamente dimenticata di una cosa. Oggi, 20 novembre 2006, è anche il mio compleanno. Avevo invitato degli amici a casa da mesi, oramai. Non potevo assolutamente andare alla presentazione. Dovevo preparare da mangiare, e mettere a posto il caos adamantino che fa di una cosa qualunque casa mia. Un caos che non ha niente, per esempio, del disordine gaddiano, un caos che non ha nulla di letterario. Una baraonda molto fisica, profana, vuota di significato, direi.

Per un po’, nonostante tutto, ho cercato di illudermi, di convincermi che ce l’avrei fatta ad andare alla presentazione prima (cioè alle 18.30), e a rassettare tutto per l’arrivo dei miei amici poi. Ho tentato di convincermi che ero superman per tutta la mattina, e per un pezzo del primo pomeriggio. Ho cercato di fare due conti, però non sono brava in matematica. Allora ho deciso di passare all’azione, ma alle 3 di pomeriggio era ancora tutto come all’inizio: invivibile. Alla fine mi sono arresa, Toni, mi sono detta, Toni è impossibile che ce la farai. Ammettilo. Prima di arrivare alla resa totale, però, ho guerreggiato. Tanto che sono andata all’internet point appositamente per avvisare che non sarei potuta andare alla presentazione, ho scritto pure l’email, l’ho riletta, andava bene, era sincera e spiritosa, al punto giusto. E poi, d’impulso, ho cancellato tutto. Sono andata via dall’internet point sacramentando contro il mondo, e contro le energie che si mettono a sovrapporre tutto, amore e lavoro, passione e malattia, danza e letteratura, lezioni all’università e scrittura.

In questi ultimi tempi, sono diventata una persona un po’ ossessiva. Quando decido una cosa, o quando sta per accadere un evento cui tengo particolarmente, o quando mi succede un imprevisto bellissimo, o bruttissimo, o un’ingiustizia, ne parlo con tutti, continuamente. Mi capita per esempio con un corso di letteratura che sto seguendo in questi giorni, oppure mi capita per quanto riguarda il mio futuro sposo: lo conoscono tutti. Non faccio che parlare di lui. Così è stato anche per questa mia festicciola di compleanno. Avevo letteralmente ammorbato tutte le persone che conoscevo con la solita tiritera che devi venire assolutamente, mi offendo se non vieni, eh? de-vi-ve-ni-re. Ma dopo tutto questo infettare, avvelenare impietoso della gente cui tenevo, ero stata io, proprio io, di punto in bianco, come una totale svampita, la prima a dimenticarmi della mia stessa ossessione. La voglia di andare alla presentazione di Pascale mi aveva cancellato del tutto e definitivamente quest’idea fissa dalla testa.

È stato il mio fidanzato a ricordarmelo, Amore, guarda, mi ha detto (perché noi ci chiamiamo ancora “amore”), guarda che oggi pomeriggio non puoi andare da nessuna parte. Perché?, gli ho domandato quasi inquisitoria, Stai a vedere che ora si mette a dirmi cosa devo e cosa non devo fare, ho pensato. È il tuo compleanno, ti ricordi del tuo compleanno?, ti ricordi della tua cena?. No, mi sono detta, Non me ne ricordo per niente. E poi, Sei sicuro che sia oggi?, gli ho detto con un occhio chiuso e un occhio aperto. E lui, Il tuo compleanno?, mi stai chiedendo se il tuo compleanno è oggi?. Mi sono sentita avvampare di rossore e ho preferito finirla qui, Faccio una figura migliore a non continuare, mi son detta.

Solo dopo aver avvisato, con mio enorme dispiacere, lo scrittore per i cui libri ho perso la testa che non avrei partecipato alla sua presentazione, ho cominciato a riflettere su quanto è accaduto. Questa è una situazione tipica da racconto di Pascale. Una “metafora della vita”, la chiamerebbe lui. Qualcosa come la moglie Rosaria che lascia il rossetto a metà sul bordo del lavandino, in bilico sul mondo. Qualcosa come la reiterazione del gioco dei figli, che fingono di parlare al telefono e poi ridono, per una ventina di volte di seguito. Pascale dice che, probabilmente, le reiterazioni, da adulti, ci sfiancano così tanto proprio perché ce ne siamo nutriti da piccoli.

Ero triste, quando mi sono accorta di non poter andare alla presentazione. Triste e basta, senza alcuna via d’uscita. Ma, dopo aver riflettuto sul fatto che Pascale mi avrebbe di certo capito, in una situazione del genere, dopo aver pensato che per questo bravissimo scrittore tale situazione sarebbe diventata probabilmente in qualche modo produttiva, dal punto di vista emozionale, non ero più così sconsolata, di colpo. Anzi, non è che non fossi proprio più così triste: la mia tristezza, da mestizia cupa e buia ch’era nata (non volevo vedere più nessuno, volevo chiudermi nella mia stanza a leggere La coscienza di Zeno, diamante italiano che sto rileggendo in questi giorni, con grande sollievo esistenziale), era diventata malinconia, spleen emotivo, sentimentale. E cioè, grazie alla comunanza col grande Pascale, per una specie di miracolo-magia letteraria, questo mio turbamento si era tramutato in qualcosa di assolutamente propositivo, attivo. Una cosa che, mentre mi preparavo il caffè, mi ha fatto venir voglia di mettermi al computer, e scrivere, almeno, di Pascale, se proprio non potevo andare alla sua presentazione.

Ancor prima, però, mi è venuta un’altra voglia. La voglia di rileggere alcuni passi del suo libro del 2003, La manutenzione degli affetti, perché sapevo che in quelle pagine avrei trovato il “la”. E anche se è stato un “la” un po’ lungo, come vedete, credo di aver reso l’idea, in queste righe, di cosa produce in me la conoscenza con la scrittura di Pascale, la fruizione di uno dei suoi libri, la vicinanza con questo scrittore. Ora, sono proprio felice.

La manutenzione degli affetti[1], secondo libro di Pascale, appena rieditato con l’aggiunta di tre nuovi racconti – in uno dei quali, Stai serena, l’autore racconta la medesima storia del primo racconto della raccolta, però sotto un nuovo punto di vista, quello della moglie dell’io narrante –, è una lunga, dolcissima lirica d’amore, una dolorosa, struggente ballata dell’amore che vieni amore che vai. In particolare, per quanto riguarda “i due primi racconti” – se posso chiamarli così –, l’amore è visto da due angolazioni differenti, da due prospettive opposte, quella di lui e quella di lei. Perché l’amore è sempre doppio, dice Pascale, e ha ragione.

Frasi sbocconcellate, quelle de La manutenzione degli affetti, come mangiate da una penna vorace. Periodi minimi, come le battute del maestro Cechov. Storie struggenti, doloranti, animiche. Quasi filosofiche eppure così, spietatamente, vere. Sincere. Frasi fulminee, emozioni fulminate, periodi lanciati all’arrembaggio del cuore, senza paracadute, periodi e situazioni che mi ricordano ciò che Calvino scrive a proposito di Uomini e no, quando dichiara di questo libro meraviglioso che, “a due mesi appena dalla Liberazione […] i “gap” di Milano avevano avuto subito il loro romanzo, tutto rapidi scatti sulla mappa concentrica della città”.[2] Rapidi scatti. E nuda poesia. Come in Vittorini, così nel Pascale de La manutenzione:

 

Quando mi sono affacciato al balcone il cielo era rosso. Pure le foglie dei prunus. Il vento le tirava sulla destra. La strada sembrava elastica. Fra poco sarebbe piovuto. C’era molta tensione nell’aria. Oggi comincia giugno.[3]

 

Un libro che mi ha fatto male, che mi fa male ancora a distanza di tanti anni dalla prima lettura, e adesso qui, rileggendolo. Un libro che mi inebria, però, che mi trascina con sé. E che mi fa dimenticare il mio piccolo, personale, insanabile, squallido male. Un libro che assurge anche me, e i miei sentimenti, nel paradiso delle sensazioni letterarie. Un libro che profonde in me, e in tutti, un nuovissimo senso del vivere. Davvero.

Anche Pascale è un fan di Cechov, proprio come me. Oppure è il contrario, io lo sono proprio come lui. Pascale ne parla anche in S’è fatta ora, ma non modo sterile, erudito, o fuoriluogo. Tutt’altro. In modo strepitoso.

Il mio professore del liceo diceva che la differenza tra una persona colta e una erudita è che la prima studia per il piacere dello studio, della conoscenza, della cultura, cioè studia per sé; mentre la seconda lo fa per gli altri, magari imparando a memoria una serie di aforismi, o di brani, per poterli poi declamare davanti alla gente, e perché la gente dica, Ecco, vedi com’è bravo lui, sa a memoria tutta La ballata del vecchio marinaio.

Anch’io ne so una parte a memoria. L’ho imparata perché l’amavo.

La distinzione tra erudito e colto mi è rimasta impressa nella mente per tutti questi anni. Ci penso ancora, molto spesso, quando sento la gente parlare di letteratura, o di qualsiasi altro tema culturale. A volte riscopro l’erudizione in certi toni striduli della gente, per strada, fumando una sigaretta, o dietro una cattedra. E mi infastidisco, perché risento il monito del mio professore: Non siate eruditi, mai. Studiate per piacere. Fatelo per voi, o non fatelo per niente. Basta guardare il brillio negli occhi di chi parla, per capire se ama o meno ciò di cui sta parlando, secondo il mio professore d’italiano. E anche secondo me.

Allora ho guardato dritto dritto dentro gli occhi dell’io narrante di S’è fatta ora, e ancor più dentro l’autore casertano nascosto dentro l’io narrante. Volevo capire se mi stava prendendo in giro, non volevo fidarmi per partito preso.

L’ho letto e riletto, e da sempre ne sono sicura, non mi lascio ingannare: gli brillano gli occhi, e si vede, tutto il tempo, per esempio quando racconta di Cechov, o di Shakespeare, o persino di Nietzsche e Freud. Non si limita mai a menzionarli: ce li dice. È un piacere assurdo, struggente, perduto, stare ad ascoltare Pascale che parla di letteratura, come starlo a sentire che ci racconta un pezzo di strada di Vincenzo Postiglione, un brandello di vita dell’io narrante, alter ego dell’autore che ormai conosciamo molto bene, per averlo trovato in altri suoi luoghi letterari. Una delle caratteristiche di Pascale, infatti, è che riesce davvero a trovare corrispondenze continue tra letteratura e vita. Ed è una cosa rara. Ed è una cosa meravigliosa. La chiamerei affinità elettiva, se questo aggettivo non traesse in inganno, presupponendo in qualche modo che la scrittura di Pascale sia aristocratica, ristretta, privilegiata, e destinata a una limitata cerchia di eletti. Tutt’altro, e lo vedremo in queste pagine, come nell’intervista che mi ha gentilmente concesso, appena pubblicata su Books and other sorrows[4].

Questa cosa meravigliosa, allora, succede con Pascale non solo quando si tratta di Cechov, ma anche per Alice Munro, per esempio, o con Ivan Ilic, grande filosofo e uomo di cultura. Pascale fa in modo che questi grandi personaggi di tutti i tempi diventino vivi nel nostro corpo, mentre ce ne parla. Ci basta spostarci un pochino, fare un poco di spazio all’interno di noi, perché Ivan Ilic e gli altri amici comincino a respirarci dentro. È meraviglioso. È fantascientifico, come fantascientifica è, secondo Pascale – e anche secondo me – una vera storia d’amore.

Questo miracolo succede addirittura in televisione, mezzo superficiale e vuoto per eccellenza, dove Pascale riesce a portare, per esempio, Leopardi e la natura matrigna, raccontandocelo nel breve tempo che gli è concesso, ma raccontandocelo davvero, avvicinando così l’altissima poesia di questo grande genio della letteratura e della scienza alla nostra vita di ogni giorno – persino all’ossessione odierna per il biologico –, e stracciando, a mio avviso, con fare innamorato, la pesantezza e l’oppressione sorde dei nostri visi instupiditi e vuoti, cogliendoci in fallo proprio mentre ci annulliamo davanti alla tv, nel caldo rassicurante delle nostre case. E svegliandoci, perché ormai “s’è fatta ora”.

È strano, forse, a dirsi, ma questo scrittore casertano ha una scrittura tanto particolare, propria, personale, e allo stesso tempo tanto totale, tanto figlia di una profonda conoscenza, non solo letteraria, ma culturale in senso lato, da far combaciare perfettamente, in uno stesso scritto, espressioni dialettali, filosofia di rimbalzo, citazioni letterarie, commedia umana, humor, e struggente, caldissimo amore. Per questo aspetto, mi ricorda un po’ il pluralismo caleidoscopico di Gadda – non come me, che mi limito ad arrancare dietro un caos “d’ambiente” concreto e strutturale, che di letterario non ha niente, ne avrà mai. Tutto ritorna al suo posto, in Pascale. I pezzi in cui ha scomposto la vita riprendono, atavicamente, istintivamente, la loro originaria omogeneità grazie al lavoro della sua penna, perché quello di Pascale è un lavoro di corpo e anima, come costruire una sedia, dice lui, come fare un tavolo: Che emozione si prova a costruire un tavolo?, si chiede, Nessuna, eppure senza il tavolo saremmo persi, il tavolo fa la nostra felicità, il tavolo è bello, perché ci mangiamo su, e ci riuniamo intorno ad esso.

Pacale ci tiene a dire che la sua scrittura non ha forzature – o ne ha il meno possibile –, che è una scrittura popolare, fatta per usufruirne, per berla, per mangiarla, per giocarci a nascondino nel prato, per farci l’amore di notte, sui prati al chiaro delle stelle, o in macchina, con Brunella che si addormenta accanto a noi, o dentro i portoni, al buio e col cuore all’assalto. Grazie a Pascale, allora, il passato – che probabilmente per la maggior parte non siamo riusciti a vivere in pieno nel momento in cui ci è accaduto –, il passato, dicevo, torna a risplendere nel presente, e nel futuro, ricollegandosi, finalmente, ogni tassello della nostra vita, a una scena primordiale – come la chiama lui – una scena atavica, del tutto nostra, rinvenuta la quale possiamo metterci a viaggiare attraverso il tempo, avanti e indietro, come fossimo degli scienziati pazzi. Così, studiare le parole e gli scritti di Pascale è come calarsi in Calvino, in Vittorini, nel magnifico Sciascia di Porte aperte, ma anche in Svevo, Pirandello, Manzoni. Studiare Pascale è una continua scoperta, un arricchimento mostruoso che non ha mai fine.

Ne la manutenzione degli affetti – titolo splendido, a mio avviso, ed estremamente significativo, che presume in se stesso una sottile, ardente cognizione del dolore –, come in S’è fatta ora, come nel resto della sua produzione, Pascale non si accontenta di raccontare, ma preferisce comunicarci una sorta di pensiero filosofico, infinito, che sale a galla, a sprazzi, nel corpo di tutto il testo (“corpo” in senso letterale, inteso come sostantivo fisico), mediante l’uso continuo di metafore. Troppe metafore si annullano, spiega Pascale, ed è così che ci ritroviamo nudi, io, il lettore, le storie, la lingua, i personaggi, l’amore, a navigare in mezzo al tempo e alle persone che ci hanno fatto, e che abbiamo fatto, o contribuito a fare, non più prigionieri di una scena atavica, ma finalmente consci della stessa. Pronti alla vera e propria manutenzione degli affetti, mai più schiavi di un topos letterario, di uno stereotipo mediatico, di un falsissimo prototipo d’amore. Nudi, ed emozionati, aggiungo io, perché la scrittura di Pascale si scarcera ma non ci assolve. E si dà, Pascale, in pieno a noi, senza rimorsi e remore, con un linguaggio finalmente liberato delle farciture linguistiche, delle bardature circensi e dei morsi esteticizzanti che frenano e imbrigliano il cavallo letterario, impazzendolo il più delle volte, drogandolo, deformandolo, tanto da restituirci, quando ciò malauguratamente avviene, più che uno scritto e uno scrittore veri e propri, la brutta copia di uno scritto sentito, vissuto, amato, fatto – come la sedia, come il tavolo –, il cattivo duplicato d’un sentimento vero. La scrittura di Pascale, al contrario, che invece fa il tavolo, cechovianamente viva, sincera, è una scrittura che riesce a restituirci uno sguardo umano e, allo stesso tempo, una penna così tanto poetica da farci venire le lacrime agli occhi. Ma non si tratta di lacrime alla cipolla. Tutt’altro. Si tratta di lacrime all’amore e allo struggimento di vivere.

Allora, per esempio, racconta Pascale come Cechov, medico per molti anni, si annotasse pedantemente tutta una umanità pulsante e sofferente e gioente, umanità che, sotto i suoi occhi attenti, clinici e innamorati insieme, nasceva, cresceva, invecchiava e a volte, purtroppo, moriva insieme a lui. Questa umanità che Cechov amava, sentendosi tanto prediletta, non poteva che riamare l’uomo che l’aveva finalmente scritta e, riconoscendosi nei quadretti di Cechov, notava istintivamente che il maestro mai, come invece Tolstoj, zoomava troppo sulle ferite umane, sul dolore, sulla morte, mai godeva, come anche racconta Gaber a proposito dei giornalisti odierni, della purulenza della ferita, dello sfacciato moltiplicarsi dei virus, dell’inumano palesarsi impudente, villano, volgare, delle bassezze, delle altezze, umane. Al contrario, il popolo sapeva che Cechov non si vendeva – e non vendeva il popolo stesso, soprattutto – a una scrittura d’assalto, d’eccezione, da strillone, e che il grande maestro aveva per lui “un umile, costante, vigile sguardo quotidiano”.[5] E fu per questo che, racconta ancora Pascale, quando Cechov, quasi in fin di vita, presenziò alla prima de Il gabbiano, in scena al Teatro di Mosca:

 

[…] dalla platea, dai palchi, dai loggioni, pure da dietro le quinte, si levò un solo grido: fate sedere Cechov, fate sedere Cechov. […] Il popolo russo, quello stesso popolo che Cechov aveva descritto nei suoi racconti con attenzione e misura (medica), senza mai esagerare con gli aggettivi, adesso quel popolo gli stava restituendo, con la stessa attenzione (medica), lo sguardo. […] Allora, diciassette anni fa, dopo aver letto la lettera[6], pensai che lo scrittore deve attenersi ai dati, l’unico modo per non esagerare con le ferite, quelle dei suoi personaggi e quelle del mondo. In fondo tutto dipende da lui, da come lo scrittore rappresenta il mondo. Perché non sempre le ferite puzzando di morte. Esagerare con lo zoom, parlare a sproposito di cancrene, di tumori e metastasi. Insomma, esagerare con gli aggettivi significa avere in odio il mondo. Sperare nella sua dannazione. E i dannati, si sa, poi non possono restituire lo sguardo. Se ne stanno lì, lontano, all’inferno, senza possibilità di parola.[7]

 

 

Devo essere sincera, io questa storia di Cechov la sapevo. L’avevo letta nella lettere, l’avevo letta in altri libri, l’avevo letta pure nelle Lezioni di letteratura russa di Nabokov. La sapevo, però, vi giuro, non l’avevo mai saputa così.

Così, semplicemente emozionante, “senza esagerare con gli aggettivi”, non l’avevo mai saputa. Non l’avevo mai saputa in questo modo così semplice, come allacciarsi una scarpa, appunto, come guardare il sole dritto in faccia.

E poi il contorno. E poi la riflessione di Pascale sulla funzione dello scrittore. Ciò che lo scrittore deve fare. E che dallo scrittore dipende tutto, nulla escluso. Non riesco a non emozionarmi. Non riesco a non gridare che questa è la mia letteratura, che questa è la mia vita. Che da oggi sono viva.

Fermatemi. Fermatemi, vi prego. Non riesco a trovare un punto in cui potermi interrompere con la citazione. Man mano che rileggo Pascale, man mano che ritrovo Cechov, man mano che mi addentro nel mondo umano e animico di questi grandi della letteratura e della vita, io non resisto più, mi lascio prendere dall’amore puro per questi enormi esseri, non oppongo resistenza alcuna, corpo mente anima, non li controllo più, né più lo voglio, lascio che mi trascinino e mi amino.

Ma è vero, bisogna pur fermarsi, altrimenti smetterei di essere un soggetto attivo e mi lascerei curare. Poiché è lo stesso Pascale a raccontarci che, piuttosto che parlare di amore come cura, è meglio esprimersi sotto forma di manutenzione dell’affetto. Tutte le cose belle devono finire, dobbiamo accettarlo, dobbiamo imparare a sopportarlo, è inutile scrivere parole avvenenti ma inservibili, amori belli come dio e orizzonti imperlati di rugiada, perchè alla fine la falsità delle nostre parole si ritorce contro di noi.

L’emozione degli scritti di Pascale, di Cechov – e di quelli che vorrei scrivere io – non è mai imposta, indotta dall’autore. Questi due scrittori ci raccontano con pudore e amore l’esistenza, ce la analizzano, ce la riportano un poco meno complicata, e anche molto più dotata di senso, ma non più interessante di come sia in realtà. Non la sfalsano perché noi ci sentiamo curati dalle loro parole (eppure Cechov era un medico, non lo dimentichiamo!), non ce la indorano, perché dopo ci sentiremmo vuoti. La poesia dei loro scritti sta tutta nel succo, nell’interno, nella polpa dei loro romanzi, dei loro racconti. Non siamo costretti a rimanere folgorati da quello che scrivono. Dobbiamo scavare molto a fondo, per scoprire quanto sono lirici. Possiamo anche odiarli, o non accorgerci che sono esistiti. Ma se li troviamo, siamo persone finalmente vive.

E così non c’è più bisogno di far morire per forza le persone per far piangere i lettori, né c’è bisogno per forza di un colpo di scena per stupirli. La suspense ci viene dalla vita quotidiana, dal modo in cui Gurov, incurante della sensibilità e del dolore della sua donna, divora un melone mentre Anna Sergeevna piange disperata e nuovamente inutile. Dal modo in cui, più tardi, un amico reagisce all’epifania di Gurov nello stesso modo. Dal modo in cui Gurov, alla fine della storia – che non ha mai fine, come La cognizione del dolore di Gadda, e persino Quer pasticciaccio brutto di via Merulana, che sarebbe un giallo, e per questo dovrebbe per forza finire, ristabilendo l’ordine iniziale, rispondendo a precisi criteri etici e politici e sociali; ma che, magicamente, splendidamente, non finisce mai –, dal modo in cui Gurov, dicevo, si rende conto che è Anna, quella che vuole per la vita, sentendo però d’improvviso gli anni pesargli sulle spalle – come dice Pascale – e chiedendosi, in quel momento, se potrà. Se avrà il coraggio. Se avrà la forza. L’avrà?

La suspense ci viene dall’accelerazione dei battiti del cuore di Vincenzo Postiglione che, poco prima dell’avvento dell’anno nuovo, crede di vedere suo padre tramortito in mezzo alla strada. Non siamo in ansia perché l’autore, in questo momento, ha creato forzatamente un climax, siamo in ansia perché Vincenzo Postiglione siamo noi. E quando scopriamo con sollievo che non è nostro padre, quello in fin di vita, diventiamo Tiramolla insieme a lui:

 

[…] e però, questa volta, concentrandomi a dovere, piano piano, feci come Tiramolla, resi il mio corpo elastico e mi liberai dal dolore, dall’angoscia, e iniziai a correre verso il capannello di gente. Con irruenza buttai tutti all’aria gridando:

“Papà, papà!”

Mi rispose una voce:

“Vincè, che cazzo gridi!”[8]

 

E’ nostro padre, non è morto, sta benissimo, e adesso siamo liberi di ridere. Nostro padre è vivo, e adesso siamo liberi di piangere. Non ci serve più, in questo mondo liberato, vero, alcun buonismo o alcun politically correct. Non ci serve non offendere, perché non offendiamo per natura. Non ci serve non essere volgari, perché non lo siamo per natura. Non ci serve cercare una lingua alta, che sia una lingua finta. La nostra ricerca continua, se amiamo davvero la letteratura, andrà molto oltre una mera collezione di sinonimi eruditi. Sarà uno studio di contenuti, e un arricchimento di forme e stile come per riflesso. In questo modo, il regionalismo latente di alcuni passi di S’è fatta ora, assolutamente necessario al contenuto di quest’opera, si mescolerà allo studio attento della vita e della storia umana, e a certi attimi di poesia che a un tempo – nonostante Pascale dica di amare troppo la poesia per poterla scrivere –, che a un tempo, allora, diventano un canto fatto a onde, lo scorrere inesorabile del tempo, l’alternarsi epico delle maree, la magica miglioria della morte, per risalire, cocciuti, la corrente, sfidare i cavalloni e le secche disperate, e riaffiorare dritti nelle nostre mani. Se siamo stati ad attenderli, se abbiamo avuto il coraggio di sentirli.

Il tempo della vita, allora, diviene fondamentale per la ricerca di Pascale, nella quale troviamo il tempo storico, quello individuale, il tempo razionale, quello formale – concretizzato in date precisissime –, il tempo storico, il tempo razionale, il tempo intimistico, quello mistico e quello di fare sedie e tavole, il tempo elegiaco, idilliaco, ispirato, il tempo globalizzato, il tempo relativo, il tempo sociologico, il tempo dell’amore, il tempo di esser figli, il tempo di rimanere disperati, il tempo di diventare padri, il tempo di ascoltare i nostri padri, il tempo di essere soli e senza origini, il tempo delle canzoni di natale, il tempo della morte, il tempo di lasciarsi abbandonare.

 

 

Bibliografia di Antonio Pascale

La città distrutta (l’ancora del mediterraneo 1999, Einaudi 2001), vincitore dell’edizione 2000 del premio Sandro Onofri

La Manutenzione degli affetti (Einaudi 2003, Einaudi 2006 – edizione aggiornata con aggiunta di tre nuovi racconti), vincitore di numerosi premi letterari

Passa la bellezza (Einaudi 2005)

Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro (Laterza 2006)

curatore dell’edizione 2005 dell’antologia Best Off (minimum fax 2005)

 

Per mia intervista a Pascale, vedi:

http://scritture.blog.kataweb.it/francescamazzucato/2006/11/intervista_escl.html


[1] Einaudi 2003, Einaudi 2006

[2] Italo Calvino, Prefazione a Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi 2002, pag XII

[3] Antonio Pascale, La manutenzione degli affetti, Einaudi 2003, pag. 3

[5] S’è fatta ora, pag. 123

[6] lettera che Cechov aveva scritto nel 1899 a un amico, e nel corso della quale il maestro ci regala un bellissimo pezzo sulla letteratura, e sul proprio modus scribendi e cogitandi.

[7] S’è fatta ora, pag 124

[8] S’è fatta ora, pag. 57

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