Cose che non si raccontano – Antonella Lattanzi
7 min readEinaudi (Torino, 2023)
pag. 207
euro 19,00
Una giovanissima Antonella Lattanzi aveva pubblicato il suo primo libro “Col culo scomodo (non tutti i piercing riescono col buco)”, Coniglio Editore – marchio editoriale che allora, nel 2004, pubblicava anche narrativa, e conoscemmo subito il suo talento. Era appena arrivata a Roma, se non erro. E collaborava con Books and other sorrows, nella compagnia d’autrici e autori voluta da Francesca Mazzucato, con recensioni che ci stregavano proprio. Da allora, insomma, abbiamo letto quasi tutti i suoi libri. Entrando perfino nelle sue pubblicazioni istrioniche e piene d’amore per la sua terra d’origine, pubblicate da Newton Compton, vedi il rappresentativo: “Leggende e racconti popolari della Puglia”; con, su tutto, san Michele Arcangelo, ma come nemesi del demoniaco Calcante.
Dunque arrivò “Devozione”, il romanzo d’esordio firmato nel 2010 con Einaudi. Quello che più di tutti, forse più ancora del precedente “Questo giorno che incombe” (HarperCollins, Milano, 2021), riporta alla potenza dell’ultimo “Cose che non si raccontano” – dato alle stampe dalla stessa casa editrice torinese. Nel suo capolavoro Lattanzi presentava queste due figure, Nikita e Pablo, giovani che vivono insieme a Roma proprio da fuorisede. Hanno 26 anni. Sono eroinomani. “La loro esistenza è scandita da visite al Sert, sterili incontri con medici e psicologi, metadone in affido, astinenza che morde, buchi in vena.”. Poi appare Annette, ricca francesina, e rapirla sembra l’unico modo per risolvere definitivamente il loro, unico e doppio, problema di procurarsi la roba. Ma quando lo sballo svanisce, il sequestro d’Annette diventa l’altro, rimbalzante incubo. Mentre tutti i rapporti umani corrono dentro, di fianco e intorno a queste vite. A partire dalla necessità, dalla prossimità. Dalla famiglia. Con “Devozione” Antonella Lattanzi era riuscita a dimostrare d’aver potuto aderire alla realtà trasfigurata nelle pagine, dopo aver visto dal più vicino possibile questa realtà rifatta in letteratura.
“Ma l’amore non è una forza in grado di sconfiggere tutte le altre. L’amore è fallibile, egoista, sommerso dal sonno della sera o dalla sveglia della mattina, sta per affogare e nemmeno se ne accorge, torna su. Ci sono delle volte che boccheggia. L’amore c’è e poi si dimentica di esserci, come chi ha perso la memoria anche solo per un attimo. L’amore è un guanto che inguaina tutto, e un respiro dopo è perso dentro le mille cose che succedono, le persone che esistono, i pensieri che si stringono. Non è cattivo è non è buono. L’amore non è una verità. E’ solo un’ipotesi plausibile”, dirà poi qualche anno dopo e a pag. 90 proprio di “Questo giorno che incombe”, l’autrice anche di “Prima che tu mi tradisca”, ancora Einaudi, “Una storia nera”, Mondadori, nonché sceneggiatrice di “Fiore”, “Il campione” e “2Night”, articolista per giornali e riviste (ancora ricordiamo, per dire, uno suo ritratto scritto del Pigneto sul Corriere). L’estratto da “Questo giorno che incombe” scorre come retta parallela all’apertura d’uno dei momenti più alti e raggelanti del libro: “Le salì un grido dallo stomaco, dove tutto l’amore e l’orrore nascono”; ché qui un momento dagli effetti irreversibili s’è compiuto. Epperò questa volta dove la protagonista raccontata dal narratore della ‘trama’ ancora deve pacificare la sua realtà e la Realtà in genere. Quindi è tutto come sembra? Oppure solamente nel modo che sarebbe potuto essere? “Una scomparsa è peggio di una morte. Quando muori non ci sei più, quando scompari dove sei?”: qui non si sta parlando dei vuoti di memoria di Francesca, della giovane donna-madre sessualmente respinta dal marito. Oppure non solo di lei. Ma si sta ragionando su una scala sicuramente più ampia. Perché fuori dai limiti del palazzo del dramma da riscoprire. Questo romanzo d’Antonella Lattanzi è ispirato a un fatto di cronaca avvenuto a Bari, nel palazzo dove la scrittrice è cresciuta. E la suggestione di memoria personale si sente prepotentemente. Ed era forse proprio grazie alla distanza controllata con tempi e persone, che la narrazione di questo rapporto sentimentale si nutre ma per fortificarsi. Un’avventura difficilissima, in tutta evidenza. Che Lattanzi vive con l’arma d’una padronanza linguistica asservita al punto d’osservazione, invece del suo contrario.
E oggi? Dopo quell’immersione in un contesto di bambine e bambini bisognosi d’affetto, nella radiografia della famiglia di plastica, ecco la storia tutta personale. Il passo ulteriore, se possibile. Ché con “Cose che non si raccontano” insomma Lattanzi raggiunge il massimo possibile, superando la soglia del dicibile. L’autrice qui racconta una esperienza personale. Epperò racconta l’esperienza continua. Scoprendosi e dicendo tutto quello che si può dire nel presente suo infinito. Tutto quello che ammette un romanzo, il suo romanzo, non un diario capiremo più avanti. Intanto le immagini iniziali spiegano immediatamente che il sangue della protagonista è d’Antonella Lattanzi, che la presenza di sempre è quella del suo compagno Andrea, che il legame forte è con le sue vere, reali amiche. Che, soprattutto, la scrittura è la sua sostanza vitale. Dunque, come tutte le grandi scrittrici e i grandi scrittori, Lattanzi prende un tema che sente in ogni istante, lo cristallizza in un momento specifico per liberarlo in una traccia narrativa, lo rende universale facendolo ascoltare dalle pelle di noi tutti e tutte. Più volte ci s’emoziona, nella lettura. Prossimi al finale sopraggiungono le lagrime. Il tema è il più grande di tutti: la vita. Il desiderio di maternità passato nelle lavatrici dei nostri tempi personali fatti di lavoro e relazioni sentimentali. Lattanzi, è vero, racconta come si vive la naturalezza e la scelta d’essere scrittrici. Cosa vuol dire essere sempre e per sempre legati alla parola. Tanto da considerare il libro precedente a questo, il vero appiglio per non impazzire. Forse di più della forza del suo stesso uomo, che per predisposizione caratteriale, ci sembra di capire, vive diversamente da lei tutto questo magna; anzi, per motivi personali è costretto, o portato, lui, a vivere a tratti troppo di fianco il travaglio della protagonista, d’Antonella. ‘Travaglio’, certo. Qui da intendere a trecento sessanta gradi. Come al Sud è inteso il processo del parto. Come ovunque si dice la massa di traversie da scansare. La protagonista del libro ha abortito due volte. Vuole fortemente un figlio. Costretta a provare con la Procreazione Medicalmente Assistita è troppe volte vittima del caso. Innanzitutto quando si scopre che Antonella Lattanzi è portatrice di gravidanza tri-gemellare. Avvenimento giunto proprio in bocca all’uscita di “Questo giorno che incombe”. Dunque la trama è tutto il furore di vita che Lattanzi prova nel dover reggere a quello che le si prospetta davanti. Con tanto di veri e propri atteggiamenti vicini al maltrattamento al momento – indesiderato – del raschiamento finale. Antonella non ha figli. Vive un’altra vita da quella che dicono vivere le donne buone a dirsi di sentire dentro di loro quello che sarebbe potuto essere. Il percorso del romanzo è costruito dalla scrittura imperdonabile di Lattanzi. Servitaci direttamente nella testa, che sconvolge i nostri neuroni. Lisciando la materia scritta dei sensi di colpa. Siamo in un altro mondo. Lattanzi può dire qui tante volte e tutte le volte che vuole “amore” e “cuore”. Contro la volontà scientifica della medicina più attenta, distante dalle volontà di cattiveria d’obiettrici e obiettori di turno, d’usare, su tutti, per esempio il termine “rimozione” al posto di aborto.
Questo nuovo libro d’Antonella Lattanzi ci scoppia dentro.