Il figlio del direttore – Piersandro Pallavicini
4 min readMondadori
Milano, 2023
pag. 264
euro 19.00
Fa più meraviglia trovare la provincia del moralismo dei piccolo-borghesi o le espressioni dialettali di qualche ricco che spende e spande nella terra dei ricchi? Entrambe le cose. Anzi, molto ma molto di più. Ovvero: il benessere e le possibilità economiche che leniscono gli attacchi di solitudine, i rimandi esemplificativi di certi caratteri più schivi, la famiglia di plastica, la voracità di una mente elastica ma ferma a delle coordinate scritte nel sangue dell’infanzia. Michelangelo Borromeo, il protagonista del romanzo di Piersandro Pallavicini, “Il figlio del direttore”, si trova a ricordarsi per forza almeno il suo sessantesimo compleanno, il suo festeggiamento, e vorrebbe fosse da condividere.
Ma siccome dei suoi simili sono così troppo simili a lui da non ridere di sue battute inceppate che dovrebbero tenere in piedi una pizza di svago, si riprende appunto il possesso immediato dei suoi beni attaccandoli allo sterzo della sua Porsche per raggiungere il suo luogo di villeggiatura da riccastro, il paradiso inferiore di Cap d’Antibes nel quale rifarsi della pochezza d’una Pavia dove comunque è alimentato dai soldi d’altri possidenti in grado di darsi ai suoi libri rari e ai suoi prodotti gourmet.
Non so perché, ma all’inizio sembra che il Michi sia gay. Invece è reduce ancora in tensione dell’abbandono dell’unica donna della sua vita. Epperò questo romanzo del Pallavicini è l’opera che ci fa tornare in mente la brillantezza e il piglio d’”Atomico dandy”. Ed ecco allora che lo scrittore di Vigevano aggiunge altri elementi della narrazione, luoghi comuni e oggetti del luogo comune esaltati nella loro importanza ma resi minimi come meritano. Allora un telefonino nokia d’antan diviene il resto d’altri tempi e abitudini dal quale parte la chiamata del fantasma del “direttore”. Che diventa un finto sogno, nella trama. Perché dietro questo gesto/azione e rappresentazione di rimandi a una serie di abilità della scrittura, il telefonino in questione più che altro é segnato dalla sua proprietà: era di quel “padre/direttore”: con tutta la sua vita – quella però qui conosciuta dal figlio adesso libraio – riportata nelle pagine; nel mentre, ancora, il personaggio in più, quello buono a fare simpatia con vera per via delle paroline in ligure buttate ogni tanto nei dialoghi imprevisti col Michi, si prende un altro momento. In questo frangente della storia, però, appunto, il padre di Michelangelo è ancora “soltanto” un uomo che ha fatto carriera – dal nulla e con nulla – negli istituti banchari lombardi oltre essere, soprattutto, un offensivo sbruffone. Che su tutto prende il figlio a offese gratuite.
Ed arriva un altro colpo di scena, certo. E la storia s’allarga. E i manichini aumentano (uno su tutti – per importanza). E la prosa di Piersandro Pallavicini diventa sempre più torrentizia. Dove le donne sono solo comprimarie, seppure non quanto la madre di Michelangelo, cioè la più trasparente di tutte. Vero è però che qui Pallavicini ragiona, divertendosi e stupendo di continuo, con il concetto stesso di personalità. Con un romanzo che dall’inizio alla fine parla continuamente di questo, da tutte le angolazioni e più punti di vista.
Il tema centrale del libro cammina sempre nelle pagine. Domandando a noi se la nostra identità é quella che vediamo. O anche se siamo soddisfatti di ciò che siamo.